Metamorfologia

L’idea di pianta originaria in Goethe e la sua funzione come concetto filosofico

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…filosofia e teoria scientifica, sebbene già in corso di divaricazione sul piano metodologico e logico, erano ancora relativamente vicine l’una all’altra in termini di portata e di prassi concreta – nel senso che gli stessi individui spesso si occupavano di entrambe nel tentativo di proporre una concezione organica e comprensiva di una grossa porzione di mondo – Johann Wolfgang von Goethe produsse diversi saggi e memorie di botanica, il più famoso dei quali è La metamorfosi delle piante.

Si dà il caso che, oggi, le discipline scientifiche siano (o si definiscano come) quelle di cui si può essere esperti senza essere esperti della loro storia; mentre è impossibile (forse per definizione) essere realmente competenti in qualunque settore umanistico senza che di ogni idea di cui ci si interessa si conoscano anche bene o male la genealogia e le vicende.

Perciò, La metamorfosi delle piante è oggi un libro per filosofi, non per biologi. Oggi, tuttavia, prendendo in mano questo volumetto un filosofo rimane colpito dalla natura più concretamente scientifica che astrattamente speculativa delle considerazioni che contiene: Goethe svolge davvero una morfologia come fenomenologia delle forme, come resoconto analitico delle strutture della pianta rigorosamente ordinato secondo il processo del loro sviluppo. L’indice del libro recita: Dei cotiledoni, Formazione delle foglie caulinarie da nodo a nodo, Passaggio alla fioritura, Formazione del calice, Formazione della corolla

La pianta ideale, illustrazione di P.J.F. Turpin per La metamorfosi delle piante di Goethe

Alla chiara enunciazione del programma di indagine e di sistematizzazione del fenomeno, tuttavia, è collegata strettissimamente anche la presentazione della tesi di fondo dell’opera (altrove Goethe scrive: «Soprattutto non si stia a cercare dietro ai fenomeni: essi stessi sono la dottrina»):

Osserveremo con attenzione il percorso normale seguito dalla natura, e impareremo a conoscere le leggi della metamorfosi per cui essa produce una parte mediante l’altra, e crea le forme più diverse per metamorfosi dello stesso organo (§ 3).

“Metamorfosi”, insomma, significa sì descrizione del divenire delle forme, ma significa anche ricerca intorno all’unità di quel divenire, e quindi studio dell’«affinità segreta fra quelle parti esterne delle piante – le foglie, il calice, la corolla, gli stami – che si sviluppano l’una dopo l’altra e, per così dire, l’una dall’altra; e del processo mediante il quale un solo e medesimo organo si modifica con tanta varietà ai nostri occhi» (§ 4).

Si sa fin troppo bene che il tipo originario in cui Goethe identifica la forma delle forme, l’archetipo di tutte le manifestazioni della pianta, è la foglia. I cotiledoni, che a partire dall’aspetto di un grumo di materia amorfa si appiattiscono, acquisiscono un colorito verde, mostrano vasi simili a nervature; il caule, ossia il fusto non lignificato che escresce dalla gemma alla sommità dell’embrione e da cui originano le bozze fogliari, quindi le foglie vere e proprie, dalle cui ascelle si sviluppano altre gemme che potranno diventare a loro volta organi funzionalmente e morfologicamente equivalenti al caule, dunque rami; il calice, formato da sepali che non sono che foglie caulinarie ora raccolte e disposte radialmente intorno a un centro; la corolla con i petali, gli stami, lo stilo, nonché i ricettacoli seminiferi, il follicolo, le silique, le capsule e dunque il frutto stesso, che specialmente quando è gonfio e succoso o legnoso e rigido occulta la propria affinità con la forma fogliare: tutto nella pianta, ogni manifestazione centrale e appendicolare della sua struttura, così come la pianta medesima nel suo complesso, come organismo composito e interconnesso, è conforme alla morfologia della foglia.

Di nuovo, il livello di dettaglio e l’attenzione analitica con cui Goethe classifica le tappe della vegetazione e della riproduzione impediscono di ricostruire qui precisamente l’insieme di prove che possono essere addotte a sostegno della sua tesi principale. Chiunque avrà voglia di esaminarle, tuttavia, o avrà la benevolenza di dare corda a chi scrive, potrà giudicare tutt’altro che campata in aria la dottrina goethiana della foglia come Urpflanze – specialmente se la considererà nel contesto delle discussioni scientifico-filosofiche più avanzate del tardo Settecento.

Tuttavia esiste almeno un’obiezione importante alla costruzione teorica di Goethe. Uno degli errori contro cui la logica più elementare più insistentemente mette in guardia è l’argomentazione ricorsiva: il dare per scontato, nello spiegare qualcosa, proprio quel qualcosa che si vorrebbe spiegare. Se un teorema contiene, tra le sue ipotesi, pure la propria tesi, allora affinché si possa anche solo cominciare a tentare di dimostrarlo occorre che, prima, lo si sia dimostrato. Come nel miglior Escher, come nel paradigma di Mandelbrot, l’autoinclusione cortocircuita con il ricorso all’infinito, e la prova fa bancarotta.

E dunque: se Goethe vuole spiegare la forma della pianta con la forma della foglia, con cosa vuole spiegare la forma della foglia? Se il tutto assomiglia alla parte, a quale parte di se stessa assomiglia quella parte?

Meridiana botamica di Linneo

Ci si presenta un’alternativa. Dobbiamo pensare che Goethe tenti una spiegazione in senso forte, e potenzialmente in senso metafisico, della natura dei fenomeni legati al mondo vegetale; che lo faccia identificando un archetipo (Urpflanze come Urbild); e che poi però non si interroghi sul modo in cui le istanze concrete di questo archetipo ne partecipano, inciampando quindi in una confusa circolarità (la foglia sarebbe forma di se stessa, oltreché della pianta?) o in un vacuo rimando all’infinito (vi è una forma ulteriore in comune tra la foglia e la pianta e tra la foglia e tutte le altre parti della pianta?). Oppure dobbiamo pensare che Goethe abbia tutt’altro intento; che, nei limiti in cui la distinzione tra fenomenologia e teoria ha senso, la sua concezione della metamorfosi delle piante sia più la proposta di un criterio descrittivo potenzialmente più efficace di altri che non un vero e proprio tentativo di ricondurre esplicativamente i fenomeni a un principio genetico, magari causale, che renda ragione del perché le cose stanno così e non altrimenti.

Ovviamente, quest’ultima è l’opzione corretta:

Passo passo, abbiamo seguito con la massima attenzione la natura; abbiamo accompagnato in tutte le sue metamorfosi la forma esterna della pianta, dalla fuoriuscita dal seme alla formazione di un seme nuovo, e, senza presumere di voler scoprire la molla prima dei fenomeni naturali, ci siamo concentrati sull’apparenza esterna delle forze, per opera delle quali la pianta trasforma via via lo stesso organo (§ 84).

L’ambizione di Goethe, natagli in petto nel settembre 1786, durante il suo primo viaggio in Italia, mentre passeggiava nell’orto botanico di Padova tra una varietà straordinaria di piante mai viste prima, è di ricondurre quella molteplicità a un’unità che le dia ordine. In un momento in cui, sebbene la tassonomia di Linneo andasse già affermandosi, le discussioni scientifiche e filosofiche sulla classificazione delle specie viventi erano al culmine dell’intensità, egli propone non un principio con forza esplicativa, ma un criterio per rappresentarsi il molteplice sotto un concetto unitario. Non il fatto che quella di Goethe voglia essere una spiegazione scientifico-filosofica ci insegna che non riesce a esserlo; il modo in cui lo è ci insegna cosa una spiegazione scientifico-filosofica può essere.

Si tratta, per Goethe e per la botanica del suo tempo, di stabilire un rapporto tra il semplice e il complesso; e che il semplice sia parte del complesso, al fine di migliorare la nostra comprensione di entrambi, non pone problemi. L’operazione di Goethe ha la stessa natura e la stessa efficacia di quella di Platone quando, per spiegare la tripartizione dell’anima, ne dà nel Fedro l’immagine di una biga, dove concupiscibile è il cavallo nero, irascibile il cavallo bianco, e razionale l’auriga, di cui si deve presumere che abbia un’anima completa e quindi tripartita; o di quella di Shakespeare quando, riprendendo una lunga tradizione, nel Troilo e Cressida riconduce l’ordine gerarchico umano del microcosmo all’ordine gerarchico universale del macrocosmo, che comprende anche il microcosmo; o di quella di Hobbes quando, a sua volta non per primo, paragona la collettività organizzata che è lo Stato all’organizzazione interna di un singolo individuo, la cui immagine iconica, resa sul frontespizio del Leviatano come un enorme individuo composto da altri uomini, andò in frantumi allo scoccare della Rivoluzione francese, la quale…

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di Michele Lavazza

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