La potenza gentile della ragione

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di Michele Lavazza

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Lo Stato è il violento ordinatore della violenza o il solo spazio in cui essa può essere esclusa? Da Hobbes a Spinoza.

Thomas Hobbes è un teorico della forza come fondamento dello Stato. Nel contesto secentesco in cui si inserisce, nel quale quasi contemporaneamente Galilei e Cartesio gettano la basi della visione meccanicistica del mondo, egli considera l’uomo un fenomeno naturale del tutto omogeneo a ogni altro. Non più qualcosa di cui, come diceva Aristotele, non vi può essere scienza certa essendo le cose politiche disparate e instabili1; bensì un terreno di cui si può avere la stessa conoscenza esatta che, per lo stesso Aristotele, si può avere dei moti degli oggetti celesti.

Secondo Hobbes l’uomo è dominato dalla «paura della morte» e dal «desiderio di quelle cose che sono necessarie a una vita piacevole»2. Per natura, in un senso molto moderno di questo termine, egli tende alla soddisfazione di tali esigenze elementari; in assenza di vincoli, però, ogni uomo tenterà di raggiungere i suoi fini, con ogni mezzo a sua disposizione; e lo sforzo in questo senso di ciascuno sarà automaticamente, immediatamente esposto al rischio di collidere con quello di qualcun altro. Anzi: la rivalità, la diffidenza e l’orgoglio che agitano gli uomini non appena essi entrano in contatto reciproco sono alla radice della condizione tipica di ogni circostanza in cui vi siano uomini ma non vi sia uno Stato: la guerra.

Una circostanza del genere, uno «stato di natura», può anche essere una mera finzione metodologica, benché qualche indizio sulle sue caratteristiche ci provenga dalle situazioni prestatali, antistatali o interstatali. Di certo, però, là dove non vi è un’autorità che forzi il rispetto di una legge vi è la guerra di tutti contro tutti; e l’essenza dello Stato si riduce in ultimo appunto a questo: a una forza che, superando di molto quella di ogni singolo individuo, può realmente costringere gli uomini a fare ciò che esso comanda.

Lo Stato sussiste perché gli uomini, grazie alla ragione che possiedono accanto alle passioni, si rendono conto che la pace è più vantaggiosa per loro che la guerra, l’ordine che l’anarchia. La mancanza di leggi si traduce in uno stillicidio di continue violenze attraverso le quali nessun uomo riesce a prevalere sugli altri se non per la durata di un’effimera tregua, dal momento che la forza del più debole è comunque sempre sufficiente a uccidere il più forte. Al contrario dove, con un patto, si istituisce una legge, e insieme a essa una forza collettiva abbastanza grande da riuscire a far sì che ogni individuo la rispetti, ecco là esiste uno Stato, e tra gli uomini esiste la pace. Anche se si tratta di una pace preservata con gli stessi mezzi con cui è condotta una guerra.

Questa nuova condizione non è innaturale, la legge positiva non contraddice quella di natura – come potrebbe? Il patto si limita a configurare una situazione in cui il rispetto della Lex Naturalisla quale spinge l’uomo all’autoconservazione e alla quale comunque nessuno si può sottrarre – va a maggior vantaggio di ciascuno.

Da Hobbes è profondamente influenzata la riflessione di un altro grande pensatore del XVII secolo, Baruch Spinoza. Dal cartesianesimo egli trae una solida convinzione nella legalità necessaria, e trasparente alla ragione, della natura; da Hobbes l’idea che l’uomo sia, con le sue pulsioni e i suoi moti, studiabile alla stessa stregua di un sistema «linee, di superfici o di corpi»3. Come Hobbes, Spinoza è più drastico di Cartesio nel concepire l’uomo come un oggetto naturale che si muove obbedendo a leggi naturali inderogabili e rigorosamente descrivibili. L’uomo non è, nella natura, un imperium in imperio, un’isola di libero arbitrio orientata secondo valori morali all’interno di un mare di cieca necessità assiologicamente neutra; al contrario, egli risponde in modo regolare e prevedibile a stimoli causali, come ci si aspetta da quel sistema meccanico che è.

E, come per Hobbes, per Spinoza lo Stato si origina dalla consapevolezza degli uomini dell’utilità che ha per loro il reciproco rispetto piuttosto che la reciproca sopraffazione. Dato anche il fortissimo fondamento metafisico, fisico e psicologico sul quale si innesta la riflessione politica di Spinoza, nella sua teoria del diritto naturale e del patto sociale vi è un’identificazione estremamente diretta e pregnante tra l’individuo, il suo diritto e la sua forza.

Il diritto di ciascuno si estende fin dove si estende la sua determinata potenza. E, poiché la legge suprema della natura è che qualunque cosa si sforzi di perseverare per quanto è in suo potere nel proprio stato, e ciò non in ragione di un’altra cosa ma soltanto di se stessa, ne segue che ciascun individuo ha il supremo diritto a ciò, ossia (come ho detto) ad esistere e a operare a seconda di come è naturalmente determinato4.

Questo vale a prescindere dal fatto che i desideri degli uomini siano puramente passionali o orientati dalla ragione, che siano capricci o esigenze motivate e lungimiranti. Anzi dapprincipio l’azione degli uomini è senz’altro più rapsodica e sconclusionata che misurata e attenta. Le passioni trascinano ognuno in una direzione diversa e fanno entrare gli individui in conflitto gli uni con gli altri; al che si aggiunge che essi, anche dal punto di vista della ricerca dei beni di cui hanno bisogno per nutrirsi e ripararsi, senza l’aiuto reciproco versano inevitabilmente nella più abietta miseria.

Dunque per Spinoza, come per Hobbes, è perfettamente naturale che lo Stato si sviluppi in ragione, per così dire, della ragione dell’uomo:

Gli uomini, per vivere in sicurezza e nel miglior modo, dovettero necessariamente unirsi e quindi far sì che avessero collettivamente il diritto a tutte le cose che ciascuno aveva per natura, e che questo diritto non fosse più determinato dalla forza e dall’appetito di ciascuno, ma dalla potenza e dalla volontà di tutti insieme5.

Nulla cambia nella natura umana con l’istituzione del patto: esso «non può avere alcuna forza se non per via dell’utilità»6; e se gli uomini si sottomettono a esso e si impegnano a comportarsi secondo ragione (stabilendo «di frenare l’appetito nella misura in cui induce a qualcosa che è di danno per l’altro, e di non fare a nessuno ciò che nessuno vuole sia fatto a sé, e di difendere, infine, il diritto dell’altro come il proprio»7) è solo perché lo riconoscono utile per sé.

Se la speranza del bene e il timore del male, però, sono tutto ciò che vincola gli uomini alla parola data e al comportamento conforme alla regola aurea della reciprocità, allora cosa garantisce che nessuno a un certo punto, convinto di avvantaggiarsi, tradisca il patto, e quindi rubi, violenti, uccida? La coscienza razionale dell’utilità intrinseca di un dovere e diritto simmetrico, di tutti nei confronti di tutti, non è sufficiente, e quindi lo Stato deve tenere a freno gli uomini con un supplemento di motivazione, cioè con le pene inflitte a chi viola le leggi. Ancora, è in ultima analisi la forza che decide la convivenza umana, ancora la forza collettiva del pubblico che orchestra le forze individuali per permettere loro di coesistere.

Lo spirito con cui Spinoza però edifica questa teoria dello Stato è diverso, in un punto importante, da quello con cui Hobbes aveva eretto la sua. Per Spinoza la politica è il tentativo di realizzare pienamente la pace grazie a mezzi essenzialmente pacifici. Lo Stato non è un mostruoso Leviatano, che schiaccia e costringe gli uomini con la sola ma irresistibile autorità della sua bruta potenza; è al contrario un’istituzione forte sì, quanto basta a compensare con la coercizione violenta la mancanza di convinzione razionale nell’utilità della pace, ma che non si regge tanto su questa forza quanto sulla coscienza continua, costante, di tutti dell’utilità che ha per ciascuno la società.

Se dunque ad esempio per Hobbes la rivoluzione è impensabile, poiché la natura intrinsecamente violenta del potere rende concretamente privo di speranze ogni tentativo di sollevazione, per Spinoza è vero l’opposto: nessuno può rinunciare alle proprie prerogative naturali tanto radicalmente da accettare che la sua condizione sia peggiorata, anziché migliorata, dalla legislazione irrazionale di uno Stato tirannico. Qualunque uomo, in tali condizioni, tenterà con tutti i mezzi di sottrarsi a essa e esso. E là dove perde il supporto dei suoi cittadini, lo Stato perde la sua forza, e con essa il suo diritto di comandare8.

Mai gli uomini rinunciarono al loro diritto e trasferirono la propria potenza ad un altro in modo tale da non essere temuti proprio da coloro che ricevevano il loro diritto e la loro potenza9.

Per Spinoza, in ultima analisi, non la forza, ma la ragione tiene insieme lo Stato. La forza è una toppa che si può applicare là dove un difetto di razionalità porta qualcuno a pensare, erroneamente, che violare il rispetto reciproco gli sia più vantaggioso che osservarlo. In modo analogo, la religione (che, sotto le determinazioni storiche e letterarie del dettame di questa o quella confessione, si riduce sempre in ultima analisi al solo comando: «amatevi») serve a persuadere gli uomini ad agire rettamente là dove, per una loro insufficienza di comprensione, non si riesce a persuaderli razionalmente. Ma rispetto alla forza in senso stretto (cioè alla violenza) e rispetto alla forza della superstizione (cioè della religione), la forza della ragione è di gran lunga maggiore – e inoltre proprio nello Stato, nel circolo virtuoso sociale di collaborazione collettiva e crescita individuale, essa si perfeziona e diventa sempre più forte.

Citando Seneca, Spinoza afferma: «Nessuno conservò a lungo un potere fondato sulla violenza»10. Mettendo a confronto allora la brutalità dell’agone politico per come lo tratteggia Hobbes e la potenza gentile della ragione che, secondo Spinoza, tiene a freno gli uomini persuadendoli del vantaggio che hanno ad agire eticamente, possiamo forse concludere così: la forza domatrice piccola è molto più grande di quella grande.

Note

1 Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, tr. it. di M. Zanatta, Rizzoli, Milano 1986, I, 1.

2 T. Hobbes, Leviatano, a cura di A. Pacchi con A. Lupoli, Laterza, Roma-Bari 1992, cap. 13.

3 B. Spinoza, Etica, tr. it. e cura di E. Giancotti, PGreco, Milano 2010, parte III, prefazione.

4 B. Spinoza, Trattato teologico-politico, tr. it. di A. Dini, Bompiani, Milano 2001, cap. 16 § 2.

5 Ivi, cap. 16 § 5.

6 Ivi, cap. 16 § 7 con leggera modifica della traduzione.

7 Ivi, cap. 16 § 5.

8 Cfr. ivi, cap. 16 § 9.

9 Ivi, cap. 17 § 1.

10 Ivi, cap. 16 § 9. Per Seneca cfr. Troades, vv. 258-259.

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