Tra Shakespeare e i Vangeli, passando per Kurosawa

Finale, prospettiva, resurrezione



Leggendo e discutendo Romeo e Giulietta la mia attenzione è stata catturata in particolare dal finale della tragedia (ammesso che di tragedia si tratti).

Nell’ultimo atto Romeo raggiunge Giulietta nel sepolcro dei Capuleti, la vede priva di vita e si uccide per la disperazione. Quando Giulietta, creduta morta da tutti – meno che da frate Lorenzo, il quale le somministrò la pozione della morte apparente per permetterle di fuggire con l’amato –, si sveglia e vede Romeo morto ai suoi piedi, si uccide con un pugnale. Accorrono tutti, guardie, Principe, Capuleti, Montecchi e compagnia. La scena davanti ai loro occhi appare grottescamente assurda: «Giulietta, ch’era già morta, è stata appena uccisa» (V, III, 201), dice la guardia, «il pugnale ha sbagliato» (V, III, 203), strilla Capuleti.

Da spettatori conveniamo sul fatto che, al fine chiarire la situazione, sia necessario conoscere ogni circostanza (V, III, 181), e che si debba convocare le persone sospette (V, III, 222). Giunge dunque frate Lorenzo, che spiega l’accaduto con lodevole trasparenza e concisione. Dal suo racconto consegue l’encomiabile conclusione del Principe: l’odio tra Montecchi e Capuleti è stato punito con queste tragiche morti. Le due famiglie accettano la conclusione regale, si scambiano giuramenti di pace ed innalzano statue d’oro per ricordare ed onorare l’amore dei loro figli. The end.

Questo finale richiama per diversi aspetti un altro finale shakespeariano, ossia quello de Il racconto d’inverno, uno degli ultimi testi del Bardo.

Leonte, Re di Sicilia, in preda a una furiosa gelosia, ritenendosi tradito dal miglior amico Polissene e dalla moglie Ermione, accusa i due sospetti amanti. Polissene fugge in Boemia, mentre Ermione muore di dolore, non prima di aver dato alla luce una figlia, Perdita, la quale però è rinnegata dal padre e allontanata dal regno. Leonte – perdonate la mia concisione, ma non quella di frate Lorenzo – trascorrerà quindici anni consumato dal rimorso, mentre Perdita, cresciuta lontano da casa, si innamora del figlio di Polissene. I due giovani tornano così in Sicilia dove incontrano Leonte, il quale, inizialmente, rivede i fantasmi del passato: l’amico Polissene nel figlio di lui e la moglie Ermione nella giovane ragazza.



Ma andiamo dritti al finale dell’opera, dove vanno rilevate importanti somiglianze e differenze rispetto al quinto atto di Romeo e Giulietta.

Così come accade nel sepolcro dei Capuleti, anche ne Il racconto d’inverno il finale si tiene al cospetto della morte. Tutti, infatti, sono radunati davanti a una statua della compianta Ermione. Tuttavia, all’apparente resurrezione di Giulietta, grottesca ma puntualmente spiegata e risolta da frate Lorenzo, fa da contraltare la resurrezione, commovente e inspiegata, di Ermione. Nell’ultima scena, infatti, la statua di Ermione scende dal piedistallo come per magia e si rivela essere Ermione stessa, viva.

Un’altra differenza, sostanziale, riguardante la prospettiva dello spettatore. In Romeo e Giulietta noi spettatori assistiamo in diretta, al fianco dei protagonisti, allo “spiegone” risolutivo. Come un detective alla fine di un giallo, frate Lorenzo spiega cosa è successo, apparecchiando la tavola per la tirata morale del Principe.

Ne Il racconto d’inverno le cose vanno diversamente. Qui non assistiamo direttamente allo scioglimento di tutti i nodi della trama. La seconda scena dell’atto finale, in cui nodi della trama si dipanano, è occupata da alcuni gentiluomini anonimi – estranei rispetto alle vicende di Leonte e compagnia –, i quali si raccontano i fatti accaduti nel momento clou. Rispetto al racconto di prima mano, chiaro e lineare di frate Lorenzo, il racconto di seconda mano dei gentiluomini è, per ammissione degli stessi gentiluomini, zoppicante, simile a vecchia favola, un racconto addirittura impossibile, tant’è che i «ballad-makers cannot be able to express it»[1].

Ancora una differenza che vorrei farvi notare. In entrambi i finali compaiono delle statue. In Romeo e Giulietta, tuttavia, le statue vengono erette come moniti pubblici, ne Il racconto, invece, una statua smette di esser tale.

Il punto su cui mi vorrei concentrare – che forse è in grado di spiegare gli altri due – è il secondo, quello circa la prospettiva dello spettatore e del “narratore”.



In Romeo e Giulietta narratore, personaggi e spettatori sono allineati su uno stesso livello dal racconto del frate: è come se fossimo tutti lì, come se tutti avessimo davanti agli occhi le medesime incontrovertibili evidenze circa i fatti accaduti. La prospettiva è unica e univoca; di conseguenza l’accento cade sui fatti, asetticamente descritti da frate Lorenzo, il quale fa il riassunto della vicenda (perfetto per Wikipedia o skuola.net), permettendo al Principe di trarre la stessa morale (catartica) che continuiamo a trarre oggi.

Ne Il racconto d’inverno, invece, Shakespeare sceglie di dare spazio, piuttosto che ai fatti, alle testimonianze dei fatti, peraltro piuttosto vaghe e improbabili. Presentando l’accaduto per via indiretta, attraverso la testimonianza dei gentiluomini, Shakespeare dà maggior rilievo alla testimonianza in sé, chiamando così in causa lo spettatore.

Allo spettatore sembra che venga posta una domanda: e tu, in che cosa credi? Nella seconda scena del quinto atto abbiamo l’impressione di essere lì con i gentiluomini a discutere su quanto accade a palazzo. Anche noi siamo interessati, vogliamo curiosare, metterci il dito, recarci a palazzo per vedere con i nostri occhi che succede. E che cosa vedremmo a palazzo?

La scena successiva, l’ultima, risponde a questa domanda: nel palazzo verremo (nuovamente) messi davanti a noi stessi e ai nostri desideri, non vedremo nulla di più di quello che avremmo già dovuto vedere. Non c’è nessuno spiegone di frate Lorenzo; il focus rimane sulla testimonianza, non sui fatti. Paulina sembra rivolgersi anche a noi quando, mostrando la statua di Ermione, dice che, se vogliamo partecipare a un miracolo, dobbiamo svegliare la nostra fede (V, 3, 95).

Shakespeare ci vuole suggerire che il “miracolo” a cui si allude, non può esser convalidato da nessuna prova “esterna”.

A cosa crederemo di fronte alla statua che si muove? A un fatto sovrannaturale? A un’astuzia di Paulina? A un’allucinazione collettiva? A una bella trovata di Shakespeare? Oppure crederemo alla rinuncia di Leonte – in ciò antesignano di Prospero – di rivivere (ma questo è vivere?) coattivamente in un passato di fantasmi?

Non si tratta qui di un credere distaccato, a costo zero. La rinuncia di Leonte al suo desiderio è parallela al nostro prendere atto della possibilità, anche per noi stessi, di tale rinuncia. Qui, forse, risiede l’effetto emozionante del finale dell’opera.



Ma a che cosa si rinuncia esattamente? La rinuncia in questione è, in buona sostanza, rinuncia – in quanto spettatori, in quanto voyeur e infine in quanto semplici soggetti desideranti – ad alimentarsi del desiderio altrui; che al contempo è rinuncia a un teatro rassicurante, capace di mostrarci i desideri altrui, stuzzicando i nostri desideri corrispondenti, senza però metterli in discussione.

Il racconto d’inverno ci offre la possibilità di rinunciare a ciò, ma pur sempre di possibilità si tratta. Shakespeare non è frate Lorenzo, non ci impone i fatti. Sta a noi aprire gli occhi. Se lo vogliamo vedere, se siamo pronti a “svegliare la nostra fede”, possiamo vedere Leonte rinunciare al desiderio altrui (al desiderio di Ermione per sé, ma anche al desiderio di Polissene per lei) e quindi all’idolo – muto, immobile, eppure pesante come una statua – che quella rete di desideri altrui aveva alimentato e generato. È in quel momento che la statua di Ermione prende vita. Ma in realtà, il ritorno alla vita, ritorno dalle secche dei rimorsi e dei desideri sempre necessariamente frustrati, è di Leonte. Man mano che Leonte si converte, ossia rinuncia a un tipo di desiderio che aveva reso la sua vita un vero e proprio inferno, la statua di Ermione pare sempre più viva.

A questo punto non possiamo tacere alcune somiglianze tra il finale de Il racconto d’inverno e l’episodio della resurrezione nei Vangeli. Mi soffermo su un punto in particolare. Nei Vangeli nessuno assiste direttamente alla resurrezione di Gesù, mentre tutti assistono alla crocifissione. Il lettore, così come i personaggi dei Vangeli, viene a sapere della resurrezione grazie a un annuncio, a un racconto di qualcosa già accaduto. Perché la resurrezione di Cristo viene allusa, raccontata, e non direttamente rappresentata?

Anche in questo caso, io credo, si tratta di porre l’accento sulla testimonianza e, di conseguenza, sulla prospettiva dell’ascoltatore (o lettore, se la testimonianza è scritta). Il punto è che, come nota Girard[2], senza conversione non c’è resurrezione. Questa scelta di prospettiva nei Vangeli ci spinge ad affermare che la resurrezione consiste in fin dei conti nella conversione, ossia nel mutamento interiore di chi assiste alla testimonianza (della resurrezione).

Ne Il racconto d’inverno è Leonte, prima di Ermione, a resuscitare dopo quindici anni di vita apparente. Possiamo convertirci, da fruitori di un teatro catartico a destinatari di una testimonianza, se noi spettatori, proprio come Leonte, rinunciamo a (vedere messi in scena) quei desideri (spesso molto simili ai nostri) perennemente votati allo scacco: i desideri che muovevano Romeo, Giulietta, Otello, Bruto, Macbeth, i quattro innamorati del Sogno.



Un intervento esterno in grado di estirpare ogni nostro dubbio non può prendere il posto di questa conversione. Non saranno disquisizioni esegetiche a farci cambiare idea (Luca 24, 27), né prove fisiche – una pietra gigante spostata?! e chi l’ha spostata?! –, nemmeno l’apparizione di colui che è resuscitato in persona (Giovanni 20, 25)! I Vangeli e Shakespeare ci offrono uno stesso messaggio: o rinunciamo ai desideri ostacolati, oppure si troverà sempre una scusa per rimanervi ancorati.

In chiusura consideriamo un’ultima fonte testuale – o un’ultima testimonianza, se preferite – che potrebbe chiarire e avvalorare il discorso intrapreso. Mi riferisco a uno dei maggiori capolavori del regista Akira Kurosawa, Vivere.

Watanabe, un piccolo burocrate giapponese, tormentato anch’egli dal proprio passato e paralizzato in una vita ripetitiva e muta, scopre di avere un tumore. Nei suoi ultimi mesi di vita si avvicendano alcuni tentativi di fuggire dal deserto che si era creato attorno, arrivando così a prendere a cuore la causa di un gruppo di mamme che chiedono di bonificare una zona paludosa per trasformarla in un parco giochi.

Ma anche qui, non sono i nudi fatti che ci devono interessare. Questo è il riassunto wikipediano àla fra Lorenzo. Kurosawa sa bene che conta ciò che viene dopo, non i fatti in sé, e opta così per una modalità narrativa e rappresentativa tutt’altro che diretta. Egli dedica infatti quasi un terzo del suo film a un commento sul film stesso. Il commento è affidato anche in questo caso ai personaggi – colleghi, familiari e conoscenti di Watanabe – che si incontrano in occasione della cerimonia funebre e scambiano le proprie opinioni sugli ultimi mesi di vita di Watanabe. Che cosa lo ispirò? Che meriti ha effettivamente avuto nella bonifica dell’area paludosa? Si adoperò solo perché sapeva che di lì a poco sarebbe morto? Perché fece così e così?

Prima in compagnia dei tre gentiluomini, poi camminando con due discepoli verso Emmaus, ora in ginocchio bevendo saké, siamo ancora nel mezzo di discussioni e racconti su fatti bizzarri, forse miracolosi, che riguardano in qualche modo morte e resurrezione.

Anticipando il finale (o ritardandolo) Kurosawa porta in scena una molteplicità di voci e prospettive, creando così lo spazio per una scelta da parte dello spettatore. Altrettanto non accade in Romeo e Giulietta, dove il finale calza a pennello, e in luogo di un sovrapporsi di racconti e opinioni abbiamo due statue mute (tanto mute quanto è verboso fra Lorenzo) e immobili, morte come i personaggi che rappresentano.



Leonte, Cristo e Watanabe sono davvero tornati dalla morte (una morte ovviamente non biologica)? Così come i vari personaggi scelgono se credere, resistere o negare, sta a noi fare i conti con noi stessi ed accogliere o meno la testimonianza. Una testimonianza di seconda mano, non clamorosa, né violenta finanche nel modo di imporsi. Una voce tenue, spesso sovrastata da altre. «Speak low, if you speak love», diceva Pedro in Tanto rumore per nulla.

Non è un caso se – ultimissima differenza che noto tra i rispettivi atti quinti di Romeo e Giulietta e Il racconto d’inverno – dei cieli sereni risplendono sul finale de Il racconto, mentre un cielo grigio accompagna la conclusione di Romeo e Giulietta. E non è certo perché – come suggerisce il Principe (V, 3, 306) – i due amanti sono morti, mentre, dall’altra parte, Ermione è tornata in vita. Il seme che muore non porta forse molto frutto (Giovanni 12, 24)? Il sole non compare perché si vergogna della nostra idealizzazione dell’amore mortifero dei due giovani, così come del nostro accontentarci di un finale manicheo, punitivo e senza possibilità d’appello. Al contrario, ne Il racconto d’inverno, il sole risplende sulla nostra occasione di cogliere una testimonianza, un insegnamento, davanti a cui sta soltanto a noi riuscire ad aprire gli occhi.

Note
[1] V, 2, 24. «In un’ora è scoppiata una quantità tale di meraviglie che gli autori di ballate non riescono a scriverle». Shakespeare, come in altre occasioni, ironizza sul suo ruolo e sul suo teatro.
[2] Girard R., Shakespeare. Il teatro dell’invidia, Adelphi 1998, p. 540.

di Marco Stucchi

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