Il mito del deficit di Stephanie Kelton

La moneta come istituzione trascendente




Come già notavo scherzosamente in un altro articolo, è corretto vedere all’opera elementi mitologici nella scienza economica odierna. La narrazione economica è oggi intrisa di schemi e figure propriamente mitiche. Stephanie Kelton – economista di punta della Modern Monetary Theory (MMT), già consulente di Sanders e Biden – deve aver avuto un’intuizione simile, se ha intitolato il suo recente e dibattutissimo testo The Deficit Myth (Il mito del deficit).

In questo pezzo mi propongo di introdurre le tesi di Kelton attraverso la lente offertaci da René Girard, tra i maggiori interpreti novecenteschi del mito, secondo cui il mito è definibile, almeno in prima approssimazione, come un’attribuzione mendace di autorità. La lettura girardiana ci permetterà di apprezzare alcuni notevoli pregi delle posizioni di Kelton e, forse, alcuni limiti.

Nel suo ultimo lavoro Kelton si propone di smascherare, con linguaggio accessibile ai non addetti ai lavori ma con solidi dati alla mano, il mito del deficit di bilancio pubblico e, più in generale, una serie di miti riguardanti il ruolo della moneta e il rapporto tra Stato ed economia. La narrazione che Kelton avversa è quella che, ahimé, conosciamo bene, dal momento che è stata capace di depositarsi e di germogliare nelle menti di milioni di italian*, di qualsiasi provenienza sociale, culturale o politica. Secondo tale narrazione, una delle massime priorità – se non la priorità centrale – dello Stato in materia di emissione di moneta, è quella di far sì che le uscite non siano troppo più elevate delle entrate. Ecco alcune varianti che sicuramente riconoscerete: «i bilanci devono essere in regola»; «il governo deve gestire i soldi come un buon padre di famiglia: non spendendo più di quello che guadagna»; «i soldi sono un bene limitato, scarso in natura, non è che crescono sugli alberi».

Data questa cornice, il debito pubblico, ossia l’eccedenza delle uscite rispetto alle entrate, assume le sembianze di una mostruosa Idra capace di distruggere risparmi, famiglie, imprese e benessere. Un mostro che non è bene stuzzicare e che, in alcune situazioni, è addirittura necessario placare attraverso sacrifici umani.

La mossa della MMT è tanto semplice quanto spiazzante, e consiste nell’affermare una differenza sostanziale tra utilizzatore di moneta ed emittente di moneta. La narrazione della moneta come bene scarso, così come la morale dei conti in regola, valgono solo per i cittadini, per i privati, per le imprese, per le istituzioni amministrative, ma non valgono per l’autorità sovrana. Il governo statunitense grazie alla Federal Reserve, il governo inglese grazie alla Bank of England, e assieme a loro tutti gli stati dotati di sovranità monetaria, non possono mai finire i soldi. In quanto emittenti di moneta, essi possono sempre creare – proprio così, creare dal nulla! – denaro per compiere pagamenti.

E ma si tratta di indebitamento e i debiti vanno sempre onorati! – E ma l’inflazione galoppante, l’Argentina, Weimar, il nazismo! – E ma gli investimenti pubblici destabilizzano gli investimenti privati, drogando le economie e rendendole più fragili! – Comunistaaaa!

Stephanie Kelton ribatte in maniera chiara a tutte queste obiezioni. Vi invito caldamente a leggere il suo testo per saperne di più.

Sembra assurdo pensare che uno Stato pienamente sovrano non possa mai rimanere a corto di soldi, vero? Eppure, è così che funziona, almeno da quando, nel 1971 (ma in realtà anche da prima), il dollaro statunitense ha smesso di essere agganciato alla quantità di riserve auree (qui sì fissa e limitata, scarsa in natura). Uno dei grandi meriti delle tesi di Kelton e della MMT è infatti la loro natura primariamente descrittiva. Kelton non vuole dirci come dovrebbe funzionare l’economia per renderci tutt* felici e contenti; innanzitutto vuole spiegarci come di fatto funziona realmente l’economia e, in seconda battuta, come, dato questo contesto, potremmo migliorare le nostre economie e le nostre vite.

La MMT vuole ci costringe insomma a fare un passo “indietro” verso la realtà, dopo che, con la loro critica distruttiva nei confronti di ogni forma di trascendenza (cioè di differenza assoluta), l’illuminismo e alcune sue diramazioni – e in ciò il pensiero neoliberale va inquadrato come erede di quella tradizione – ci hanno convinto che “sopra le nostre teste” non ci sia (o non dovrebbe esserci) nulla.

Tra l’altro, quel percorso di “liberazione” dell’umano da ogni ingerenza alt(r)a si è forse concluso con il totale decadimento di ogni forma di trascendenza – religiosa, economica e politica? Certo che no. Son mutate le forme, le parole, le narrazioni appunto, ma le trascendenze sono rimaste. Non ci raccontiamo oggi che la stabilità delle nostre società è in mano ai mercati? Non sono i mercati a punirci e a correggerci quando ce lo meritiamo (ad esempio quando votiamo i populisti)? Non sono i mercati a stabilire il giusto valore delle cose (merci, persone, lavori, percorsi di studio)?

Non solo, dunque, quei percorsi di liberazione hanno fallito, ma sembrano addirittura aver contribuito a peggiorare le cose. La trascendenza – intesa (anche) come sommo principio di giustizia – rappresentata da i mercati pare infatti avere un volto meno amorevole e rassicurante rispetto allo Stato sociale e alla democrazia parlamentare.

Il merito di Stephanie Kelton è allora quello di indicarci il vero cammino di “liberazione”? No, si tratta semplicemente di un tentativo di ristabilire, almeno nel dibattito pubblico, una trascendenza, un principio di autorità più benevolo – in quanto possibilmente più attento alla salute, al benessere, all’istruzione e in generale alla qualità della vita – che è la sovranità monetaria degli Stati nazionali. Nessuna velleità utopistica dunque.

Guardare le cose attraverso la lente della MMT diventa così una condizione di possibilità non solo per impostare sistemi economici in grado di garantire una vita più degna e di qualità per la maggior parte delle persone, ma anche per affrontare tutte le più grandi sfide del domani (o dell’oggi): il riscaldamento globale, la conseguente distruzione degli ecosistemi, la ricerca medica, etc…

Ora, al fine di comprendere meglio il modo in cui Kelton concepisce la moneta, risulta prezioso un passaggio del suo testo sul ruolo delle tasse. Domanda: perché lo Stato ci fa pagare le tasse? Ma ovvio, direte, per mantenere infrastrutture, ospedali, scuole, servizi, per farci vedere Una pezza di Lundini e tante altre cose belle. Ecco, risposta sbagliata.

Questa risposta è emanazione diretta della narrazione mainstream precedentemente illustrata e oggi acriticamente assorbita. Kelton ci spiega che lo Stato non ha bisogno dei nostri soldi, proprio perché può crearne esso stesso dal nulla. «Non sono i nostri soldi che il governo desidera bensì il nostro tempo»[1]. Lo Stato ha bisogno delle tasse al fine di rendere desiderabile, agli occhi di tutti i cittadini, la propria moneta. Noi abbiamo bisogno di denaro, anche per pagare le tasse, e di conseguenza investiamo tempo, forza lavoro ed energie produttive per ottenerlo.

Da una prospettiva freudiana parleremmo di un classico meccanismo di sublimazione[2]: il tentativo di monopolio delle pulsioni (o dei desideri) rende lo Stato capace di uniformare e incanalare i desideri individuali, appagandoli in qualità di massima autorità (trascendenza) ed appianando così i conflitti che nascerebbero se tutti i desideri individuali cercassero di appagarsi da sé[3].



Fin qui alcuni dei grandi meriti di Kelton. Che dire dei punti oscuri, dei limiti? Punterei il dito su tre aspetti.

Primo. Kelton scrive che lo «scopo della MMT è prima di tutto quello di distinguere i limiti reali dai vincoli autoimposti che abbiamo il potere di modificare»[4]. I limiti reali sono quelli riguardano le risorse reali e l’economia reale. A seconda della quantità di competenze di cui disponi, a seconda del numero di persone disponibili, a seconda delle risorse materiali, fisiche ed energetiche, tu Stato potrai fare certe cose. Ad esempio, non puoi raddoppiare i posti letto, se non hai abbastanza medici, macchinari, se ti mancano i materiali per costruire ospedali avanzati. Questo è un limite reale. Il limite autoimposto, invece, riguarda il bilancio, ossia la quantità di denaro necessaria per pagare medici, infermieri, muratori, ditte, materiali, etc. Questo limite non è dato necessariamente, ma è autoimposto dal governo, in quanto il governo può, in linea di principio, travalicarlo spendendo qualsiasi cifra di cui ha bisogno.

Ebbene, questa distinzione così netta non mi pare convincente e mi pare un passo indietro rispetto alle premesse della teoria. Ha senso ritenere emendabile e aggirabile un vincolo solo perché autoimposto? Se così fosse, qualsiasi legge sarebbe in fondo illegittima e valicabile. Non siamo noi stessi che ci diamo le leggi?

Inoltre, il paradigma proposto da Kelton sembra qui prendere una piega materialista, nel senso in cui le risorse materiali diventano la priorità, mentre le risorse immateriali (“artificiali”, chiamatele come preferite), ossia il denaro come sistema di accentramento e controllo dei desideri, diventano semplicemente il mezzo per conseguire le prime con modalità ordinate e in grado di recare un buon profitto al maggior numero possibile di persone. La scarsità diventa il problema, mentre la liquidità e la potenziale illimitatezza del denaro diventano una soluzione[5]. È sciocco, argomenta Kelton, non sfruttare a dovere le risorse scarse di cui disponiamo – come testimoniato dall’alto tasso di disoccupazione e dal mancato impiego di tecnologie disponibili – al fine di tenere sotto controllo e di limitare un qualcosa di cui possiamo disporre a piacere[6], il denaro.

E tuttavia, tornando a Girard, dovremmo vedere in un’incontrollata giostra di desideri imitativi nientedimeno che il nemico number one di qualsiasi sistema sociale. Come mostrato dal pensatore francese, il nemico numero uno della pace, del benessere, della stabilità, è la spiccata tendenza dei desideri umani alla mobilità e al trovare soddisfazione in configurazioni di desiderio altrui. Leggi, denaro, istituzioni, fino alle forme più elevate di cultura, sono nate e cresciute per la loro capacità di regolare e porre un freno ai desideri mimetici. Certo, si tratta di limiti autoimposti, ma per questo derogabili a cuor leggero?

Sembra qui – ma lo si evince anche da altri passaggi – che una premessa implicita delle teorie di Stephanie Kelton consista in un’antropologia marcatamente ottimista. Prendiamo consapevolezza del carattere in buona sostanza fittizio di alcune limitazioni, utilizziamo questa consapevolezza e questi strumenti per aumentare la nostra felicità, il nostro benessere, per soddisfare e anzi accrescere i nostri desideri, per renderci più eguali. Cosa potrà andare storto?

Punto secondo: questa impronta ottimistica si ripercuote, mi pare, anche nel modo in cui Kelton vede i rapporti tra Stati. Giustamente nel testo viene criticato l’elogio mainstream di un “libero” scambio che esalta in maniera incontrollata l’aggressività e la competizione. Tuttavia, forse non vengono adeguatamente problematizzati gli effetti delle politiche monetarie espansive in un regime internazionale di cambi fluttuanti come il nostro. Cosa succede una volta che un’economia si satura e ottimizza le risorse a disposizione? Che ne sarà allora del potere delle autorità preposte di manipolare il valore della moneta? Come interagiranno tali autorità?

Terzo punto, meno rilevante. Lo smascheramento del mito del deficit apre le porte a una visione genuinamente “razionale” e scevra da ogni mitologia? No, come ho già scritto. La teoria di Kelton rimane mitologia. E forse gli accenni genuinamente apocalittici e infernali – inondazioni, strade che crollano, masse di poveri tormentati, piaghe sanitarie – che occupano buona parte degli ultimi capitoli del testo non sono un caso. Che cos’è il mito? Ampliando la definizione girardiana data in apertura, potremmo dire che è mito qualsiasi iterazione di una trascendenza fondata unanimamente. Qualsiasi istituzione, valore, cosa, che viene rappresentata come sovrastante e altra rispetto al gorgo magmatico di desideri (che Girard definirebbe interdividuali) è mitologia. Limitazioni e regolamentazioni dei desideri individuali e di gruppo sono mitologia, in quanto provengono dalla lunga e lenta trasfigurazione delle violenze fondatrici. Ergo, giustizia sociale, stato sociale e compagnia bella sono mitologie.

Ma chissenefrega? Che è ‘sto delirio filosofico? Forse avete ragione, forse. Forse non possiamo fare a meno dei miti e possiamo solo cercare di sceglierceli bene.

In chiusura, veniamo a noi italian*. La MMT si applica a quegli Stati avanzati dotati di sovranità monetaria, come appunto gli USA, il Regno Unito, la Cina, il Giappone. E noi? Com’è noto, noi abbiamo ceduto la sovranità monetaria a una Banca Centrale indipendente e sovranazionale su cui non esercitiamo pressoché alcun controllo democratico. Ci pensano i tecnici competenti che conoscono i mercati (figure mitologiche, tipo gli elfi della Gringott) a farla funzionare. Non una gran mossa insomma, e i risultati dovrebbero ormai essere piuttosto evidenti.

«[R]inunciare al potere di emettere moneta significa, di fatto, rinunciare alla possibilità di perseguire un’agenda politico-economica che serva al meglio gli interessi dei cittadini»[7], scrive Kelton. Che famo? Due alternative: o conquistiamo quel potere in seno alla BCE, trasformando radicalmente le istituzioni europee (su quanto sia irrealistico questo proposito non dovrebbero esser rimasti molti dubbi), o riportiamo quella sovranità dove è stata esercitata per decenni, ossia in seno al nostro Parlamento (certo un cammino impervio, dal punto di vista politico e tecnico).

Data la crisi montante – crisi sanitaria, economica, ma soprattutto crisi della trascendenza – sarà il caso di trovare una soluzione in fretta.

Note
[1] S. Kelton, Il mito del deficit, p. 60.
[2] S. Freud, L’avvenire di un’illusione, in Opere complete Vol. 10, p. 436.
[3] Questa intuizione sul ruolo del denaro è davvero interessante, e apre il campo a studi girardianemente fondati sull’origine della moneta (ambito in cui Girard sarebbe quantomai necessario, data la commistione inestricabile di religione, politica ed economia).
[4] S. Kelton, Op. cit., p. 77.
[5] Con Girard non dovremmo convincerci del contrario, ossia che l’illimitatezza e l’insaziabilità del desiderio umano siano il problema, e che l’attenzione (che in verità è distrazione) data agli aspetti materiali finiti (cose, oggetti, corpi…) sia la soluzione?
[6] Qui Kelton pone in realtà dei limiti in riferimento al fenomeno dell’inflazione. Inflazione che, data la cornice girardiana sopra delineata, potremmo definire come l’autoannichilimento del desiderio, di cui Shakespeare offre una raffigurazione particolarmente efficace in Misura per misura. R. Girard, Shakespeare. Il teatro dell’invidia, p. 473.
[7] S. Kelton, Op. cit., p. 14.

di Marco Stucchi

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