Basterà un seme?

Alla scoperta della “relazione” nell’opera d’arte

seme

Per fare un tavolo ci vuole il legno. Per fare il legno ci vuole l’albero. Per fare l’albero ci vuole il seme… Scommetto che non avete potuto fare a meno di leggere cantando! Per ogni bambino dagli anni ’70 in poi Ci vuole un fiore rappresenta forse la prima teorizzazione del principio di causalità. Oddio, la causa prima che dovrebbe chiudere la catena (Per fare tutto ci vuole un fiore) è forse discutibile, ma non siamo certo qui a fare le pulci a una canzone per bambini…

Invece sì, facciamo le pulci a una canzone per bambini! Perché, a dire il vero, per fare un albero non basta un seme. Provate a gettare un seme sull’asfalto e vedete che bell’albero ne verrà fuori. E non c’è nemmeno bisogno di ricorrere a un esempio tanto estremo. Ci sono semi che attecchiscono bene solo in un terreno basico, altri che si prestano solo a uno acido. Noi potremmo avere il seme con le migliori potenzialità, ma senza un terreno adatto ad accoglierlo resterà un seme. Niente albero, niente tavolo e niente fiore.

Tra tutti gli atti che possiamo compiere ce ne sono alcuni che non si esauriscono nell’atto stesso, ma che trovano compimento solo in un secondo atto al primo correlato. Quando si invidia o si perdona qualcuno, non è affatto necessario che l’invidiato e il perdonato siano direttamente coinvolti: io posso invidiare o perdonare senza che l’interessato venga mai a saperlo. E non per ciò l’invidiare e il perdonare perdono il loro senso. Altri atti, invece, se non vengono percepiti e non stimolano una reazione consequenziale perdono il loro significato. Se si dà qualcosa, ma nel passaggio questa cosa viene perduta e quindi non è ricevuta, allora non è nemmeno stata data. L’atto del dare trova il suo compimento nell’atto del ricevere. Un dare senza ricevere non è concepibile. Se il dare non trova soddisfazione nel ricevere, allora cambia significato. Diventa uno smarrire, ad esempio. Un discorso simile può essere fatto anche con il comandare, il domandare…

Il lettore si starà chiedendo: «Cosa diamine c’entra tutto questo con la musica?». C’entra, nella misura in cui il fare musica non è un atto solipsistico, ma implica sempre la presenza di un altro. Il suonare porta sempre con sé l’ascoltare. L’uno non può darsi mai senza l’altro. Un brano di musica comporta sempre due ruoli: chi suona e chi ascolta. Questo fatto è evidente quando si tratta di due entità distinte (un pianista e il suo pubblico), ma è presente anche quando i due ruoli sono riuniti nella medesima persona (il pianista che suona inascoltato da altri). Questo caso particolare ci permette di notare che si può fare musica soltanto nella misura in cui si può ascoltare. Il pianista suona nella misura in cui ascolta ciò che sta suonando. Nell’atto dell’ascoltare ne va dell’atto del suonare.

seme rembrant

Suonare senza essere ascoltati è come gettare un seme sull’asfalto, è come un dare senza il corrispettivo ricevere. Ma così come la cosa data e non ricevuta cambia significato, il brano di musica che viene suonato e non ascoltato è ancora un oggetto d’arte? In termini generali, un’opera d’arte, quando non è fruita, può dirsi ancora un’opera d’arte? Immaginiamo un dipinto che dopo aver ricevuto l’ultima pennellata sia stato riposto in un sottotetto. È un’opera d’arte? Qualcuno potrebbe esclamare: «Sì, è un capolavoro dimenticato!». Ma questo lo si può dire solo a posteriori: dopo averlo riconosciuto in quanto capolavoro si può affermare che prima della sua scoperta fosse un “capolavoro dimenticato”. Ma ora, nel momento in cui giace celato agli occhi del mondo, questo dipinto che cos’è? Possiamo dire a malapena che esiste.

Vediamo un caso forse altrettanto estremo. Immaginiamo un Rembrandt che, anziché riposare in un solaio polveroso, sta appeso sopra il caminetto di una locanda. Centinaia di persone tutti i giorni lo vedono, nessuno lo osserva. Possiamo definirlo un’opera d’arte? Anche qui, a posteriori si potrà parlare «del capolavoro misconosciuto, dimenticato in una polverosa locanda ecc.»; ma ora, mentre sta appeso sopra il caminetto e si impregna del fumo dei sigari e degli odori della cucina, che cos’è? È un oggetto di arredamento, niente più. «Ma è un Rembrandt!». Sì, ma chi lo sa? Cosa distingue Rembrandt da un imbrattacroste che sbarca il lunario vendendo paesaggi alle locande?

Il fruitore nella sua indifferenza (indifferenza che ci impedirebbe persino di chiamarlo “fruitore”) cambia significato non solo all’oggetto che a posteriori definiamo “opera d’arte”, ma anche all’atto che ne è alla base, ossia all’atto creativo. Perciò si mettano il cuore in pace gli “artisti”. Non c’è fama che possa rendere immortale il loro genio: ci sarà sempre qualcuno che riserverà ai loro capolavori l’attenzione che potrebbe dedicare a un mestolo da cucina (forse meno: un mestolo ha una certa utilità pratica).

il duetto

Il corrispettivo musicale del Rembrandt nella locanda potrebbe essere una sinfonia che risuona in un centro commerciale. In questo caso la sinfonia è già conosciuta e se fosse eseguita in una sala da concerto verrebbe ascoltata con la più viva attenzione. Ma ora che cos’è? Musica d’arredamento, nulla più: un modo qualunque per riempire gradevolmente lo spazio sonoro. E in questo modo, Beethoven e il più mediocre tra i compositori di jingle pubblicitari si scambieranno uno sguardo scorato, uniti da un comune destino.

E, a dirla tutta, una pinacoteca, un teatro o una sala da concerto non danno alcuna assicurazione alle opere d’arte di essere fruite in quanto tali. Io posso “visitare” una pinacoteca guardandomi le punte dei piedi, “assistere” a uno spettacolo pensando ai miei problemi familiari, “ascoltare” un concerto facendo le parole crociate.

Il fatto è che non esiste un “oggetto musicale” con le sue immobili e stabili caratteristiche, così come non esiste un “soggetto musicale” altrettanto ben definito. Ciò che esiste è una relazione che mette costantemente in gioco l’un polo e l’altro, modificandone il significato.

Una sinfonia di Beethoven è indubbiamente un seme prezioso, ma quale albero volete che germogli nell’animo di chi non sa o non vuole ascoltare?

di Martino Ruggero Dondi

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