Oltre i confini dello zaino

Cammino di liberazione dalla Via Francigena a San Pietro

La strada seduce il viaggiatore dal primo istante, e inevitabilmente lo conquista per non lasciarlo mai. La strada guarda dentro, lancia una sfida. Viverla significa compiere un percorso di liberazione, lasciare ogni certezza dietro ai passi compiuti, rinunciare a costruire l’immagine che si ha di se stessi per lasciare spazio a un destino evolutivo differente.

Ho percorso la Via Francigena da Siena a Roma ed è stata l’incoscienza a spingermi a viaggiare zaino in spalla; di nuovo l’incoscienza a guidarmi verso molte delle mie inaspettate “prime volte”: per la prima volta nella mia vita ho tracciato i confini del mio mondo dentro quelli di uno zaino. Per la prima volta nella mia vita ho viaggiato in autostop. Per la prima volta mi sono veramente sentita tagliata fuori dalla realtà. Per la prima volta ho sperimentato la solitudine vera, quella seducente ma anche dolorosa. Per la prima volta ho viaggiato con estrema lentezza. Per la prima volta ho sentito di stare compiendo un vero e proprio percorso di liberazione.

Riuscire a sentirsi liberi da sé significa imparare ad accogliersi in maniera diversa, più profonda. Ed è quando accetti di accogliere anche le sfumature più taglienti di te stesso che riesci ad accogliere tutto ciò che fino a quel momento era semplicemente esterno, diverso, sconosciuto. Questo è uno degli insegnamenti più profondi che si possono ricevere lungo la strada, l’unica vera guida in un percorso personale che ti spinge sempre più a fondo all’interno della tua anima e in quella dei viaggiatori come te. Lungo un cammino spirituale ci si accoglie reciprocamente nel proprio mondo, condividendone anche l’essenza, fino a sentirsi parte di un tutto anche se solo di passaggio. Lungo il cammino si ha spesso la sensazione che niente abbia veramente a che fare con niente, ma che tutto scorra in un equilibrio magnetico che ti spinge sempre più a fondo in questa nuova esperienza di vita. Lungo il cammino, la condivisione diventa sopravvivenza, e allora ci si aggrappa a quel senso di connessione che si è appena riscoperto, innato, anche verso persone apparentemente sconosciute.

Durante il primo giorno di cammino, la strada ci ha messo subito di fronte a delle sfide: la pioggicadeva forte, il vento era quasi sempre contrario. Hai con te quello che si chiama Credencial, il documento che ti permette di dormire nei conventi in cambio di un’offerta simbolica. È qui, dopo quasi 24 chilometri, che incontro una donna originaria della Svizzera, alta, slanciata, capelli completamente rasati. Ceniamo insieme, ci raccontiamo le nostre vite, parliamo di ciò che ci ha spinte a partire. Dice di trovarsi in cammino da due mesi, di essere partita dall’Inghilterra. Dal suo zaino grigio escono delle piume di pavone, mi racconta di averle trovate vicino a un lago in Francia e vuole regalarmene una: mi assicura che si tratta di un oggetto che mi porterà fortuna lungo il cammino, così come l’ha portata a lei fino a quel momento. Prima di andare a dormire mi dice di voler cantare una cerimonia sciamanica che ha il potere di portare il sole, prende la chitarra e canta per il mio destino e per quello di tutti gli altri viaggiatori. Le guardo bene queste persone. Sono tutti in viaggio da molto tempo, solo io sono partita da appena ventiquattro ore. Noto che la solitudine le ha rese taciturne, silenziose, che hanno assunto il rigore dell’introspezione tipico di chi sta facendo i conti con se stesso in un lungo viaggio interiore, più che esteriore. Ammetto di aver subito il fascino del loro stato mentale che scorreva tra la saggezza e l’alienazione ma che, allo stesso tempo, sapeva di calma e di eterno.

Non sento di aver fatto un pellegrinaggio; vivo in un eterno e combattuto stato di “crisi mistica” che non me lo ha permesso. Ho piuttosto fatto un cammino di meditazione, un viaggio in cui facilmente si perdono i riferimenti, in cui niente è come sembra o come ti aspettavi che sarebbe stato. Neanche tu lo sei. Dopo alcuni giorni di cammino non lo sei più nella mente, non lo sei più nel corpo. Ti accorgi di stare accarezzando pensieri diversi, di essere entrato realmente in contatto con la tua parte più intima. Ti rendi conto che il corpo risponde diversamente, a volte gli permetti di cedere, a volte tiri fuori un coraggio quasi brutale che non sapevi di avere.

Peacocks' Eyes ph. Anna Laviosa 2013

Peacocks’ Eyes. Ph. Anna Laviosa 2013

Alcuni degli insegnamenti di questo viaggio li trai proprio dal tuo corpo: percorrere così tanti chilometri con uno zaino sulle spalle ti fa rendere conto del peso che realmente si racchiude nelle cose che hai deciso di portare con te. Sulla strada, la leggerezza diventa necessaria. Tutto ciò che grava sulle tue spalle e sulle tue gambe, grava metaforicamente anche nella tua testa, nella tua motivazione a proseguire, grava sulla riuscita di un percorso, e non te lo puoi più permettere. Chilometro dopo chilometro, giorno dopo giorno, impari a liberarti di tutto ciò di cui non hai bisogno e che diventa solamente un peso da trasportare. Allora raccogli il coraggio e lo lasci indietro, lo regali a chi ne ha bisogno, oppure fai di tutto per perderlo. Così come perdi, passo dopo passo, tutte le convinzioni che hanno gravato sulla tua vita. Perdi i giudizi, le aspettative, le certezze che credevi fossero incrollabili, con una forza diversa sei pronto a mettere tutto in discussione. Le convinzioni non hanno più lo stesso peso, persino il tempo scorre in maniera totalmente diversa.

Percorrere la strada con estrema lentezza è così affascinante da diventare una delle sorprese più felici di questa esperienza. Solo durante il cammino si comprende quanta fatica e quanta fermezza mentale ci vogliano per portare a termine un viaggio al ritmo dei passi. Ora posso dire di sapere che, andando lentamente, si ha anche il tempo di riscoprire la nostra parte peggiore e che forse si sceglie inconsciamente di muoversi ad altri ritmi proprio per non ascoltarla o per illudersi che non ci sia. Spesso la stanchezza ti gioca brutti scherzi. Senti costantemente l’ansia forte di arrivare, di raggiungere la tappa, perché sono troppe le volte in cui le circostanze negative alzano il tiro facendoti credere di non potercela fare. Prosegui nella corsa anche se ti scoppiano le gambe perché ti guardi intorno e non c’è che il nulla assoluto. Sei solo con te stesso. Nessuno ti aiuta. Nessuno ti salva. Nessuna alternativa. O almeno, non sempre.

Mi sono trovata a dover attraversare un campo di girasoli vicino al Lago di Bolsena per poter proseguire. Il rituale sciamanico aveva funzionato fin troppo bene, la pioggia aveva lasciato spazio a un caldo torrido e il sole picchiava veramente forte da alcuni giorni. È stato allora, complice il dolore, la mancanza di sonno, la già prepotente solitudine, che ho sentito di essere vicina alla prima vera crisi di tutto il viaggio. Avrei ceduto davvero se non fosse stato che, pur essendo in mezzo al niente, ho sentito avvicinarsi una macchina. È stato un istinto: ho fatto l’autostop. Alla guida c’era un signore piuttosto anziano che si rese disponibile ad accompagnarmi fino a Bolsena. Mi disse di chiamarsi Pietro.

Salgo sulla sua macchina e mi sento un’incosciente ma niente mi fa desistere da quello che sto facendo. Guardo fuori dal finestrino. Sorrido. È estate, dall’autoradio sento una canzone che non conosco, realizzo di essermi isolata per troppo tempo. Parlo con Pietro, gli chiedo di lui, della sua vita. Gli dico che durante questo viaggio ho incontrato un sacerdote che ha il desiderio di portare a Roma le preghiere della gente conosciuta durante il cammino. Gli chiedo se ne voglia approfittare. Mi dice di no, che il suo rapporto con Dio è sempre stata una questione personale. Continuiamo a parlare, abbiamo visioni differenti su molte cose. Gli dico che questo scambio di punti di vista è una cosa magnifica e che l’evoluzione si irradia proprio nella diversità. Non sono sicura che abbia capito cosa intendo ma, mentre lo saluto, gli dico anche che non mi scorderò mai di lui. Questo lo capisce bene, e mi sorride. Mi dice di amare l’avventura e di essere fiero di aver fatto parte della mia. Lui si è fidato di me, io mi sono fidata di lui. Lui mi ha accompagnata lungo un percorso, io ho accompagnato lui.

La meta simbolica di questo viaggio è Piazza San Pietro, ed è qui che il viaggio interiore si riconcilia con quello esteriore. È qua che si arriva e da qua il ritorno assume inevitabilmente un connotato diverso, perché dopo giorni di meditazione è impossibile non vedere tutta la propria vita sotto un’altra luce. Questa tappa viene fatta di notte per assaporare l’alba su Roma. All’arrivo vieni circondato dal silenzio, lo stesso silenzio che ti ha accompagnato lungo il cammino. Sei pronto a guardare avanti ma inevitabilmente ti volti indietro verso la strada più lunga mai percorsa, quella dove hai riso, hai pianto, hai trovato il coraggio, hai avuto paura. Come sarà il ritorno non puoi saperlo, lo sperimenterai. Come sei tu adesso, be’, quello lo sai molto bene.

di Sara Signori

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