Lo sviluppo graduale

di Federico Filippo Fagotto

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Vorrei provare a scrivere l’articolo, ma il pericoloso felino che ho davanti me lo impedisce! No, non è una delle nostre tigri, anche se dall’India uno se lo potrebbe aspettare, ma quel suo cugino più piccolo e cocciuto. E non è certo l’unico disagio. Dal momento che colui che scrive si trova in India, appunto – per la precisione ad Assagao, vicino Panjim, nel Goa – la mancanza di fonti bibliografiche pesa come per un albino l’aver dimenticato a casa la crema solare. Vedremo cosa offre il poco che ci si è portato dietro e, soprattutto, il tanto che offre questo paese.

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Esagramma numero 53

Il tema del nostro numero è: Lo sviluppo graduale, esagramma numero 53, se non vado errato. Superiamo subito l’incubo di scoprire che il tema assomiglia troppo ad altri precedenti (Ascesi, Accrescimento, etc.) e riconduciamolo al secondo tema cui è collegato, ossia Dopo il compimento, il penultimo esagramma dell’I Ching. Abbiamo a che fare, quindi, con uno sviluppo che segue un momento perfetto, coronato, “confetto”, proprio il significato della parola “sanscrito”. E proprio in sanscrito, guarda caso (è il libro di grammatica qui di fianco a ricordarmelo), fra i tre gradi di sviluppo di una radice verbale (grado zero, guna e vrddhi) alcune volte si parte dall’ultima, quella “incrementata”, per ricostruire l’alternanza vocalica. Nella radice yaj- (“sacrificare”) si toglie una -a per trovare la forma ij-ate del participio, anziché aggiungerne una dal grado zero (in tal caso si avrebbe ej- di cui le fonti non recano traccia). Oggi, però, mi chiedevo come fare a non “sacrificare” l’attenzione del pubblico con questo esempio che rasenta lo spleen, ed è allora che mi è venuta in soccorso la Cattedrale del Sé, nel quartiere di Old Goa. Prende il nome da quella più nota che si trova a Lisbona, la quale è andata al suolo un po’ di volte nel corso della sua storia, l’ultima con il terribile terremoto del Settecento (che aveva suscitato persino l’attenzione di un certo Immanuel, laggiù a Königsberg). E pensare che ci sono alcuni paesi, come il Giappone, in cui i santuari li radono al suolo a bella posta, per poi ricostruirli ogni volta da zero. Valli a capire gli shintoisti! Sembra comunque un buon esempio della necessità di ripartire faticosamente da capo, dopo un tipo di “compimento” molto particolare: una bella sciagura!

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Esagramma numero 63

Si era pensato, quindi, di impostare l’articolo a mo’ di panoramica sui modi in cui alcuni paesi asiatici sono riusciti a rialzarsi dopo un crollo, vedi il terremoto in Nepal, Fukushima, lo tsunami del 2004 e via distruggendo. Non mancherebbero esempi classici a dar manforte. Vi è uno śloka delle Upanishad (cioè un inno vedico in versi, in Br.h; IV.4.1-2, e posso dirlo con esattezza grazie al libro fatto entrare a forza nello zaino) che, come dice il commentario, «indica il processo graduale di ciò che normalmente si chiama morte»… più compimento di così!

Ovviamente, morte intesa come passaggio a una nuova reincarnazione. Tra le varie immagini poetiche del testo sacro, aiutiamoci con quella dell’orafo che recupera una parte dell’oro dai monili per darvi nuova forma – metafora che ci è molto familiare, visti i lingotti con cui ha giornalmente a che fare la nostra amata rivista (guai al primo che squarcia il velo di Māyā ricordandoci che non è vero!). Il reiterarsi karmico delle rinascite dà un’immagine simpatica al continuo sviluppo che segue ogni compimento, e che stempera un po’ il brivido esiziale della morte. Sempre nelle Upanishad troviamo descritte sette specie di cibo che, sebbene divorate di continuo, si rigenerano senza sosta (Br.h; I.5.2), in aperta sfida forse con le coazioni a ripetere dei vari Sisifo, Penelope e il fegato di Prometeo. A proposito di interiora: se del maiale non si butta via niente, del cinghiale si può buttare anche tutto… tanto ricresce!, almeno così ci insegna l’Edda, che ricorda il mito nordico del cinghiale Sæhrímnir, le cui carni erano inesauribili, per la gioia di chi ci ha fatto un bel ragù.

E però, a dire il vero, la Cattedrale del Sé che si trova qui in India non è certo quella iellata del Portogallo, bensì la più grande e prospera chiesa cattolica di tutta l’Asia. E, non contenta, possiede anche una campana che, legenda voluit, continua a crescere a dismisura, molto gradualmente. Insomma, qui non smettono di svilupparsi anche quando tutto sembra già splendido e rassicurante. Allontaniamoci dunque dall’orrendo terremoto di Lisbona, citato anche nel Candide, e torniamo all’idea di colui contro cui si era scagliato Voltaire: l’idea del migliore dei mondi possibili, di messer Leibniz. E tutto questo, tuttavia, per un problema forse più grande ancora, riconducibile alla vita del Buddha. Da dove era partito? Dalla bambagia, dal migliore dei mondi. Era già “arrivato”, lui, già compiuto, ma non gli andava bene, no di certo, e si è messo alla ricerca del suo ātman, del suo vero Sé, contro tutto ciò che si spacciava come tale. Anche la nostra cattedrale non si riferisce davvero al Sé individuale, ma all’acronimo di Sede Episcopalis (anche l’episcopato è nell’etimo una forma di compimento).

Quale forza d’animo ha aiutato Gautama a capire che il suo presunto compimento era illusorio? Come ha fatto, nel suo bel palazzo, a non impigrirsi? E come lui il saggio Patañjali, che nello Yogasūtra parla del metodo dello yoga che, una volta conseguito, porta a un «irreversibile stazionamento (avasthāna)». Anche lui si fa problemi riguardo al «ridivenire in essere degli [yogin]», i maestri, una volta che sembrano aver ultimato il proprio cammino. Il segreto dei vari Buddha, Patañjali e degli altri onesti venerabili non è affatto facile da decifrare, soprattutto per un occidentale. Mircea Eliade ci ha provato, e nel suo libro dedicato allo Yoga (l’ultimo che lo zaino abbia avuto cuore di tollerare), si è soffermato sul concetto di parināma come “sviluppo” e “processione” dello spirito. Sia lo Yoga che la dottrina del Sāmkhya non lo intendono, a differenza di molti pensieri occidentali, come superamento o creazione, ma «attuazione delle potenzialità latenti», cioè come manifestazione progressiva del già compiuto. Senza sapere ancora quale film escogiterà il nostro redattore della rubrica di cinema, consiglio qui il film Samsara, del 2001, che mostra un monaco compiere un graduale cammino a ritroso, dalla presunta perfezione dell’isolamento meditativo sino alle sfide della vita terrena.

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Colonnato di un tempio Vijayanagara | Matanga Hill, Hampi (Karnataka), India del Sud

Proprio oggi sembra la sera giusta, in effetti, per questo tema. Goa non rende certo l’immagine più verace dell’India, per il marchio dei domini britannici e portoghesi e l’attuale presenza di molti turisti stranieri e residenti facoltosi. La magione di uno di questi, una signora inglese di nome Carol che si occupa di cani e stoffe, è quella dove colui che scrive ha trovato il più florido esempio di ciò che da queste parti si dice susiegad, cioè “tranquillità” nel senso di benessere e vita agiata. Una vita pacifica, certo, meditativa anche, ci mancherebbe, ma distante dai lavoratori che spaccano le pietre lungo la strada sotto i trenta gradi all’ombra, o dalle donne sulla spiaggia che portano in testa dei cesti di frutta che un uomo adulto solleva a malapena. Stasera, in più, lady Carol è andata al ristorante, poverina, la servitù di domenica ha il giorno libero e al sottoscritto viene facile sentirsi un Mahārāja, qui da solo nella reggia. È ora di muoversi!, per non suscitare lo sdegno del vecchio Siddhy. Una buona tappa per sferzarsi può essere Hampi, con i suoi templi sperduti, a nord del Karnataka.

Certo, il presente articolo uscirà solo a viaggio terminato, cioè dopo il compimento. Se sviluppo graduale sarà stato, persino illuminazione subitanea, magari, o più probabilmente subitanea franata da una roccia pericolante, soltanto l’I Ching potrebbe predirlo. Peccato che nello zaino non ci stesse!


Per le calligrafie dei due esagrammi ringraziamo il maestro Bruno Riva e il sostegno dell’associazione shodo.it.

Autore

  • Federico Filippo si risveglia dal sonno dogmatico nella bella facoltà di Filosofia in Statale e si riaddormenta con gli studi a Venezia. Tornato a Milano, dopo il gong della laurea in Scienze Filosofiche, inizia collaborazioni con la cattedra di Estetica e nel frattempo, in fuga dall’accademismo, ha la fortuna di radunare un gruppo di ragazzi pieni di stoffa e fondare la rivista di arte e cultura La Tigre di Carta, cui segue l’Associazione culturale La Taiga che gestisce il teatro e circolo culturale Corte dei Miracoli. Fra editoria ed eventi, gioca col violoncello il bridge e lo yoga. Tutto ciò non fa bene alla salute... meglio scrivere!