Spleeeeeeeeen!

La modernità raccolta in folla. (A spasso.) 

Vedete quell’uomo? 

Quell’uomo con il mantello, lì, davanti a voi. 

Sta camminando lentamente, sotto i tigli del Jardin des Tuileries, senza curarsi della pioggia che ha cominciato a cadere all’improvviso, rovinando le colazioni sull’erba della capitale. Non se l’aspettavano, i cittadini festanti, questa pioggia d’agosto, e i bambini e i giocolieri e i codarossa e gli scioccogianni corrono a ripararsi sotto i baracconi della fiera. L’uomo con il mantello procede come se nulla fosse, assorto nei suoi pensieri, i capelli radi schiacciati sul viso precocemente invecchiato, le scarpe coperte di fango. 

Al limite estremo della fiera si ferma un istante, dinnanzi alla miserabile capanna di un saltimbanco. Un vecchio curvo, caduco, decrepito. Una rovina d’uomo. Un saltimbanco che non canta, non balla, nemmeno piange o implora. Ha abdicato. Il suo destino si è compiuto. L’uomo dalle scarpe coperte di fango sta per lasciargli delle monete quando viene trascinato via da una folla di monelli. Per un istante ancora si volta a guardare quel derelitto, agghindato di comici stracci, in cui rivede se stesso, «vecchio poeta senza amici, senza famiglia, senza figli, degradato dalla miseria e dall’ingratitudine pubblica»].

Ora lo vedete camminare lungo la rive droite, gli occhi bassi, perseguitato dal fantasma del saltimbanco. Raccoglie un sasso, lo passa da una mano all’altra, si avvia sul vecchio pont de la Concorde. Giunto a metà dell’arcata si ferma, appoggia una mano sul parapetto e scaglia con rabbia il sasso nelle acque della Senna. Onde concentriche si allargano in un verde ribollire di schiuma. Dal foro prodotto nel fiume emergono due Satana e una Diavolessa, una chimera, tre fate e un tirso, un giovinetto con la corda ancora stretta attorno al collo. Come incubi gli si avventano contro, danzano nel suo respiro, nel suo secondo sguardo da ultimo mistico si bloccano. 

Poi, addomesticati, anch’essi lo seguono. 

Seguono l’uomo con il mantello e le scarpe infangate, lì, davanti a voi, il più grande poeta del secolo. Il più acuto teorico d’arte su piazza, cittadino maledetto della capitale infame. Ma queste folla di persone intorno a noi, che attraversa per l’ennesima volta il fiume, che riempie di voci la domenica parigina, non lo sa. 

L’uomo con il mantello, lì, davanti a voi, è Charles Baudelaire. 

Ora la pioggia è cessata, sul Boulevard Saint-Germain. 

A un chiosco compra il giornale. Lo sfoglia velocemente: solite banalità da 1859. Lo accartoccia con fastidio e lo getta in un cestino, non prima di avervi trovato scritto il suo nome. Il direttore di quel giornale ha rifiutato un suo racconto, accusandolo di “montare i borghesi”. Un’accusa di cui andar fieri, tutt’altro che infondata. 

Charles Baudelaire. Frontespizio de Les Fleures du Mal di Georges Antoine Rochegrosse

Guardate il sole, tramonta oltre i palazzi del quartiere latino. È la morte del giorno, luogo dell’apparenza. Un lutto che vale la pena festeggiare. Finalmente sorge la notte, luogo dello spirito, benedetta dalla luna. 

L’uomo con il mantello dà consapevolmente a un mendicante una moneta d’argento, falsa, che potrebbe diventare l’origine di una breve fortuna o la causa di una grave punizione. A un altro mendicante salta al collo. Lo riempie di pugni, di calci, di bastonate, finché quello si rivolta e glieli restituisce con gli interessi, che «uguale a me è solo chi è in grado di provarlo, degno di libertà è solo chi sa conquistarla». Mentre il poeta e il mendicante si leccano le ferite, un branco di cani randagi si avvicina minaccioso. Cani famelici, battuti infinite volte, richiamati dall’odore del sangue. Il fiuto affinato dall’esperienza li mette in guardia dal pericolo. 

Aggiustandosi alla meglio il mantello, l’uomo dalle scarpe infangate si allontana, seguito dall’orda di idee e protetto dai randagi in guardia armata. Un pensiero lo tormenta, ormai da tempo: l’ambizione del superamento della metrica. Due anni sono trascorsi dalla tormentosa pubblicazione dei Fiori del Male, straziato dalla censura, ed è nata l’esigenza di oltrepassare il capolavoro. Per arrivare al molteplice, alla realtà di cui è necessario scrivere, serve «il miracolo di una prosa poetica, musicale senza il ritmo e la rima, tanto mutevole e precisa da adattarsi ai movimenti lirici dell’anima». Una lingua ideale che nasce «dalle città immani, dall’intreccio dei loro smisurati rapporti». C’è bisogno di ulteriore tormento per chi è stato ripudiato e misconosciuto, per chi ha sepolto il suo amore: Jeanne Duval, la Venere Nera. La necessità di affondare nel male per scoprirne la bellezza, per rivelarne l’occulta connessione al bene. 

Lungo il boulevard spuntano delle panchine. L’uomo si siede, reclina indietro la testa restando immobile. Estrae un tozzo di pane nero e una fiaschetta di vino. Sembra che per un istante, forse per effetto dell’alcool, provi un senso di pace, che sperimenti una comunione con il mondo, e un sorriso beato si distende sulle sue labbra. Fischietta, addirittura, ripensando a quei «ridicoli giornali che pretendono che l’uomo sia nato buono». Poi, un piccolo essere scarmigliato, scuro e selvaggio, compare davanti a lui. Osserva con desiderio ardente il tozzo di pane. Sussurra: “Dolce!”. Il poeta dalle scarpe infangate spezza il pane e gliene porge una metà. Il piccolo selvaggio la afferra, titubante, ma non fa in tempo a portarla alle labbra che un secondo essere identico sbuca fuori dal nulla e gli salta addosso cercando di strappargli il boccone. I due si azzuffano, si rotolano a terra, si mordono, si graffiano, tentano di strangolarsi a vicenda. Quando infine, sanguinanti ed esausti, si arrendono per esaurimento delle forze, il tozzo di pane è svanito, ridotto in briciole che si sono mischiate alla terra. Il poeta finisce con un lungo sorso il vino e si allontana sconfortato, pensando che l’unica soluzione è ubriacarsi senza tregua, per sfuggire al «fardello del Tempo», per non essere sudditi del «superbo paese in cui il pane si chiama dolce, golosità tanto rara che basta a generare una perfetta guerra fratricida». 

Davanti all’abbazia di Saint-Germain-des-Prés, quasi all’incrocio con rue du Four, c’è un caffè con dei tavoli all’aperto. Degli uomini d’aspetto scompigliato conversano animatamente. Vedono il poeta dalle scarpe infangate che arriva barcollando. Cala il silenzio. Rimangono ammutoliti di fronte alle idee raccolte in folla che lo seguono, dai fantasmi che gli danzano intorno. Sono i filosofi e gli scrittori che sulla strada tracciata del poeta caduto costruiranno il pensiero della modernità. Ecco lì Nietzsche e Walter Benjamin, Simone Weil, Theodor Adorno, Marcel Proust e Jean-Paul Sartre, Derrida e molti altri che si mantengono nell’ombra. 

Le Spleen de Paris. Illustrazione di Pierre Cabanne
Le Spleen de Paris. Illustrazione di Pierre Cabanne

L’uomo con il mantello li saluta con un cenno del capo e procede lungo il boulevard rischiarato dalla luna ormai alta. Davanti ad un portone si ferma. Estrae una lunga chiave guardandosi intorno con aria furtiva. Apre la serratura e scompare nell’androne. Guardate la luce che si accende, lassù, in quella finestra del terzo piano. Dietro quei vetri, in un misero appartamento che rimane celato al voyeurismo di questo piccolo pezzo naïf, il poeta dalle scarpe coperte di fango si abbandona ai suoi vizi e sprofonda nell’angoscia delle sue dipendenze. Dentro quell’appartamento qualsiasi, ennesima cella nell’alveare della grande città, nasceranno notte dopo notte i cinquanta frammenti in cui la contraddizione emergerà come cifra del mondo, nell’orrore e nella speranza, nell’unione impossibile di caducità ed eternità. L’opera in cui nulla della ricchezza dell’esistenza viene distrutto. L’opera della duplicità e della dissonanza, del bello non più come armonia ma come compresenza di contrari, della solitudine nella moltitudine, dell’esperienza dell’infinito nel reale limitato, dell’ossessione del nuovo e dell’amore per la tradizione, della modernità come tempo che si disfa tra le mani, della città come luogo di frontiera in cui transita l’immane pluralità del mondo. 

L’opera unica che prenderà nome di Spleen di Parigi.

di T.D. D’Orfeo

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