Pirro, Varo, Custer… masse di soldati allo sbaraglio
Sui manuali scolastici alcuni dati ricorrono spesso senza essere corredati da un’analisi che offra compiutamente il senso della loro ricorrenza. Troviamo quindi molto spesso la presenza delle stesse parole tra gli stringati elenchi di cause poste a motivazione del successo o dell’insuccesso di una certa impresa. Con questi dati arriviamo ad avere una familiarità tale da archiviarli come ovvietà. Dunque ci appare semplicemente naturale il fatto che, tra due Stati in guerra, vinca quello capace di mettere in campo un esercito più grande o meglio addestrato, armato, motivato e rifornito. Se anche solo in parte succede il contrario, una spiegazione è d’obbligo, come nei casi in cui una condizione climatica inaspettata sovverta le sorti di uno scontro dall’esito apparentemente annunciato. Ricordiamo, in tal senso, le funeste campagne militari di Napoleone e Hitler in territorio russo o, parzialmente, quella statunitense in Vietnam. La Grande y Felicisima Armada, al largo di Gravelines, era gravata da una generale inferiorità tecnologica che anzitutto riguardava proprio la lentezza dei suoi galeoni. Ciononostante avrebbe sconfitto i più agili, ma troppo più esigui velieri inglesi, se non fosse stata travolta da una tempesta nordica. I casi più iconici sono forse la disfatta del 7th Cavalry Regiment al Little Bighorn e quella di Publio Quintilio Varo nella Foresta di Teutoburgo.
Quando non si verificano situazioni particolari, quale fattore può concedere a una forza nettamente inferiore a un’altra di prevalere? La risposta è la velocità e la velocità è solo il modo più evidente in cui si manifesta l’organizzazione dei trasporti e delle comunicazioni, cioè la messa a sistema del territorio. Le battaglie campali sono solo la proverbiale punta dell’iceberg. Anche se il loro esito presenta degli irriducibili margini di incertezza, alcune variabili possono prevederne l’esito più probabile con una ottima percentuale di esattezza. Inoltre, al di là delle singole battaglie, come sappiamo sin dai tempi di Pirro, ciò che conta è la tenuta generale di una realtà in stato di guerra. Anche se è difficile che ciò si verifichi, si può davvero vincere una guerra perdendo tutte le battaglie e persino tutte le schermaglie della guerriglia, purché la base che alimenta la capacità di esistere e offendere di una realtà geopolitica riesca a rimanere perlopiù integra e funzionante. Non solo nell’età moderna, ma in essa più che mai, il primo fattore che ha permesso a un Paese di superare le avversità che possono colpirlo è la sua capacità di chiamare a raccolta tutte le proprie risorse con la massima celerità. Perché ciò sia possibile, non basta che la risorsa richiesta arrivi velocemente laddove è stata richiesta, ma che pure la richiesta stessa arrivi rapidamente a chi di quella risorsa ha modo di disporre e che costui sia un collettore efficiente. Sebbene questo principio sia stato colto appieno dal mondo intellettuale e artistico solo agli inizi del Novecento, le guerre dell’età moderna sono state espressione di sforzo generale diretto alla velocizzazione. Questa passò attraverso le opere grandi e piccole di collegamento stradale, con la nascita e la diffusione di ferrovie, automezzi, velivoli, nonché nuovi strumenti di comunicazione sempre più rapidi e precisi (soprattutto telegrafi e radio a transistor). Passò però anche attraverso la capacità di raccogliere, trasferire e ridistribuire efficacemente risorse puramente economiche, come il denaro contante, i minerali estratti dalle miniere, il pescato, il cacciato, i proventi dell’agricoltura o le acque per irrigare, dare energia ai macchinari, bonificare le paludi o più banalmente porre fine alle inondazioni cicliche che colpivano certe zone. Si pensi al costante braccio di ferro tra accentramento e decentramento amministrativo, tipico di ogni grande entità territoriale. In generale, decentrando si raccoglie di più e più velocemente, ma si rischia di creare concentrazioni di potere e ricchezza dotate di troppa autonomia che poi di fatto non mettono quanto raccolgono a disposizione di nessun altro.
L’importanza della Raccolta è forse più evidente laddove vi sia una carenza di efficacia e quindi di velocità. Se fu possibile un’egemonia europea e nordamericana sul mondo intero, fu perché questi territori si spinsero maggiormente in questa direzione. In nessun’altra parte del mondo settecentesco vi erano altrettanti mulini e cantieri navali, per non parlare di banche o di compagnie commerciali et similia. Nei grandi imperi orientali la proprietà privata non era mai piena e questo rendeva rischioso tesaurizzarla, soprattutto nella forma di beni mobili o di vera e propria valuta. Per cinque secoli, l’Europa monopolizzò la fabbricazione di strumenti ottici e orologi meccanici, emblema del suo attaccamento a una visione nuova del tempo inteso come una ricchezza proiettata nello spazio, una proprietà che si poteva raccogliere e investire al pari di ogni altra, ma che forse più di ogni altra andava amministrata, uniformata e controllata. Fu questa prospettiva a creare i presupposti necessari a rendere gli europei così interessati alle scoperte di ingegneri come il francese Joseph Nicolas Cugnot (1725-1804), un pioniere nella produzione di macchine semoventi nel periodo preindustriale. La possibilità di costruire macchine a vapore era nota sin dal periodo ellenistico, ma soltanto in un mondo dove tempo, numeri e movimento potevano determinare direttamente il potere di un uomo il loro impiego nell’industria e nel trasporto ebbe l’occasione di cambiare il volto di una intera civiltà.
Quando una potenza soddisfa alcuni requisiti per essere egemone, ma manca completamente negli altri, si parla spesso di gigante con i piedi d’argilla. Tali furono, per esempio, la Russia zarista, l’India in molte fasi della sua storia, la Cina sul finire dell’epoca Ming e l’Impero ottomano. I cronisti del XVII secolo descrivevano rapiti la bellezza degli immensi accampamenti organizzati dai timarioti, con carovane di soldati che allestivano splendidi padiglioni in cui questi signori del feudalesimo islamico alloggiavano con tutta la servitù e gli armenti. C’erano molte risorse nell’Impero del sultano, moltissimi uomini e la tecnologia non era poi tanto carente, poiché le armi da fuoco si erano diffuse nell’Impero sin dal XV secolo e il regno di Solimano era stato un periodo di grandi innovazioni. Ciò che mancava a queste truppe era la velocità. Le tendopoli erranti erano un tipo di mobilitazione tanto spettacolare quanto lenta. Fu questa lentezza, oltre all’avventatezza, a far rovinosamente schiantare l’espansionismo ottomano contro i bastioni viennesi protetti dal “Leone di Lehistan”[1], accorso dal suo regno[2] a szabla sguainata[3] e alla testa di trentamila ùssari alati e qualche altro migliaio di cosacchi ucraini per difendere la causa cristiana con lo zelo di un templare. Lui era dotato certamente di un reparto cavalleggeri ben più rapido di quello musulmano, ma mai rapido e fulmineo quanto quello che, di lì a poco, sarebbe apparso in un territorio che era stato ridotto proprio a un feudo polacco per decenni: la Prussia, prossima a diventare la potenza militare più moderna e impressionante dell’Occidente.
La forza della Prussia consisté precisamente nella sua apertura sperimentale all’innovazione e alla capacità di applicarne sapientemente le conquiste alla sfera militare. Il confronto tra il modello prussiano e quello ancora più vincente dell’Inghilterra è interessante. La politica della casata Hohenzollern orbitò intorno alla creazione di un esercito permanente che consentisse loro di disporre costantemente di una raccolta di uomini perennemente adunati e addestrati, soldati professionisti che potevano rapidamente essere mandati da un capo all’altro del loro regno grazie a una rete stradale efficiente, figlia dello spirito degli junker, una classe nobiliare che non brillava per ricchezza sulla scena internazionale, ma che proprio per questo ripose le più grandi speranze nel nesso tra tecnologia, puntualità, efficienza e abnegazione nel servizio verso lo Stato. Questo fu il motivo per cui la via prussiana allo sviluppo, a differenza di quella anglosassone, poté combinarsi con il conservatorismo e l’autoritarismo più netti, nonché con una perdurante marginalizzazione della borghesia in seno all’agone politico. Un processo di trasformazione simile lo troviamo nell’Austria di Maria Teresa e nel Giappone della Restaurazione Meiji. Lo spirito dello junkerismo sopravvisse alla morte dello stesso. Da metà Ottocento, la Prussia si dotò di una rete ferroviaria tra le più avanzate dell’epoca. Nel 1866, la guerra lampo tra Prussia e Austria fu il primo caso di guerra di movimento. In tre settimane, il generale von Moltke portò le truppe prussiane in Boemia e ottenne una vittoria decisiva a Sadowa. Per molte potenze dell’epoca, raccogliere le forze in vista di una battaglia e condurle sul campo era ancora una faccenda che poteva richiedere diversi mesi. In quel periodo, comunque, qualcosa di analogo accadeva un po’ in tutto l’Occidente. Nella Francia di Napoleone III vigeva quasi una autentica tecnocrazia, focalizzata su treni e istituti di credito. Le ferrovie furono le protagoniste assolute anche dell’espansionismo statunitense verso i tesori del Selvaggio West, quindi anche dell’inarrestabile ascesa della potenza commerciale americana nei mercati del vecchio mondo.
Note
[1] Così i turchi soprannominarono Jan III Sobieski.
[2] Non la sola Polonia, bensì la Confederazione polacco-lituana che comprendeva anche Bielorussia e Ucraina. Dopo il suo regno, questa realtà sarà indebolita, oppressa e persino ripetutamente cancellata dal crescente potere militare di Russia, Prussia e Austria.
[3] Si tratta della tipica sciabola da cavalleria polacca. Dopo le sue vittorie contro i musulmani, il re ebbe modo di sostituirla con il Pontificale, ovverosia lo stocco del “Campione della Cristianità” che gli donò papa Innocenzo XI.