Il racconto filosofico del porco macellaio

Racconto filosofico di Daniel Bidussa

Gatti cantanti, maiali ambulanti, insetti freelance e oche disoccupate. I pennuti sono spesso disoccupati, tranne un pappagallo… che comunque era un filosofo.

Fino alla mia tarda vecchiaia, intorno ai trent’anni, io avevo sentito parlare solo di poche città. E voi? Scommetto che ne avete viste di ogni tipo: la città che sale e quella che non dorme mai, che cresce. Sempre più larga e più grassa. Ma Factorum smise di crescere così.

I cittadini cominciarono a diventare di meno, e più snelli. Molti factoraschi esageravano in questo senso, cominciando perfino a dormire. Alcuni bovini, particolarmente fanatici, tanto da non svegliarsi più.

Nel deserto da sempre nulla cresce. Dopo la sabbia c’è altra sabbia, in fondo alle pozze, per quanto si beva, c’è ancora acqua. A casa mia, sento in continuazione il rumore di fondo proveniente dalla città di Factorum: le voci e i versi degli animali mischiati con lo sbattere dei campanacci e il fruscìo dei mezzi di trasporto a ruote sulle strade: Il lavoro, il commercio e l’agricoltura; lo spettacolo è il pettegolezzo. Insomma lo svago dei mondani della città.

Girando a leggermente a sinistra, verso il centro, si imbocca il Viale Grande. Là ogni poco c’è un albero con tanti fiori limitato da una gabbia circolare: così non hanno via di fuga dai cani che spontaneamente gli annaffiano. Qualche cabina telefonica qua e là, che però nessuno ha ancora imparato a usare; il sindaco così si prepara al futuro “imminente”, come dice lui. Superata l’edicola del castoro, il club del porcile e il bar dei rettili ci si imbatte nell’incrocio a tre strade di Factorum. Se foste vittima di uno scippo a cavallo vi suggerirei di andare a destra, verso Porta Ponente, dove ha sede il commissariato dell’agente alpaca; dalla parte opposta, alla stessa altezza, nella strada di sinistra (al civico trecentotredici) trovereste la sede del gazzettino locale Lo Zoccolo Duro. Se però amate arrivare dritto al punto, senza deviazioni, nella continuazione di Viale Grande, subito dopo la Posta Pasqualina e la biblioteca della scuola Uova Schiuse, si apre la Piazza del Municipio.

Tre maestosi palazzi in stile neoclassico, liberty, e di moderno design a vetri. Onestamente non ricordo quale sia quale, ma sono: il municipio, da cui la piazza prende il nome; il tribunale di giustizia, con in cima lo stemma di una bilancia a forma di corna di toro sopra le cui estremità ci sono una piuma di pappagallo e una squama di rettile (a indicare che la legge è forte ma giusta, e uguale per tutti gli animali che strisciano come per quelli che volano. Sono infatti allo stesso livello, i due piatti, sulla bilancia cornuta); e l’albergo dell’arte, dove i turisti alloggiano per ammirare nella hall le mostre di pittori, attori e cantanti, di solito felini.

Un sabato mattino, un gatto decise di esibirsi fuori da Piazza del Municipio: col suo violino saltellava di tetto in tetto, rischiando più volte di scivolare sulle tegole, cantando nel quartiere del mercato. Distratti da quel fastidioso miagolio senza senso, i mercanti smisero di grugnire e guaire i propri slogan. Tutti i clienti, dalle capre alle carpe, cercavano di capire meglio le parole del gatto sui tetti.

Il gatto cantante partendo dall’estremità nord del mercato dove c’è il baracchino del vestiario, ferri di cavallo e seta di bruco, passò ogni settore: l’area bricolage con la fedele clientela di animali da letargo, e la sezione alimentare che da circa un secolo è monopolio dei suini, frutta di stagione, frutta secca, ortaggi, legumi, tofu e seitan.

Il chiacchiericcio confuso di clienti e mercanti, fatto di: “Due al prezzo di uno” e “tutto fresco, tutto buono! E a buon mercato!”, pian piano fu sostituito dal ronzio dei bisbigli: “Ma chi è?” o “Cosa dice? Di che parla?”, fino al silenzio tombale degli animali di Factorum, curiosi di quella stranissima canzone che nessuno di loro aveva mai sentito.

I maiali son tutti dei porci
Più sono grassi e più sono lerci
Dove son le creature che non sono più qua?
Che strani frutti dal loro carretto
Frutta che alletta un tanto all’etto
Ma è cambiata la forma
Di semi o di polpa neanche l’ombra
Chi vende e chi compra
Factorum tutta! Nessuno si è accorto
Che non è frutta ma carne di morto?
Dove son le creature che non sono più qua?
Venghino signori! Senza impegno un assaggio
Del suo sanguinaccio
Povero manzo dato per pranzo
Preso ammazzato venduto al mercato
Per poi che farne?
Con la sua carne salame insaccato
Dove son le creature che non sono più qua?

Dopo la canzone, il gatto scappò.

Sistemò il violino nella custodia e fece il giro dei tetti delle case. Una volta raggiunto di nuovo il lato nord della piazza del mercato scomparve saltando da un tetto all’altro.

Gli animali si guardarono imbarazzati per un po’. Cosa volevano dire quei versi? Non c’era metrica, a volte neanche la rima.

Le capre e le carpe boccheggiavano domande e battute, mentre i maiali, che ripresero a grugnire slogan e offrire assaggi, si guardavano l’un l’altro in cagnesco.

Perfino il sindaco si interessò alla cosa.

L’indomani mattina, al bar dei rettili, mentre mangiava la sua brioche vegana, il suo ratto portaborse gli mostrò le fotografie dei muri della città. Durante la notte erano stati affissi fogli di propaganda con i testi delle canzoni del gatto.

“Cos’è ‘sta roba?” chiese irato il sindaco mentre gli andava di traverso il suo latte di soia.

Alcuni agenti del commissario alpaca avevano strappato e, consegnato al municipio, i volantini dai palazzi del centro storico. Lunghe spiegazioni su come funziona l’assassinio, o il macello come dicevano i fogli se si uccide con fine di commercio, con tanto di foto: polli disossati e pozze di sangue accanto a cadaveri di bovini e suini, abbandonati a marcire su grandi teli di plastica.

“Non vi stupisce che ci sia tanta abbondanza anche quest’anno di siccità?” era la domanda più frequente sui volantini che avevano riempito i muri di Factorum in una sola notte.

“Fra i maiali qualcuno, anzi molti, hanno cambiato mestiere. Fingono di no, di essere ancora contadini e fruttivendoli, ma ora molti di loro sono in realtà dei macellai”. Che strana parola avevano coniato quei fogli, i gatti potevano certo sceglierne una dal suono meno raccapricciante.

“Buon Dio! In giro per tutta la città. Commissario, pensi se l’avessero visto i bambini” disse il sindaco sconvolto, all’appuntamento con le forze dell’ordine. “Ma sono stati proprio loro i primi a segnalarci la cosa” rispose “O meglio la maestra, ma non credo abbiano capito cos’è, ci è stato detto che i cuccioli ridevano divertiti davanti a queste immagini”.

I tre mammiferi nell’ufficio del sindaco non vedevano immagini tanto agghiaccianti dai tempi del pifferaio magico: prima e unica volta che un umano fu ammesso dentro le mura di Factorum.

Il commissario alpaca rischiò una bella lavata di capo quella mattina, per questo aveva già mandato tutti i suoi animali migliori a pulire la città da quelle scritte ingiuriose. Eppure era necessaria una riflessione: i maiali commerciavano da quattro generazioni in frutta e verdura, possibile che avessero iniziato a spacciare per commestibile la carne di altri cittadini?

Dopo un’ora di discussione, whiskey alla mano, sindaco, portaborse e commissario fecero aprire la finestra dell’ufficio, distratti da un suono di passi felpati e urla sincopate. In piazza del municipio, proveniente dal Viale Grande una manifestazione di gatti, felini vari e qualche altro quadrupede e pennuto stava urlando:

Non è frutta non è frutta
Se vogliamo dirla tutta
Le bugie han le gambe corte
La nostra voce è il miagolio
In città ci sono i mostri
Il porco padrone vende la morte
Delle creature figlie di Dio
Di fratelli e sorelle nostri
Se vogliamo dirla tutta
Non è frutta non è frutta

E a loop la folla continuava questa nenia, o altre.

Nel giro di un paio d’ore, verso mezzogiorno, si aggiunse dal lato est della Piazza del Municipio, un altro corteo. Maiali e scrofe, marciavano assieme ad alligatori e rettili striscianti in difesa del proprio mestiere.

I manifestanti da entrambe le parti urlavano sventolando come fossero bandiere foglie di lattuga e radicchio.

Il commissario Alpaca dovette abbandonare di corsa l’ufficio del sindaco per chiamare gli agenti delle squadre speciali, non appena vide che, una pantera da una parte e un cinghiale dall’altra, davano inizio a scontri violenti. E poco mancò che ci scappasse il morto.

Da quella sera alla mattina di tre giorni dopo l’ospedale del veterinario ebbe i letti occupati dei manifestanti. Ma dov’era il gatto violinista da cui tutto era cominciato? Si chiedevano i pazienti e gli infermieri.

Non era stato ferito, non era nemmeno in piazza. Non si era visto nemmeno il leader dei maiali, già presidente della camera di commercio, ora sindacalista di tutti i contadini e fruttivendoli. Il giorno della manifestazione il primo osservava la scena dai tetti dell’albergo dell’arte, il secondo non si sa.

Il sindaco, quel vecchio tasso, non ebbe altra scelta che riunire il gran consiglio di Factorum. Un mese dopo gli scontri in piazza, l’intera cittadinanza, due migliaia di anime, si riunì nell’antico anfiteatro. Il ratto portaborse introdusse dal palco la questione, poi chiese al commissario alpaca di raccontare cos’era avvenuto durante la manifestazione. Niente che non sapessero già tutti i factoraschi, finché fu data la parola al gatto violinista prima, e al porco sindacalista successivamente.

Il gatto balzò dal proprio posto al centro dell’anfiteatro. Probabilmente aveva bevuto perché, prendendo la rincorsa, inciampò, ma cascò in piedi. Si leccò la zampa e cominciò a parlare:

“Nell’ultimo trimestre, al commissariato sono arrivate molte denunce di persone scomparse. Ne citerò solo una per specie: il piccolo vitello Jonathan, sette mesi, scomparso due settimane fa; l’anziana scrofa Edelina, quattordici anni, scomparsa tre mesi fa; il pollo Arcibaldo, due anni e mezzo, scomparso quaranta giorni fa. E molti altri potrei dirne! Dove sono? Il commissario Alpaca, né altri agenti di polizia, non hanno saputo trovarli…”

Qualche maiale cacciò urla di dissenso, mentre i parenti degli animali nominati, soprattutto i genitori, non riuscivano a dire nulla.

“…Mi spiace ma sono morti. Sono stati vilmente assassinati. La carne che dava loro la vita è stata tritata, deformata e insaccata. Il sangue è stato asciugato col sale per nasconderne l’odore, è stata speziata con erbe per mascherarne il sapore, è stata conservata nell’olio per dare una nuova forma e consistenza. Hanno chiamato salsiccia questa nuova pietanza, e hanno sostenuto per mesi al mercato che si trattasse di un frutto esotico, o di un ortaggio appena scoperto. I maiali sono i colpevoli di questo misfatto, i loro zoccoli spaccati sono ora macchiati del sangue dei nostri concittadini. Non tutti ovviamente, intendiamoci… è proprio il caso di dirlo, non giudichiamo un’intera famiglia di verdurai per qualche mela marcia, ma il fatto resta”.

I segugi del commissario erano pronti a sedare le reazioni al discorso del gatto, ma con un pizzico di delusione non fu necessario tirare fuori i manganelli. Solo un paio di maiali improvvisarono qualche insulto, presto zittiti dal portaborse ratto che chiamò il porco sindacalista, leader dei suini, a parlare. Ma non parlò lui, il maiale venne accompagnato da un serpente:

“Sono stato assunto in rappresentanza del maiale sindacalista e di tutti quelli della sua specie. Sotto mio suggerimento, il mio cliente sceglie di esercitare il proprio diritto di non parlare. Tuttavia abbiamo fiducia nella legge e nella giustizia. Andiamo in tribunale e dissipiamo ogni dubbio, ma certo non parlerà qui, oggi”.

E tornarono a sedersi.

Nel brusio generale, mentre le pubbliche autorità si consultavano sul da farsi, il gatto con pochi altri andò nell’uccelliera. Il pappagallo si era trasferito a Factorum anni prima, da filosofo aveva conoscenze molto vaste, ma non aveva mai lavorato. Tuttavia accettò di buon grado, gratuitamente, di rappresentare l’accusa in tribunale. Il pappagallo volò dal sindaco al centro del teatro interrompendo la riunione improvvisata del governo cittadino. “Accettiamo” disse proponendosi come pubblico ministero, poi porse al sindaco tasso il documento appena stilato delle accuse formali:

IN CONFORMITÀ AL CODICE PENALE, IN RAPPRESENTANZA DEL MIO CLIENTE IL GATTO VIOLINISTA, MUOVO PRESSO IL TRIBUNALE DI FACTORUM L’ACCUSA AI DANNI DEL MAIALE SINDACALISTA (DA QUI IN AVANTI L’IMPUTATO) DI ESSERE A CAPO DELL’ASSOCIAZIONE A DELINQUERE DEI SUINI (DA QUI IN AVANTI CHIAMATA MACELLERIA). IN PARTICOLARE INVITIAMO LA GIUSTIZIA DI FACTORUM, NEL NOME DELLA CITTADINANZA, A GIUDICARE L’IMPUTATO SULLA BASE DI NUMERO DUE CAPI D’ACCUSA: VIOLAZIONE DELL’ARTICOLO VENTUNO BIS CHE PROIBISCE L’ASSASSINIO DI ALTRI ANIMALI, E LA VIOLAZIONE DELL’ARTICOLO OTTANTASETTE CHE PROIBISCE DI DISPORRE DEI CORPI DEI DEFUNTI SE NON PER LE CERIMONIE FUNEBRI.

IN FEDE
PAPPAGALLO FILOSOFO

Non era il modo corretto a norma di legge di stilare una richiesta di procedimento penale, ma, vista la rilevanza della questione, il sindaco tasso e gli altri funzionari ignorarono il vizio di forma.

Chi poteva essere il giudice? Si trattava di un caso senza precedenti, troppe emozioni e principî. Qualunque cittadino di Factorum, per quanto giusto e corretto, si sarebbe fatto influenzare da questioni personali. “So di un tale” avanzò uno dei consiglieri della città, la lepre “un cammello che vive da solo nel deserto, lontano da qui ma non troppo, se lo chiamiamo domani mattina potrebbe arrivare in settimana. Nelle dune e sotto le palme, che crescono libere dove riescono, passa tutto il giorno, tutti i giorni, a studiare: è esperto di astronomia e chimica, conosce l’anatomia e la storia dell’evoluzione di tutte le razze. Qui tutti ci conosciamo, io personalmente, nel nome della buona amicizia che mi lega al porcile, non posso nemmeno immaginare che le accuse siano veritiere. Tuttavia anche il gatto violinista è un mammifero da bene, non metto in dubbio la sua parola, o perlomeno la sua buona fede. Il cammello studioso ha fama di essere più saggio dei gufi e integerrimo come gli asini. Di solito lasciamo ai tori l’affare della giustizia, ma, e non me ne abbiano, non credo di dover spiegare cosa li rende inadatti in questo frangente. Non è la forza della legge che cerchiamo ma la sua lungimiranza e imparzialità”.

I tori forse si saranno offesi, ma nessuno ebbe nulla da ribattere e nove giorni dopo entrai a Factorum.

Il tribunale all’interno aveva uno stile semplice e inelegante, sedie scomode, forse mangiate dai tarli, e vetri opachi. Un rapido conto dei posti mi fece capire che non tutta la cittadinanza avrebbe assistito al processo. Tutti ne avrebbero parlato, ma molti lo hanno fatto senza conoscere i fatti.

Camminando, i miei zoccoli alzavano più polvere di quanto non facciano nel deserto. Imposi di pulire e pretesi che venissero predisposte sedie comode per ogni specie. Misero uno stagno artificiale per gli uccelli coi piedi palmati e sedie in marmo (più resistenti) per gli animali di grande stazza. Ottenni che un angolo fosse riparato dalla luce del sole, puliti i vetri, per le talpe e gli animali notturni e un altro fosse invece illuminato, ma non riuscii a far togliere dall’aula la grande croce di legno appesa sopra il posto del giudice, il mio.

Durante il processo dovetti lasciare aperte le finestre per tutto il tempo perché c’era troppa gente e a malapena si respirava.

Alla mia destra sedeva il maiale con il serpente, mentre alla mia sinistra il gatto col pappagallo.

Prima di dare inizio al processo, percorrendo il corridoio, ascoltai discretamente quanto dicevano gli avvocati coi clienti. Il maiale sindacalista e il serpente si divertivano, e quanto ridevano, notando che lo zoccolo biforcuto del primo aveva la stessa forma della lingua dell’altro. Tanto che sovrapposero le due estremità, inventando una poco igienica stretta di mano, o un perverso, viscido bacio. Avevano chiaramente creato una bella intesa sancita dalla frase che ripetevano prima uno e poi l’altro: “La serpe a parole è come il suino nei fatti”. Mi sarebbe piaciuto notare la stessa complicità anche dall’altra parte, ma il gatto stava invece agitando le braccia per graffiare il pappagallo, che gli sfuggiva svolazzando in cerchio. Mi pare di aver sentito qualche parola: il gatto criticava al filosofo di non aver costruito un discorso convincente limitandosi a segnarsi alcuni versi delle canzoni cantate al mercato, mentre il pappagallo spiegava al violinista che la verità non può che vincere in un’aula di giustizia. “Avremmo dovuto prendere un professionista” sentii nitidamente sbuffare a uno dei felini presenti.

Mi sedetti e diedi la parola al pubblico ministero: “La prego però di esprimersi a modo che già le han fatto passare quel documento raffazzonato all’assemblea cittadina” dissi vedendo che già apriva il becco con un ghigno borioso. Le guance del pappagallo divennero rosse come le piume sul petto. Smise di sbattere le ali e zampettò fino a trovarsi davanti a me prima di ripetere le accuse. Avrei preferito fosse più chiaro, ma tanto conoscevo i capi d’accusa e chiusi un occhio.

Scoprii che la consuetudine è di lasciar scegliere agli avvocati l’ordine in cui procedere, quando chiesi di esaminare le documentazioni e le prove messe agli atti, dai lamenti dei tori e di qualche rettile. Comunque passai al vaglio subito la documentazione, a partire dalle foto che portava l’accusa, prima di sentire i testimoni. Cominciando col commissario alpaca.

Furono vagliate dal serpente tutte le denunce di creature scomparse assieme al commissario: nessuno dei rapimenti lasciava intendere un omicidio, né un riscatto come fece notare al controinterrogatorio il pappagallo: “E allora cos’altro può essere?” chiese retorico in conclusione. “Un’infinità di cose, non escludiamo nulla ma non ho ragione di crederlo” terminò il commissario.

Poi chiamai i manifestanti da ambo le parti, tutti si presentarono con appuntata al petto una foglia di lattuga. Mi sento di dire che furono i momenti meno importanti del processo, col senno di poi avrei anche potuto tranquillamente non ascoltarli. Non so perché il pappagallo e il serpente ci tenessero tanto: nessuno di loro sembrava sapere esattamente perché avesse manifestato, o portò contributi legati ai fatti.

Invece arrivò un quesito interessante dalla difesa sull’assenza del gatto in Piazza del Municipio quel giorno: “Come mai era solo sui tetti?”. Il gatto rispose che passava molto tempo sui tetti ogni giorno, anche cantando al mercato, che consuetudine bizzarra! Non mi stupì per niente che fosse da tutti, come aveva notato la scrofa sposata col sindacalista, considerato un po’ tocco. Tanto lo era che dovetti più volte riprendere i miagolii urlati e gli slogan in rima che emetteva durante le testimonianze. Nelle pause fra un testimone e l’altro era invece il pappagallo a miagolare, tanto che mi risultò difficile a volte capire quale fosse dei due. Forse ciò che più mi infastidiva era che il filosofo ripetesse sempre l’ultima frase che il violinista aveva appena pronunciata, o forse che sempre il gatto chiedesse all’uccello di argomentare meglio.

Il serpente invece parlava pochissimo, sibilando domande e obiezioni, non sempre pertinenti ma almeno concise. Alle volte un po’ noiose, ma meno rispetto alle risposte che forniva il porco sul ciclo di semina e raccolto: grugniva lentamente termini come “Humus” o “Maggese” spiegando poi, con tanto di formula e termini tecnici, le reazioni chimiche che lo avevano portato alla creazione in laboratorio della sua nuova merce. La situazione peggiorò alle prime domande del pappagallo, ma il maiale mi stupì quando non reagì di fronte alle foto che portava l’accusa fra i documenti. Ancora oggi non si è capito come siano state scattate quelle foto. Una parte sosteneva che erano state montate ad arte e l’altra di averle ottenute poggiando l’attrezzatura su un tetto, ma io proprio non vedo come il treppiede non sia scivolato sulle tegole. A ben pensarci, per quanto impressionanti, non erano molto nitide, sentii che alcuni tori non erano nemmeno sicuri che fossero rappresentati effettivamente dei cadaveri.

Ho tutte le ragioni per essere fiero di me.

Il processo durò nel complesso solo poche settimane e durante il procedimento seppi distinguere le prove da invalidare da quelle affidabili. Ci fu qualche disordine ma fu ben controllato.

Mi ritirai col sindaco tasso e il ratto portaborse per esaminare il tutto.

Le foto sui volantini erano state cestinate, così come le testimonianze dei manifestanti, mentre le spiegazioni botaniche del maiale, per quanto noiose, furono purtroppo rilevanti e fui costretto a leggere più volte la loro trascrizione.

Non mi sono chiare le attività della macelleria nel porcile, né, ancora oggi, sono stati ritrovati gli animali scomparsi. Fu tuttavia chiaro a tutti noi tre in studio che il fatto non sussisteva: nessuno era stato in grado di dimostrare, nonostante i molti giorni di processo, che fossero state commesse uccisioni. Senza delitto, vi pare ci possa essere un colpevole?

Tutti in aula scattarono in piedi quando dichiarai il maiale innocente per entrambi i capi d’accusa.

Uscirono per ultimi, precedendomi, il maiale, fianco a fianco con la serpe che strisciava cambiando costantemente la propria traiettoria per non rischiare di essere calpestata dall’andatura goffa e imprecisa del proprio cliente, e il pappagallo che svolazzava sopra la testa del gatto, mentre quest’ultimo, pur di non sentire le spiegazioni del filosofo, non riuscendo nemmeno saltando a raggiungere le altezze del filosofo per graffiarlo, suonava una dolce melodia in chiave minore col proprio violino.

Il giorno dopo di buon’ora, ritirate le bottiglie omaggio del sindaco, tornai a casa.

Dall’albergo degli artisti in Piazza del Municipio imboccai Viale Grande. Era il mattino di un giorno di festa, le serrande dei negozi erano abbassate e la luce del sole contrastava quella dei lampioni segnando sul marciapiede piccole ombre molto chiare intorno agli alberi. Vidi da lontano soltanto un paio di babbuini fare jogging e, all’incrocio a tre strade, i corvi netturbini.

Comprai all’edicola del castoro l’ultimo numero de Lo Zoccolo Duro, con le cronache del processo e l’intervista che avevo rilasciato, forse l’unico negozio già aperto. Il Club del Porcile invece aveva la porta serrata, ma poco più in là mi parve di vedere un maiale, con indosso un grembiule sporco di succo di lamponi o di vino rosso, spingere il proprio carretto, con la merce coperta da un telo, in direzione di Piazza del Mercato.

Sui muri del bar dei rettili, stavano sistemando i tavolini, avevano affisso un nuovo volantino. Riconobbi ritratta in foto la pecora che stava seduta in terza fila durante il processo, e dal tetto sentii l’ultima canzone del gatto violinista che mi accompagnò quella mattina fino alle porte della città.

di Daniel Bidussa

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