Shtisel – Matrimoni d’inferno e cascer

shtisel family

Gli antichi estensori ebraici della Torah, la Bibbia, ben sapevano che con Dio non si scherza. Non solo il dio d’Abramo e di Mosé è una divinità gelosa, ma è anche abbastanza pignola. Non a caso la prima cosa che detta all’uomo è una legge, anzi La Legge. Pertanto se si crede in Dio è meglio far le cose per bene, anche quelle più banali, come preparare da mangiare. Se si è ebrei credenti si deve seguire la Bibbia non solo come guida spirituale, ma persino consultarla in cucina per un supplì.

Da qui la necessità per l’ebreo credente di verificare che la produzione e la preparazione del cibo segua le prescrizioni della Torah e del Talmuld. Un lavoro che ha portato alla creazione di veri e propri disciplinari e certificazioni di qualità che definiscono la kasherut (כַּשְׁרוּת) cioè l’adeguatezza, in senso biblico, del cibo ebraico.

È famosa l’affermazione, di stampo materialista, ispirata dalla lettura d’un poco noto saggio dell’olandese Jakob Moleschott (diventato poi italiano) fatta circa due secoli fa da Ludwig Feuerbach: «l’Uomo è quel che mangia». Ora, un ebreo osservante non mangia assiema al pane le regole? Il suo cibo non è altro che pane disciplinato, pane cascer?

Pertanto, seguendo il punto di vista di Feuerbach, tale disciplinatezza che dalla religione si riversa nel cibo, non finirà poi col traboccare anche in altri aspetti della vita, della cultura e della psiche ebraica per travasarsi in aspetti magari meno direttamente legati alla materialità? In parole semplici domandiamoci: nella vita d’un ebreo osservante, in un certo senso, non è che non solo il cibo debba essere cascer ma, in qualche modo, dovranno esserlo anche l’amore, gli affetti, i rituali sociali tutti, dal matrimonio al lutto, ecc. ecc.? Detto altrimenti: non è che il rapporto con il cibo, nella cultura ebraica, potrebbe essere di fatto la metafora del rapporto triangolare che gli ebrei osservanti intercorrono con Dio, la quotidianeità e le relazioni umane?

Per capire l’importanza del cibo cascer e come la kasherut finisca con l’influenzare altri aspetti della vita, non solo quelli edibili, non c’è che guardare Shtisel, una delle serie televisive israeliane recenti di maggior successo (anche fuori patria). Shtisel è una serie ambientata all’interno di una comunità di haredim (cioè di timorati di Dio) che abitano nel quartiere di Geula di Gerusalemme.

Nella serie, ad esempio, i due protagonisti principali, il rabbino Shulem Shtisel e l’aspirante pittore Akiva Shtisel, rispettivamente padre e figlio, ci vengono presentati fin da subito a tavola mentre mangiano. C’è poi, qui e là in tutta la serie, una sottile insistenza sul tema del cibo in generale e della kasherut in particolare. La prima scena della prima puntata della prima stagione, ad esempio, inizia con Akiva che racconta a Shulem un proprio sogno. Akiva ha sognato sua madre Dvora, moglie di Shulem, mentre mangiava il Kugel (piatto tipico dello Shabbat) nel ristorante completamente congelato. Dvora è infatti morta poco tempo prima e Akiva e Shulem sono ancora in lutto. Si tenga presente che il ristorante di questa prima scena è lo stesso ristorante che ritornerà, poi, costantemente lungo tutta la serie.

Shtisel Akira e Racheli

È noto che il cibo, simbolicamente, rimanda ad altro e, in particolare, è un luogo ormai comune che il cibo abbia a che fare la madre. Del resto è una madre colei che per prima ci ha nutrito ed accudito. Insomma il cibo è vita, amore (materno) ed è, quindi, anche a una kasherut degli affetti e dei sentimenti quella a cui si allude attraverso i riferimenti al cibo. Si potrebbe dire che se il cibo collega tutta una comunità, lo fa idealmente come una madre unisce a sé tutti i propri figli. Akiva e Shulem, ad esempio, sono certamente membri della stessa famiglia ( vivono ancora insieme) ma a unire i due personaggi nella serie c’è ben di più di una parentela. Quel che li lega, al di là delle relazioni familiari è, in realtà, un concetto: quello del matrimonio.

Matrimonio è qui da intendersi nel senso etimologico della parola, cioè di «dovere della madre». Anzi di dovere delle madri. Perché le madri in Shtisel sono molte. C’è Dvora, la madre morta e che quindi incarnerebbe un’assenza, un vuoto, ma che invece è ancora presente nei sogni di Akiva e nel cuore di Shulem; ma ci sono anche le vive madri future, anche loro presenti e assenti allo stesso tempo, assenti perché in tutta la serie Akiva cerca moglie per creare un nuovo nido (anche Shulem valuta se risposarsi) presenti perché le donne sono doppiamente coprotagoniste della serie.

Una volta in qualità di personaggi femminili, l’altra in qualità di modello ideale di donna (madre, moglie o figlia cioè, nella cultura ortodossa, futura madre). Non si tratta quindi solo di trovare una compagna, ma di trovare quella giusta: la donna cascer. Compito tutt’altro che semplice e che anzi appare come un infernale compito di Sisifo. A Shulem e Akiva, infatti, ogni volta che individuano la giusta candidata, qualcosa va storto. A ogni stagione si ritrovano dal sensale a cercar moglie.

Cibo e matrimonio. Sono proprio questi gli elementi di Shtisel, i due temi che attraversano come cursori paralleli tutta la serie. Però sono elementi perturbanti e problematici. In particolare il matrimonio. La madre, la moglie, sembra rimandare più a qualcosa di infernale, di frustrante, di attrattivo e respingente allo stesso tempo. La madre più che regina dei supplì è regina di un supplizio. Un esempio: il ristorante in cui appare Dvora nella prima scena sembra una specie di girone dantesco. Del resto anche il tributo di Akiva, un gesto d’amore alla memoria della madre, cioè la realizzazione di un quadro in cui la madre lo allatta, costituisce nella sensibilità iconoclasta del padre, Shulem, un grave peccato. L’immagine della madre non è cascer.

Il tema dell’inadeguatezza o dell’adeguatezza delle relazioni, cioè della kasherut dei sentimenti e degli affetti, non riguarda però solo Akiva e Shulem. Anche i membri femminili, cioè appunto le madri, vivono loro situazioni infernali nell’espletare il proprio «dovere di madre». Se c’è una kasherut del cibo c’è anche una kasherut dell’adeguatezza dell’essere madre. È un aspetto che riguarda tutte le donne della serie.

Paradigmatica la figura della matriarca, la madre di Shulem. È costretta dal figlio a mantenere all’ospizio un’immagine di sé degna del marito morto. Subisce pressioni perché rinunci a vedere la televisione (gli haredim hanno un rapporto con la modernità un po’ ambivalente) unico piacere scoperto in tarda età.

Altro esempio è Giti (la figlia maggiore di Shulem) che finirà col gestire lo stesso ristorante del sogno di Akiva dopo dover avere imparato a gestire un marito fedifrago e a nascondere la cosa a tutta la comunità (guai alla donna che non abbozzasse).

Oppure ancora Ruchami, la figlia di Giti che, innamorata di un giovane studente della Torah (sedotto lasciandogli del cibo sulla finestra) si sposa senza il consenso della famiglia. Insomma non è facile essere disciplinati a tavola dalla Torah, eppure i problemi del cibo cascer sono il meno rispetto a quelli delle relazioni famigliari e sentimentali.

Shulem e Kive Shtisel

Sempre un po’ sospesa tra l’umorismo e il dramma, tra la soap-opera e la sit-com, Shtisel è un tourbillon emotivo. Un gioco di specchi in cui si riflettono, tra mille situazioni, tra meschinità e desideri più o meno legittimi, tra pregiudizi (ad esempio degli haredim verso gli ebrei laici apostrofati come «sionisti») e slanci di generosità, tutti i problemi di una comunità molto tradizionalista e molto devota alla Legge di Mosé. Eppure è anche una sorta di Beautiful degli Ultra-ortodossi.

Guarda caso Beautiful è la serie preferita dalla matriarca degli Shtisel. Shtisel e Beautiful del resto sono entrambe serie televisive in cui al centro delle trame stanno i matrimoni; eppure sono serie che risultano agli antipodi e non soltanto per il linguaggio televisivo adottato. Non tanto per i comportamenti, più meno discutibili, dei membri della famiglia Shtisel rispetto a quelli altrettanto più o meno discutibili dei Forrester. Quanto per il fatto che con questa famiglia israeliana, dall’identità culturale e religiosa così forte e così distante dalla gran parte di noi, si finisce col sentire molte più affinità che con gli americanissimi Ridge, Brook and Company. Beautiful ci mostra una famiglia così disfunzionale da far apparire le nostre paradisiache. In Shtisel la disfunzionalità famigliare va in direzione contraria rispetto a Beautiful.

Pur appartenendo a una cultura distante dalla maggior parte degli spettatori, persino scollegata dal resto del mondo (basti pensare che non si vede un palestinese che sia uno in tutta la serie) la famiglia Shtisel ci mostra l’inferno familiare che accomuna ogni famiglia, ovunque in ogni parte del mondo. L’infernale ricerca quotidiana, d’un equilibrio, quasi impossibile, tra cosa ci si aspetta da ciascuno di noi e chi ciascuno di noi ha scelto d’essere. In una perenne lotta tra dovere e desiderio, in cui è costantemente messa alla prova la nostra kasherut degli affetti.

di Amedeo Liberti

Autore

  • È redattore de La Tigre di Carta. Dopo gli studi di Filosofia e in Analisi e Gestione dell'Ambiente e del Paesaggio, si dedica alla sua terza grande passione assieme a Pensiero Teoretico ed Ecologia, fare il videomaker. Un suo corto "La Banalità Del Mare" è stato accettato al XIII Siena Short Film Festival. Oggi lavora come proiezionista per la Fondazione Cineteca Italiana. In pratica è sempre al cinema.