Predator: più di un film d’azione

predator

Se dovessimo dare un giudizio su Predator a partire dalla quantità di muscoli ipertrofici presenti sullo schermo, non potremmo che pronunciare una stroncatura senz’appello. Tipico film d’azione americano degli anni Ottanta, il primo fortunato capitolo di una saga ormai più che trentennale è un concentrato di machismo celodurista e testosteronico.

Ma – e come si suol dire tutto ciò che viene prima di un “ma” non vale – a ben vedere Predator riesce nell’impresa di non essere solo questo. Senza voler qui scomodare l’impegnativo titolo di “opera d’arte”, il film è comunque pregevole e stimola lo spettatore alla riflessione.

Partiamo dalla trama. In un non-meglio-specificato Paese latinoamericano, un gruppo di contractor guidato dall’ex Maggiore Alan “Dutch” Schaefer, interpretato da Arnold Schwarzenegger, viene assoldato dalla CIA per salvare alcuni ostaggi in mano a non-meglio-specificati guerriglieri della zona. Come vuole il cliché, i nostri eroi – oddio, eroi… diciamo “i nostri” – sono i più duri, i più muscolosi, i più efficienti in circolazione. In una parola sono i migliori. Migliori persino dei militari dell’esercito, che vengono descritti invece come un branco di corrotti, privi di senso dell’onore e di sano cameratismo.

Il predator

La missione sembra andare alla perfezione: in sette – non è un’esagerazione: sono letteralmente sette persone – individuano senza problemi il campo nemico in mezzo all’intrico della giungla, attaccano i guerriglieri, che invece sono tipo un centinaio (e sono sovvenzionati dai russi: la Guerra Fredda vuole il suo tributo), e li uccidono tutti.

Purtroppo, ma non è certo una colpa che può essere loro imputata, Arnold & Co. arrivano tardi, quando gli ostaggi sono già stati uccisi. In pratica hanno fatto una strage immane senza alcun motivo, ma non soffermiamoci troppo su questi dettagli.

Fin qui, le premesse farebbero storcere il naso praticamente a chiunque sia, almeno vagamente, un “sincero democratico”. Solo che, guardando il minutaggio del film, ci rendiamo conto che sono passati più o meno trenta minuti, siamo solo a un terzo della pellicola. Evidentemente, la storia non può finire qui.

E infatti, il bello deve ancora venire. Presa come prigioniera (ostaggio?) una guerrigliera scampata alla mattanza – perché le donne, si sa, i mercenari al soldo della CIA non le toccano nemmeno con un fiore – i protagonisti si mettono in marcia per raggiungere il “luogo dell’estrazione”, ossia un punto dove l’elicottero potrà recuperarli e riportarli in Patria.

Ma la giungla è piena di insidie e un misterioso nemico si cela tra gli alberi.

È il predator: un alieno che ha deciso di fare un salto sulla Terra per fare un bel safari. Le prede, naturalmente, siamo noi esseri umani. Ma non tutti, solo quelli in grado di difendersi. E chi, tra questi, sono i migliori candidati a lottare fino all’ultimo sangue contro il predatore venuto dallo spazio, se non proprio i più muscolosi, i più duri, i più efficienti ammazzacristiani?

Cosa che puntualmente avviene. E puntualmente l’intera squadra viene fatta a pezzi, in uno stillicidio di morti orrende che dura la restante parte del film. Vengono uccisi tutti tranne due: la ragazza, che viene lasciata vivere dal predator in quanto appunto indifesa e quindi non meritevole di attenzioni, e il protagonista tra i protagonisti, Arnold. Lui è l’unico a sopravvivere, anzi, a vincere la sfida contro l’alieno, uccidendolo.

Il film si chiude quindi con un primo piano del protagonista, che guarda con occhi vitrei l’orizzonte, scioccato dall’esperienza.

Apparentemente siamo in presenza di una storia lineare: l’operazione di controguerriglia è un MacGuffin, un pretesto narrativo, per introdurre il vero centro della trama, la lotta tra i contractor e il predator, tra il bene e il male, che ha la sua ovvia soluzione con la vittoria del primo sul secondo.

Tuttavia, a ben vedere, quest’interpretazione non convince. A partire proprio dalla struttura della trama. Dividendo il film in capitoli interni, tre sarebbero le parti. La prima, in cui i mercenari mettono in campo una vera e propria caccia, feroce, che non lascia praticamente scampo alle loro prede, ai guerriglieri. La seconda, in cui i predatori vengono cacciati a loro volta, in cui quindi avviene una prima inversione, un ribaltamento nei ruoli, e che provvisoriamente si conclude allo stesso modo in cui si era concluso il primo spezzone del film: come i guerriglieri prima, sono ora i mercenari a subire una sorte orribile. La terza, infine, in cui l’unico sopravvissuto ingaggia la lotta definitiva contro il predator. Qui di nuovo, preda e predatore si cambiano di posto.

Solo che a differenza di quanto visto in precedenza, ora il ribaltamento dei ruoli è continuo, incessante, al punto che non si capisce più chi stia cacciando chi. Il confine tra i due poli si assottiglia fino a scomparire: entrambi sono predatori e prede allo stesso tempo.

Arnold Schwarzenegger Predator

Non è la dialettica tra bene e male, quindi, al centro del racconto, ma il rispecchiamento, in cui i due protagonisti – il Maggiore Dutch e il predator – finiscono per identificarsi. Uno è l’opposto dell’altro, ma proprio per questo ne è anche complementare: è l’altra faccia della stessa medaglia.

Anche le scelte estetiche vanno in questa direzione. La rappresentazione iniziale degli elementi caratterizzanti dei personaggi è talmente esasperata da risultare grottesca. Le capacità di orientamento nella giungla, la facilità con cui individuano il campo nemico, persino le armi spropositate che usano (uno di loro – cappello da cowboy d’ordinanza e puzzolente tabacco da masticare in bocca – si porta dietro, in spalla, in mezzo alla giungla, un M134 Minigun, ossia un Gatling da elicottero che pesa trenta chili scarico!) appaiono più un sintomo di rozzezza, di grossolanità, che di abilità.

I migliori, in fondo, tanto bravi non sono. Piuttosto sono abbastanza violenti e senza scrupoli da riuscire nei loro intenti.

Proprio per questo vengono facilmente uccisi dal predator. Che viceversa è un cacciatore abile, in grado di sfruttare il mimetismo, di tendere imboscate. E che fa ricorso alla violenza, brutale e gratuita, non come mezzo ma solo come fine, per mero divertimento.

Soltanto quando il Maggiore Dutch dismette le caratteristiche che lo contraddistinguono, ossia quando smette di fare affidamento sui muscoli, ha delle chance di sconfiggerlo. Ecco allora che per combattere la mimetizzazione del predator, il Maggiore Dutch si mimetizza a sua volta, per ucciderlo elabora un complesso sistema di trappole, per colpirlo gli tende delle imboscate. Ancora una volta un personaggio trapassa nell’altro, dimostrando la complementarietà di alieno e umano.

Non solo. Proprio l’incapacità di avere la meglio sul predator con l’uso della mera forza bruta, indica come la celebrazione del machismo con cui abbiamo aperto l’articolo sia in realtà piuttosto la denuncia dei suoi limiti, dei suoi inevitabili impasse. Una denuncia rafforzata dal fatto che di fronte alla trasformazione del protagonista anche il predator cambia. Divenuto preda, egli fa ricorso alla mera forza bruta per salvarsi e sconfiggere il suo nemico. Si abbassa alla rozzezza e grossolanità che aveva condannato le sue vittime alla morte. E infatti, con queste, alla fine condivide lo stesso destino: l’alieno si dimostra del tutto uguale agli esseri umani che caccia.

Provando ad ampliare il discorso, emerge qui l’antico problema del rapporto con l’alterità. Un rapporto che non si dà mai come opposizione tra due poli assoluti e incomunicabili, il che renderebbe impossibile persino la relazione stessa.

Bensì presuppone l’identità come punto di riferimento a cui l’alterità si riferisce.

Quella che si sviluppa è, per esprimerci filosoficamente, una relazione dialettica, in cui il lato negativo è contenuto nel positivo. Di più, è una relazione che non si risolve mai nella mera riaffermazione del punto di partenza, ma sempre in una trasformazione, in un cambiamento. Per tornare a Predator, Dutch non solo si fa “alieno” adottando le tecniche di caccia del predator, ma esce dall’esperienza annichilito.

Certo, qui stiamo evidentemente forzando il dettato filmico, mettendo per un attimo da parte l’intenzione degli autori e la possibile interpretazione letterale del racconto. E tuttavia, questo è reso possibile restando coerenti a quanto messo in scena. Dimostrando così che Predator, nonostante sia un prodotto hollywoodiano, contiene spunti di riflessione che vanno ben oltre se stesso.

di Simone Coletto

Autore

  • Laureato in Filosofia, in Scienze filosofiche e poi anche in Storia per onorare il proverbio secondo cui non ci può mai essere il due senza il tre, si occupa di politica mentre attende sia il momento di fare la rivoluzione. Nel frattempo fa anche MMA, per cui quando sarà il momento converrà essere dal suo stesso lato della barricata.