Gli studioli e il «desiderio insaciabile di cose antique»
La volontà di collezionare oggetti di grande valore ha un’origine molto antica e risponde a diverse spinte e pulsioni che possono essere: la ricerca di un prestigio sociale, l’ostentazione di potere, la proiezione di sé dopo la morte attraverso la raccolta e l’affermazione della propria cultura.
Nell’antichità attorno alle collezioni private fioriva un importante mercato di opere artistiche e, nel collezionismo di pregio, ci si preoccupava della relazione tra gli oggetti collezionati e l’ambiente che li avrebbe accolti; ad esempio Cicerone si rivolgeva ad Attico per cercare di procurarsi delle sculture per abbellire la villa di Tuscolo ma queste dovevano essere di un marmo coerente con gli ambienti a cui erano destinate[1]. Durante il Medioevo l’interesse per l’arte classica era solitamente legato a finalità più pratiche, come il riutilizzo per nuove costruzioni, e raramente per i suoi valori simbolici. Ma fra il Tre e il Quattrocento, quando il mondo classico diventa un esempio da seguire, si afferma l’idea di creare nelle abitazioni private un luogo dedito esclusivamente allo studio, all’attività intellettuale e alla conservazione delle opere d’arte. Nasce così lo studiolo, indicato dalle fonti con diversi nomi (camerino, studietto, scrittoio, antiquario), richiamo allo scriptorium di età classica nel quale si può pensare con nostalgia alle epoche passate circondati da bronzetti, gemme, monete e libri. È caratterizzato dallo stretto rapporto tra oggetti, ambiente e figura del collezionista, rapporto che si esprime attraverso un impianto iconografico di difficile decifrazione e di criptico significato per estranei e visitatori, che diventa il simbolo del prestigio culturale e sociale del proprietario[2].
Il rapporto perfetto tra committente e scelta iconografica lo si trovava nello studiolo di Lionello e Borso d’Este nel palazzo di Belfiore a Ferrara, purtroppo distrutto nel corso del Seicento, dove erano raffigurate su consiglio dell’umanista Guarino da Verona le nove Muse, protettrici delle arti e identificazione delle virtù e del buon governo del marchese. La più famosa di queste è la musa Calliope dipinta da Cosmè Tura.
Il programma iconografico dello studiolo di Federico da Montefeltro nel Palazzo Ducale di Urbino, terminato nel 1476, era volto a esaltare il duca sia nelle sue virtù cavalleresche che in quelle intellettuali. La decorazione unisce due tecniche artistiche: la pittura, con ventotto ritratti di filosofi, poeti e padri della Chiesa dipinti da Giusto di Gand e Pedro Berruguete; e la tarsia che rappresenta le virtù teologali, strumenti scientifici e musicali, libri e armature.
A Ferrara, con i “camerini di alabastro” di Alfonso d’Este, si passa dalla decorazione etica quattrocentesca a quella cinquecentesca di stampo classicheggiante, più libera e paganeggiante che fa perno sull’erotismo del mondo antico. Gli ambienti che componevano lo studiolo, nel quale era conservata la collezione artistica del duca, avevano alle pareti dei rilievi marmorei eseguiti da Antonio Lombardo che raffiguravano le imprese degli d èi, su uno dei quali era scolpita la frase «hic numquam minus solus quam cum solus alf. d.» per esaltare il concetto della solitudine caro ad Alfonso, e diversi dipinti di soggetto profano tra cui il Festino degli dèi di Giovanni Bellini e due Baccanali di Tiziano.
Per Isabella d’Este, invece, il possesso di «cose antique» e di opere contemporanee era una pulsione fortissima; dopo il matrimonio con Francesco Gonzaga nel 1489 fa di Mantova un importante polo d’attrazione per letterati e artisti e dal 1491 i suoi desideri si concentrano con la volontà di creare nel Castello di San Giorgio uno studiolo dove confluiranno reperti importanti assieme alle opere dei maggiori artisti del tempo. Per fare questo, si avvale di una squadra di agenti che faranno da intermediari con mercanti e pittori. Il desiderio di possedere opere rilevanti sia dal punto di vista della qualità sia da quello della provenienza prestigiosa è riscontrabile in una lettera di Francesco Malatesta, suo agente, che la informa sulla possibilità di acquistare dei vasi appartenenti alla collezione di Lorenzo il Magnifico, meccanismo per far cadere su se stessa la gloria e la fama del precedente proprietario.
L’acquisto più importante Isabella lo effettuerà nel 1502 quando, con l’influenza del fratello cardinale Ippolito, si farà inviare da Cesare Borgia una Venere antica e un Cupido già proprietà dei Montefeltro il cui ducato aveva appena invaso. Quando il ducato sarà liberato dalla presenza dei Borgia e le verrà richiesta la restituzione delle opere (nel frattempo il Cupido si era rivelata un’opera di Michelangelo) Isabella risponderà che il permesso di estradizione delle opere le era stato dato dallo stesso duca di Urbino.
L’ideazione delle pitture allegoriche dello studiolo è pensata dalla stessa Isabella coadiuvata dagli umanisti Mario Equicola e Paride da Cesarara. Inizialmente il soggetto del ciclo era il neoplatonico tema dell’amor sacro e amor profano, tanto che nei contratti stipulati Isabella faceva delle precisazioni al limite della pedanteria, ma dopo che queste vengono disattese cerca comunque di avere il loro prodotto indipendentemente dalla richiesta. Ad esempio Giovanni Bellini si rifiuta di seguire i dettami dati da Isabella rivendicando la propria autonomia di artista e la propria libertà pronunciando una frase che è stata definita una pietra miliare nella storia del mecenatismo artistico: ovvero che l’artista «ha piacere che molti signati termini non si diano al suo stile, uso di sempre vagare a sua voglia nelle pitture»[3].
Le pitture dello studiolo spettano ad Andrea Mantegna con il Parnaso e Minerva che scaccia i vizi dal giardino della virtù, a Perugino con la Lotta tra Amore e Castità mentre a Lorenzo Costa, che diventa pittore di corte alla morte di Mantegna, con La favola del dio Como e Allegoria della corte di Isabella. Non sempre però le sue richieste sono evase dagli artisti; ad esempio per anni cercherà invano di avere un’opera di Leonardo, probabilmente quel ritratto il cui cartone è esposto al Louvre, senza però ottenerla.
Il continuo incremento della collezione porta la marchesa a spostare lo studiolo nella corte vecchia del Palazzo Ducale, che termina nel 1522, e da un inventario stilato alla morte di Isabella nel 1542 risulta che ogni ambiente aveva una sua funzione precisa: nello studiolo erano stati riallestiti i dipinti allegorici con l’aggiunta di due tele del Correggio; i camerini erano adibiti alla musica e contenevano oggetti di piccole dimensioni mentre nelle nicchie del giardino segreto e della loggia erano ospitate statue antiche.
In questo modo la collezione abbandona le sale “nascoste” del castello di San Giorgio per andare a installarsi in nuove sale, più ampie, dove ha la possibilità di raggiungere molte più persone che in precedenza e nella volontà di esposizione armonica, coerente e razionale della collezione si può vedere un antecedente del museo moderno.
Note
[1] M. T. Fiorio, Il museo nella storia. Dallo «studiolo» alla raccolta pubblica, Mondadori, Milano 2011, p. 10.
[2] C. De Benedictis, Per la storia del collezionismo italiano, Ponte alle Grazie, Milano 2010, p. 33.
[3] Ivi, p. 41.