Vizio privato e pubblica virtù: tre filosofi cinesi sull’attesa

vizio privato

Che i sudditi dell’antico impero cinese fossero un popolo paziente, lo si ricava dal fatto che dovettero aspettare per più di cinquecento anni prima di diventare i sudditi dell’antico impero cinese. Da quando, nel 771 a.C., il potere esercitato dalla dinastia reale dei Zhou si era rivelato in tutta la sua fragilità, l’intero Paese era divenuto il teatro di un’eterna guerra tra i membri dell’aristocrazia, ciascuno dei quali spendeva i propri soldi e il sangue altrui nel tentativo di riunificare, sotto un unico scettro, un territorio vastissimo e spezzettato. A spuntarla sarà nel 221 a.C. il sovrano del paese di Qin, che si proclamerà imperatore dopo aver tolto di mezzo tutti gli altri pretendenti al titolo, ma nel frattempo fu proprio questo caotico interludio a regalare alla Cina i suoi grandi filosofi: uomini d’ingegno e di scienza, che percorrevano in lungo e in largo le strade del regno per convincere i vari signori contendenti a tradurre in pratica le loro teorie sull’arte di governo.

Non stupisce ritrovare anche in Cina, e nei suoi testi più antichi, riferimenti all’attesa come virtù politica e militare: in ogni tempo e in ogni luogo sono forse l’esperienza umana e il senso comune, prima ancora che la speculazione filosofica, a consigliare l’attesa del kairós, del momento opportuno all’azione, per incrementare le possibilità di successo in una data impresa. Più curioso è invece notare come l’atteggiamento dei vari pensatori cinesi verso un simile concetto, per noi quasi intuitivo, nasconda sfumature d’opinione anche molto differenti tra loro.

Nel Lunyu, la raccolta di citazioni attribuite a Confucio (551-479 a.C.) dalla memoria dei suoi discepoli, troviamo per esempio questo scarno aneddoto: «Prima di agire Ji Wenzi rifletteva tre volte. Venutone a conoscenza, il maestro ebbe a commentare: “Due volte può già essere sufficiente”»[1]. Come sempre accade in quest’opera, la natura episodica del testo ci impone di leggere un po’ tra le righe. Qui Confucio sembra pensare che, sebbene l’atto debba sempre essere preceduto da un’attenta valutazione, prolungare il tempo di attesa in modo eccessivo possa risultare inutilmente superfluo, se non proprio controproducente. Con le sue parole il Maestro avrebbe quindi inteso dar di sprone a quei poveri asinelli di Buridano che, per il troppo riflettere, finiscono per non tradurre mai il pensiero in azione – circostanza sommamente indesiderabile per un filosofo che considerava motivo di gioia «studiare e a tempo debito mettere in pratica quanto si è appreso»[2].

vizio privato. L'imperatore della Cina Qin Shi Huang

È però un’altra opera, più tarda e più chiara nelle sue intenzioni, a farci capire quanto tra i seguaci di Confucio il vizio di un’eccessiva prudenza fosse merce comune. Il libro di saggi e dialoghi conosciuto come Mozi fu composto a più riprese, nell’arco di quasi duecento anni, da autori che pretendevano di trasmettere in modo fedele gli insegnamenti dell’omonimo filosofo vissuto nel V secolo a.C. Mozi credeva che solo l’esercizio di un amore imparziale e incondizionato tra tutti gli esseri umani potesse mettere fine alle guerre, un’idea che, sebbene oggi valga soltanto a riscuotere il sarcastico «ma va?» dei lettori di questo articolo[3], era da lui sostenuta con una certa finezza argomentativa.

Le opinioni di Mozi lo portarono spesso a polemizzare con chi invece cercava in altri metodi una cura alle magagne del mondo; tra le altre cose, gli autori del libro che porta il suo nome mettevano in bocca agli odiati confuciani la seguente massima: «Il gentiluomo è come una campana. Se la percuoti, una campana suona. Se non la percuoti, non emette alcun suono»[4]. In altre parole, finché le circostanze non lo chiamano all’azione, un uomo di retta virtù dovrebbe restare in attesa del proprio turno, contentandosi di praticare in privato quei buoni costumi col mezzo dei quali, in un momento migliore, tenterà di trasformare anche la cosa pubblica. Ma per il battagliero Mozi i rischi di questa posizione erano evidenti: avrebbe potuto aprire la strada a uno sterile fatalismo, invitando a perdersi in vuote mannaggie contro la sorte avversa quegli stessi gentiluomini che, invece, avrebbero dovuto adoperarsi attivamente per il bene dei loro simili[5].

Fu però solo alla fine dell’epoca degli Stati Combattenti (403-221 a.C.), quando ormai le vecchie terre dei re Zhou cadevano sotto le armate dell’aggressivo paese di Qin, che il saper attendere cessò di essere un semplice consiglio dettato dal buonsenso e si trasformò in vera arte politica. Di questo cambio di prospettiva offre testimonianza il Lüshi Chunqiu, un’enciclopedia filosofica la cui realizzazione fu promossa dal cancelliere di Qin, Lü Buwei, per l’ammaestramento dei suoi sovrani; dei molti capitoli che la compongono, uno è esplicitamente dedicato allo xu shi, l’attesa del momento opportuno.

«Il saggio», dice il libro, «sembra lento nell’azione ma in realtà si muove rapidamente, sembra incline a procrastinare ma in realtà procede spedito: questo perché sa attendere il momento giusto. […] Se un cavaliere che conosce la Via (dao) non trova il momento opportuno, va a nascondersi in qualche sua tana e lavora con diligenza aspettando la sua occasione»[6]. Sembra di sentir parlare i confuciani del Mozi. Anche il Lüshi Chunqiu, opera sincretica, che saccheggia con libertà i testi di tutte le altre scuole di pensiero, sembra suggerire qui alle campane di star ferme in attesa del colpo, agli uomini di valore di starsene quieti in attesa di tempi migliori.

vizio privato. Zhou Wuwang, primo sovrano della dinastia Zhou

La conclusione del capitolo, tuttavia, mette le affermazioni dell’autore in una luce nuova, e il discorso sembra imboccare una strada diversa rispetto a quella tracciata dai suoi predecessori:

Un sovrano di valore o un eminente cavaliere che spera di salvare i popoli dai capelli neri (i.e. gli abitanti della Cina) deve approfittare dei disordini del tempo presente. Il Cielo non gli offrirà un’altra occasione, il tempo non gli sarà propizio ancora a lungo; le sue abilità non potranno adattarsi ad altri compiti: il suo compito consiste precisamente nel saper approfittare del momento opportuno[7].

Per l’autore del passo, il momento opportuno non è quello auspicato dai confuciani né quello snobbato dai moisti. È invece, paradossalmente, un momento di universale disordine, di guerra e di miseria, in cui un uomo debole e privo di forze non può far altro che smarrirsi, ma che fornisce all’uomo di valore un’opportunità irripetibile per trasformare il mondo. Il kairós del saggio non è quello in cui le circostanze lo prendono per mano, invitandolo a brillare; è invece quel momento difficile in cui, quando gli sprovveduti e gli indifesi corrono a rifugiarsi nella loro tana, egli si risolve finalmente ad abbandonarla. Che il saggio non perda tempo, quindi, ad aspettare che un nobile re giusto e virtuoso si faccia promotore delle sue idee: salga invece sul trono, e sia lui quel re.

Note

[1] Lunyu V, 20 – tr. it. in Confucio, Analecta, a cura di Luigi Maggio, Bompiani, Milano 2016, p. 329. Ji Wenzi era un potente ministro alla corte di Lu, il paese natale di Confucio.

[2] Lunyu I, 1 – ivi, p. 99.

[3] Vi sento, vigliacchi.

[4] Il Mozi batte sullo stesso chiodo per ben due volte, nel saggio Contro i Confuciani e nel capitolo dialogico Gongmengzi. Traduco in italiano da Mo Zi, The Book of Master Mo, tr. ing. di Ian Johnston, Penguin, London 2013, p. 192.

[5] L’elaborazione di questo punto è affidata, nel Mozi, ai tre saggi Contro il Fato.

[6] Lüshi Chunqiu XIV, 3. Traduco da The Annals of Lü Buwei, tr. ing. di John Knoblock e Jeffrey Riegel, Stanford University Press, Stanford 2000, pp. 311, 313.

[7] Ivi, p. 315.

di Federico Flamineo Franchin

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