Da dove nascono i videogiochi?

Ritratto dei video-eroi da giovani



Spesso associamo i giochi al lato giovanile della nostra esperienza, a un gruppo di bambini che corre e ride. Da dove nascono però i giochi? Possiamo forse dire che nascono da quella stoltezza giovanile che porta a vedere tutto come più leggero? No, non possiamo dirlo, o meglio: non possiamo averne una certezza definitiva.

Il fatto è che gli albori del gioco si perdono nella nebbia della storia. D’altronde, come ci ricorda Huizinga nella prima pagina di Homo Ludens, il gioco è più antico della cultura, perché gli animali non hanno aspettato che noi umani insegnassimo loro a giocare. Possiamo però analizzare una nascita dei giochi, vale a dire la nascita di quella famiglia dei giochi che ha modificato il mondo in cui viviamo: il videogioco.

I computer sono cose serie per faccende serie.

Dalla loro nascita durante la Seconda guerra mondiale i computer sono stati ammantati di un’aria di serietà e di rigore che, per i primi anni, ha contraddistinto il loro utilizzo. Tenendo da parte alcuni tentativi, avvenuti tra gli anni Quaranta e Cinquanta, di insegnare a un computer a cimentarsi in giochi da tavolo, la cultura che circondava l’informatica vedeva le macchine come uno strumento tecnico e scientifico, da usarsi per faccende serie. È vero che Alan Turing in persona scrisse un programma per scacchi, ma i calcolatori non erano ancora abbastanza potenti per farlo girare. Inoltre, i tentativi di insegnare i giochi da tavolo alle macchine furono elaborati anzitutto nell’ottica di esaminarne le capacità di calcolo adattive utilizzando la teoria dei giochi, non nella prospettiva di avere un avversario digitale. Questo almeno era quanto si prefiggevano gli studiosi del tempo, ma alcuni studenti non erano d’accordo.



Spacewar!

Nel 1961 arriva al Massachusetts Institute of Technology di Boston (MIT) il computer PDP-1, il calcolatore più all’avanguardia dell’epoca. Era costato 120.000 dollari ed era grande come un armadio a due ante, ma aveva uno schermo reattivo (i computer fino ad allora comunicavano attraverso stampe forate e stampanti), e una tastiera che interagiva con questo in tempo reale. Al tempo, questo assoluto prodigio dal design futuristico attirò subito l’attenzione del Tech Model Railroad Club, un gruppo di studenti che condivideva l’hobby della costruzione di modellini funzionanti di stazioni ferroviarie, nonché quello della programmazione. Tra i membri del Club, il nome di spicco è quello di Steve Russell.

Russell era un appassionato di fantascienza e, messo di fronte alle nuove possibilità aperte dal PDP-1, si mise subito a lavorare a un brillante programma di simulazione di volo spaziale in 2D. Subito l’intero Club ne vide le potenzialità ludiche. Furono creati i disegni di due astronavi, il programma per muoverle e il programma che calcolava l’andamento dei missili: era nato il primo prototipo di videogioco. In un primo momento questo fu visto dai professori come un esperimento, un esercizio per testare la potenza di calcolo e la reattività dello schermo del PDP-1.

Quello che stavano realizzando gli studenti era molto meno sensato. I primi risultati furono promettenti, senza però soddisfare né Russel né il Club, i quali continuarono dunque a lavorarci: aggiunsero uno sfondo “prendendo in prestito” Expensive Planetarium, un programma sviluppato dall’università che mostrava il cielo stellato che scorreva; aggiunsero una stella con gravità al centro del quadrante di gioco, così da aumentarne la difficoltà. Alan Kotok e Bob Saunders crearono dei controller dedicati al gioco, sostituendo la tastiera stile macchina da scrivere che, in genere, veniva usata come principale input system. Era nato Spacewar! (sì, scritto con il punto esclamativo).

Il gioco fui subito un successo e divenne un classico per tutti coloro che avevano un PDP-1. In effetti non fu mai commercializzato, ma, seguendo una formula che oggi definiremmo di open source, restò aperto alle modifiche di chiunque volesse e riuscisse ad apportarne. Questo non ne rallentò la diffusione e nel giro di pochi anni Spacewar! era diffuso su tutto il territorio americano – soprattutto in ambienti universitari. Fu così che arrivò anche a Nolan Bushnell che, ai tempi, studiava all’Università dello Utah.

Tuttavia, qui dobbiamo fare una pausa e soffermarci sul momento in cui, quasi contemporaneamente a quando nascono i videogiochi, nasce e comincia ad affermarsi il dispositivo dell’home consolle.



Scatole (e teste) di legno

Nel 1966 un ingegnere in visita a New York ha un’idea rivoluzionaria: giocare con la TV. L’ingegnere in questione, tale Rudolf Baer, al tempo aveva 44 anni e lavorava nella base militare del New Hampshire per la Sanders Associates, azienda che si occupava di fornire all’esercito americano strumentazione tecnica avanzata.

Baer provò inizialmente a scrivere la sua idea in un modo che potesse piacere ai suoi capi, ossia in modo tecnico e formale. Dopo un paio di tentativi, tuttavia, rinunciò e gli diede il nome di Channel LP (Canale Let’s Play) e iniziò a lavorarci in segreto. Grazie a un sottoufficiale suo amico riuscì a trovare una stanza inutilizzata nella base, nonché a convincere alcuni tecnici sia della Sanders Associates che dell’esercito ad aiutarlo in quello sconsiderato progetto.

Così, nel marzo del ’67 presenta il risultato ai suoi capi. Ora però non si chiama più Channel LP, bensì Brown Box. Il risultato in questione è infatti una scatola di legno con due controller a cavo e dei fucili di plastica; si attacca alla televisione e ha un archivio di giochi che include una versione digitale del ping-pong, un gioco in cui si spara allo schermo con i fucili di plastica di modo che questo registri dove hai sparato, nonché una specie di “ce l’hai” digitale dove il giocatore controlla un puntino che deve inseguirne altri.

Ovviamente Baer viene subito licenziato per aver speso tempo e risorse dell’esercito americano, ma i suoi ormai ex capi lo spronano a portare avanti questo progetto. La Brown Box viene quindi brevettata nel ‘66, attirando presto l’interesse della TelePrompter Corporation, ma senza mai giungere a un vero contratto. Con poche vendite all’attivo, la prima console della storia resta nell’ombra, lontana dal grande pubblico. Il brevetto che la copre verrà lasciato cadere un anno dopo, senza che nessuno ne paghi il rinnovo.

Ciononostante, non è la morte del progetto di Baer. Lui, testardo come può esserlo solo un vero incosciente, continuerà a lavorarci fina a quando, nel ‘72 la Brown Box uscirà con una nuova veste e un nuovo nome: Magnavox Odyssey. Stavolta, i giochi al suo interno sono ben 28.



Atari

Torniamo così a Nolan Bushnell, studente presso l’Università dello Utah. Ebbene, Bushnell era ossessionato da Spacewar! Possiamo dire che era uno dei primi appassionati di videogiochi, al punto che tentò di fare un clone del suo gioco preferito. Fallì e capì che non aveva le capacità tecniche, assunse quindi un programmatore per svolgere il compito. Tuttavia, prima di affidargli il grande progetto, gli chiese di produrre – a dimostrazione delle sue abilità di programmazione – un clone di un gioco della Magnavox Odyssey (di cui Bushnell aveva assistito a un test). Nel dettaglio, si trattava del simulatore del ping-pong. Il programmatore era Allan Alcorn e il prototipo che costruì fu un tale successo che convinse Bushnell a puntare direttamente su quello.

Alcorn si asserragliò così nel suo garage, lavorando duro su quello che sarebbe dovuto diventare il cabinato del nuovo gioco. Fu così che nel ’72 il primo cabinato di Pong fu installato, a fini di testing, in un piccolo bar. Bushnell parti il giorno stesso per provare a venderlo alla Midway Manufacturing – alla quale disse, senza nemmeno sapere se il prototipo stesse funzionando, di avere pronta una produzione massiva. Dopo il primo giorno di installazione, ovviamente, il cabinato già si era bloccato per un malfunzionamento. Quando Alcorn arrivò per controllare cosa fosse successo alla macchina, si accorse però della vera natura del problema: avevano fatto il contenitore interno di monete troppo piccolo e queste, tracimando, avevano fatto contatto sui fusibili del cabinato, così da bloccarlo. Ma il gioco era stato un successo totale.

La produzione vera e propria dei cabinati fu però un fallimento: riuscirono a produrne un massimo di 10 al giorno e con molti problemi tecnici. Questo non rallentò però la loro corsa. Fu attraverso queste rocambolesche peripezie che nacque Atari, la prima grande azienda produttrice e distributrice di videogiochi. Neanche 5 anni dopo venne acquistata dalla Warner, divenendone l’anno stesso il principale introito e arrivando, a inizio anni Ottanta, a fare da sola più soldi dell’intero settore cinematografico mondiale.


Domande per giovani stolti

Possiamo quindi dire che il videogioco sia nato sull’impulso della stoltezza giovanile? Possiamo forse definire stolti a) un gruppo di studenti che si ribella alla cultura del tempo; b) un ingegnere che inganna l’esercito; c) uno studente che sostiene di poter avviare una produzione massiva nel suo garage?

Certo. Perché è chiaro che non sapevano cosa stavano effettivamente facendo: stavano creando una nuova forma d’arte.

di Martino Vasconi

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