Incarnare il cielo

cielo

Le grandi aspettazioni della storia non sono quelle che rientrano in piani strategici attuati per rispondere a minacce militari o esercitarle. I lunghi assedi, gli embarghi e gli attendismi sul campo sono misure contestuali, limitate tanto nella propria durata, quanto nella portata del risultato auspicato. Le attese che hanno segnato e persino determinato i percorsi dell’umanità nel mondo sono fenomeni ben più duraturi, consolidati, diffusi e caratterizzati da un portato spirituale che sottende immancabilmente un progetto tanto astrattamente ideologico, quanto concretamente politico.

Le principali aspettative escatologiche che hanno determinato le dinamiche sociopolitiche nelle età tardoantica e medievale sono state quelle di ordine millenarista, in particolare il messianismo. L’attesa messianica ha notoriamente un ruolo di prim’ordine nelle religioni abramitiche, ma l’arrivo di sapienti e profeti si colloca al centro di fedi molto distanti e diverse tra loro, come il mazdeismo, il rastafarianesimo, l’esoterismo New Age[1] e alcuni credi dei nativi[2] nordamericani. Quasi sempre, un salvatore avrebbe già fatto la propria comparsa, prospettando però una propria seconda venuta o il subentrare di un’ulteriore figura salvifica. Nel buddhismo ci si aspetta che la dottrina debba ciclicamente essere rinnovata grazie all’avvento di molteplici illuminati e tuttora è atteso l’avvento di Maitreya[3], l’uomo che restituirà vigore e pienezza all’insegnamento di Siddhārtha Gautama. Il termine ebraico mašīaḥ significa “unto” e designa un individuo investito da Dio del compito di stabilire un nuovo ordine cosmico che ridefinisca irreversibilmente il rapporto tra l’umanità e l’assoluto. L’idea che questa persona possegga natura umana, divina o entrambe varia di credo in credo. Il millenarismo, inteso come generica convinzione che si profili all’orizzonte un epocale stravolgimento dell’intera realtà, è così chiamato per via di quanto scritto da Giovanni di Patmos nei capitoli 19-22 della sua Apocalisse. La diffusa convinzione che nel medioevo, all’approssimarsi dell’anno mille vero e proprio, la gente fosse terrorizzata dalla certezza che il mondo stesse per finire è frutto di antiquati pregiudizi storiografici e non ha alcun rilevante riscontro documentale. Tuttavia, attese simili hanno sempre accompagnato le prospettive dell’umanità. Oltre a non essere mai confinate al solo ambito religioso, esse si presentano anche in contesti segnatamente secolari. L’attesa, diffusa soprattutto nell’Italia ghibellina, di un imperatore capace di ripristinare i presunti fasti dell’Impero carolingio o addirittura dell’antico Impero romano appare talvolta più mistica di quella, perlopiù guelfa, dell’ascesa al soglio di un pontefice straordinario che fosse in grado di realizzare il cesaropapismo. Dante, un guelfo abbastanza moderato da ritenere il potere imperiale necessario e direttamente fondato sulla volontà divina, raffigurò l’avvento di un uomo della provvidenza con la metafora di un veltro[4] capace di allontanare da Roma la cupidigia, rappresentata da una magra lupa famelica, antitesi e distorsione mostruosa della nobile lupa del Palatino che nutrì i più celebri tra i figli di Marte. La moderna attesa marxista per l’ineluttabile avvento di una rivoluzione proletaria è stata tale che molti grandi rivoluzionari hanno assunto carismi mistici agli occhi dei loro seguaci, si pensi all’aria profetica dei simulacri di Lenin o a quella finanche cristica delle icone di Ernesto Guevara.

cielo anacoreta

Con il De civitate Dei contra Paganos, Agostino d’Ippona diffuse nella cristianità una teleologia della storia e una visione del mondo tanto cristiana quanto platonica. L’ascesa di Roma sarebbe servita per civilizzare quella parte di umanità che, per prima, avrebbe dovuto ricevere il messaggio evangelico. L’Impero d’Occidente sarebbe poi caduto per indurre i cittadini a recedere dall’attaccamento verso le cose del piano materiale e a unirsi sotto la guida della Chiesa. Agostino invitava così la sua gente a sopportare il male presente come un pellegrino sopporta la temprante fatica di una lunghissima via verso la Salvezza, scoprendo nell’umile pazienza di camminare la forza di offrirsi il tempo necessario a fare di sé un ricettacolo aperto al dono della grazia di Dio. Il λόγος platonico è la razionalizzazione apollinea di quell’insondabile τύχη che adombra l’epica arcaica con la suggestione di opprimenti spire metafisiche strette intorno al destino degli uomini e degli stessi dèi. La fiducia cristiana nella provvidenza di Dio, come quella platonica e stoica nella preminenza del Bene, impone la possibilità di un potere legittimo che stabilizzi e nutra il mondo, conformandosi alle giuste ragioni del disegno divino. Per questo i re cristiani venivano unti come redentori e considerati capaci di compiere miracoli. Pur non essendo divinizzati essi stessi alla stregua dei sovrani arcaici, essi venivano almeno altrettanto sacralizzati in quanto proiezioni dirette e immediate della volontà celeste.

Alcune attese spirituali possono sembrarci egocentriche, ma ciò è dovuto a una distorsione prospettica legata alla centralità che l’Occidente contemporaneo attribuisce all’individualità. Gli anacoreti ebrei e paleocristiani, che si rinchiudevano nelle grotte e nei sepolcri ipogei a pregare Dio di concedere loro un rapimento mistico, assolvevano a una funzione sociale di grande importanza e ne erano più consapevoli di quanto usualmente crediamo. Eremiti radicali come l’abate Antonio d’Egitto cambiarono per sempre l’orizzonte dei significati e dell’immaginario condiviso di moltissimi popoli, sebbene appaia verosimile che non sempre sapessero quanto le loro scelte avrebbero potuto impattare sulla società. L’idea originale di Francesco d’Assisi era quella di girovagare scalzo con pochi amici in stato di povertà assoluta per ingraziarsi il perdono di Dio, non quella di creare una delle organizzazioni multinazionali di maggiori dimensioni e successo che siano mai esistite. Tuttavia, persino presso gli asceti più isolazionisti l’intenzione di cambiare la vita degli altri sembra possedere un’ostinata permanenza, perlomeno latente e residuale.

cielo sant'onofrio

Il rituale dello sokushinbutsu[5], nato in Cina e in Giappone nel XI secolo, prevede una lunga preparazione fisica e mentale a una meditazione estrema che si conclude con la presunta illuminazione del praticante, il suo decesso e la mummificazione autoindotta del suo corpo. Si tratta di un percorso mistico che si sviluppa in una serie di gravose attese e rinunce ed è diviso in tre fasi da mille giorni ciascuna. Durante la prima, unitamente alle continue meditazioni e al continuo esercizio fisico, il praticante vive ritirato nella natura selvaggia, laddove si nutre solo di semi per perdere massa grassa. Durante la seconda, la dieta si limita ad aghi, corteccia e radici di conifere. Giungendo al passaggio tra la seconda fase e la terza, egli assume tè di urushi, il sommacco giapponese la cui linfa tossica si usa normalmente per laccare. In questo modo, il suo corpo assorbe il veleno che lo disidrata e lo rende sgradevole agli organismi decompositori. A questo punto, l’asceta viene sepolto vivo, senza cibo né acqua, in una cripta di pietra grande appena quanto basta a contenerne il corpo nella posizione del loto. Una cannula di bambù consente il ricambio dell’aria, ma vi rimane solo finché il rinunciante ha forze sufficienti per far suonare un campanello che viene udito dai monaci che lo vegliano all’esterno. Quando costoro non lo sentono più suonare, rimuovono la cannula e sigillano il confratello agonizzante nel suo piccolo spazio buio per altri mille giorni. Dopo questo periodo, la cripta viene aperta. Se il cadavere si è mummificato, viene portato in un tempio per essere adorato come illuminato, se invece si è putrefatto, la cripta viene risigillata nel quadro di un esorcismo, ma sarà comunque oggetto di ammirazione eterna per la severità della sua ascesi. Vi è testimonianza di diverse centinaia di monaci sottopostisi a questa pratica, sebbene i corpi finora ritrovati ammontino ad appena ventiquattro. La maggior parte dei ritrovamenti si collocano nelle Dewa Sanzan, le cui sorgenti naturalmente contaminate dall’arsenico potevano contribuire alla mummificazione. L’ultimo caso di sokushinbutsu risale al 1973. Nel quadro del pensiero buddhista, si tratta di un modo in cui il sé può essere sacrificato per gli altri, giacché la compassione altruista è considerata l’unico sentimento che possa favorire o perlomeno non ostacolare l’illuminazione. Il monaco che arriva a un tale gesto, attendendo fino allo stremo di trovarsi nella giusta condizione fisica e mentale per diventare un oggetto di culto, testimonia il valore del proprio credo, fornendo alla comunità dei fedeli un sepolcro o una reliquia dotati di un valore altissimo. Ritenuti capaci di purificare tutto ciò che li circonda e di elevare la coscienza di chi vi si interfacci ritualmente, questi resti portavano fama, fedeli e donazioni ai centri di culto, favorendo conversioni e prese di voti. Il concreto e l’astratto, spesso hanno confini drammaticamente sfumati.

In tal senso, la suddetta pratica è stata talvolta paragonata alla leggenda dell’uomo mellificato, una sostanza che fu descritta soprattutto dal medico Lǐ Shízhēn nel celebre Bencao Gangmu, il più grande compendio di erbologia e farmacopea cinese, stampato nella Nanchino dei Ming alla fine del Cinquecento. Vi si narra[6] di vecchi arabi che consumano esclusivamente miele fino a morirne e che poi vengono chiusi in sarcofagi colmi di miele per dissolvervisi e mutare in un medicinale capace di curare ossa rotte e altre patologie. È possibile che l’idea derivi dall’usanza birmana di conservare nel miele i corpi dei sacerdoti, una pratica diffusa più anticamente presso gli egizi e gli assiri, dai cui secoli lontani l’umanità non ha mai smesso di attendere l’arrivo di qualcosa. Tanto la cieca fiducia verso l’innovazione tecnologica degli anni Ottanta, quanto la miope sfiducia attuale verso un futuro in bilico tra il compimento e la cessazione delle crisi economiche globali hanno tutto il sapore delle profonde attese che, in ogni epoca, hanno contribuito a fare dell’uomo un tormentato fabbricante di profondi significati.

Note

[1] Qui l’attesa messianica assume i tratti corali di una nuova età dell’oro, popolata da una generazione benedetta dai flussi astrali.

[2] Questo è certo almeno per quanto concerne hopi e lakota.

[3] Il riferimento più canonico per questa figura è nello stesso Tripiṭaka, precisamente nel Cakkavattisīhanāda sutta, Dīgha nikāya, 26.

[4] Dante Alighieri, Divina Commedia, Inferno, I, 100-111, ma si veda anche Purgatorio, XVI, 106-110 e Paradiso, VI, 28-36. Il fatto che questo levriero divino possa essere identificato con Cangrande I della Scala, Enrico VII di Lussemburgo, Uguccione della Faggiuola o lo stesso Cristo è di scarso interesse nel determinare le convinzioni generali del poeta, delineate compiutamente dallo stesso nei tre trattati che compongono il saggio De Monarchia.

[5] Trad. it. “Buddha nel suo stesso corpo”.

[6] Il verbo narrare intende qui rispecchiare lo scetticismo espresso dallo stesso Shízhēn, il quale si disse dubbioso circa l’esistenza di tali mirabilia, la cui scoperta attribuisce all’erudito Tao Jiucheng.

di Ivan Ferrari

Autore

  • Laureato in filosofia, redattore della Rivista e socio collaboratore dell'Associazione culturale La Taiga dai giorni della loro fondazione, ha interessi soprattutto storici e letterari.