Come back in anger

Una riflessione personale e un po’ polemica sull’attuale situazione teatrale in Italia

Uno dei maggiori problemi che il teatro italiano sta affrontando è quello di capire come far tornare il pubblico nelle platee. Per fare teatro, il pubblico è necessario tanto quanto l’attore, quindi come risolvere questo problema? Era così anche prima? O la mancanza di pubblico è un problema recente?

Mi sono trovata da qualche tempo a frequentare molte più persone che non vanno a teatro, eppure solo ora ho avuto la lucidità per chiedere loro il perché. Per me è inconcepibile non essere innamorati di quest’arte: l’ho scoperta quando avevo quattro anni e da allora è sempre stata presente nella mia vita.

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Antigone, dipinto di Frederic Leighton, 1882.

Ho scoperto che ci sono persone che non vanno perché il costo del biglietto è eccessivo. E fin qui nulla di nuovo. Purtroppo il nostro Paese spende poco più dello 0,02% del PIL nel Fondo Unico per lo Spettacolo, ovvero nelle sovvenzioni per attività teatrali, liriche, musicali, cinematografiche, circensi e così gli enti erogatori di questi servizi aumentano il prezzo degli spettacoli. Purtroppo a volte le poche sovvenzioni mettono in enorme difficoltà anche i lavoratori, che sono sottopagati o pagati in “visibilità”, non hanno un sindacato che possa garantire loro il rispetto dei contratti e non hanno giorni liberi assicurati. In generale si spera di guadagnare qualche contributo per la pensione, ma per i lavoratori dello spettacolo probabilmente non arriverà mai. O se arriverà sarà grazie all’altro lavoro che saranno costretti a fare per tutta la vita, visto che quello per cui hanno studiato e in cui si sono specializzati, investendo ingenti somme di tempo e di denaro, non li può mantenere. Sono andata un po’ fuori tema, ma questa parentesi era necessaria.

C’è chi non va a teatro perché non è abituato, non è stato educato ad andare oppure non ha amici interessati all’argomento che propongano una serata a vedere uno spettacolo. Ma la risposta che più mi è stata data è che in teatro tutto è troppo esagerato. Non è reale. E non si capisce niente.

Certo, alcuni di loro si riferivano principalmente ai musical. E come dare loro torto? Chi si metterebbe a ballare e danzare in mezzo a una strada indossando vestiti sgargianti? Ma la finzione è una delle prerogative della recitazione, è parte del patto che si crea tra pubblico e performer: il pubblico sa che tutto quello che accadrà sul palcoscenico è finto, ma sceglie di crederci, di applicare la willing suspention of disbelief. L’attore, invece, fa di tutto per avvicinarsi al pubblico, facilitargli il compito così che si possa godere lo spettacolo, ricavandone piacere e senso. È possibile che alcune persone non siano interessate a credere a qualcosa di fintamente reale, ma siamo sicuri che gli attori, i registi, i drammaturghi stiano facendo tutto il possibile per facilitare il pubblico?

Mi spiego prendendo come esempio il teatro greco, il teatro d’opera e Totò.

Nell’antica Grecia il teatro svolgeva un semplice compito: indicare alle persone possibili soluzioni ai loro problemi. Basti pensare ad Antigone, che indica all’uomo la giustizia da seguire (quella divina) o alla funzione tradizionale del coro, che rappresentava il punto di vista della popolazione, trascinando lo spettatore direttamente nella rappresentazione. Gli attori non erano specializzati, erano persone normali e i teatri erano costruiti così da avere un’ottima acustica, visto che non c’erano macchinosi esercizi di tecnica per imparare a portare la voce. Il teatro era funzionale per la società e infatti a ogni rappresentazione andavano migliaia e migliaia di persone.

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Antigone seppellisce Polinice, dipinto di Sébastien Norblin, 1825.

Un altro esempio di come il teatro nasca dalla società in cui si vive è l’esperienza dell’opera. La struttura dei teatri d’opera è una rappresentazione in piccolo della società. Le famiglie aristocratiche pagavano per finanziare la costruzione del proprio palchetto: ogni famiglia aveva il suo palchetto e aveva contribuito alla costruzione del teatro, dove ci si poteva incontrare con altre persone per discutere di affari, mangiare, bere, o volendo anche avere qualche momento di intimità grazie alle tendine di cui ogni palchetto era dotato. La platea invece era per il popolo. Un teatro d’opera era come una specie di condominio con i ricchi nei palazzi e i poveri in cortile.

Ma non è necessario andare così indietro nel tempo: prendiamo l’esempio di Totò. Si dice che per decidere se partecipare o meno a un film o a una produzione non leggeva le sceneggiature, ma faceva quattro semplici domande: “Il personaggio che devo interpretare ha fame? Ha sete? Ha paura di morire? È innamorato?” Se la risposta era sì, allora accettava. Perché sapeva bene che queste sono problematiche che abbiamo tutti e di cui è necessario parlare.

Già solo prendendo in considerazione queste tre esperienze viene da affermare che attualmente il teatro si sia allontanato dalla realtà, dalle necessità del pubblico, avvicinandosi invece ai personali bisogni egoistici dei teatranti. Registi, attori e drammaturghi sono diventati sempre più isterici nel tentativo di dimostrarsi l’un l’altro che sono i più interessanti, i più bravi e innovativi. Ma non è sempre stato così, quindi è necessario?

Persino le architetture teatrali sono sempre meno funzionali, con sedute scomode, cattiva visibilità, piccoli palcoscenici e acustiche tremende.

Passiamo anni a studiare come diventare attori, facendoci mille problemi riguardo alla nostra bravura, ma poi ci dimentichiamo il perché. Inoltre studiamo anni solo per reimparare a fare cose che naturalmente il nostro corpo, la nostra voce e la nostra psiche fanno, ma che abbiamo dimenticato a un certo punto durante la storia dell’uomo. Essere un attore vuol dire semplicemente essere più consapevoli degli strumenti che tutti naturalmente abbiamo. E non siamo neanche più intelligenti o sensibili di altri! Non siamo più intelligenti perché siamo tutti soggetti. Non esiste una realtà unica di cui noi conosciamo la verità assoluta. E non siamo più sensibili perché tutti proviamo le stesse emozioni. Semplicemente siamo abbastanza fortunati da essere stati educati a riconoscerle e nominarle.

Ora basta salire sul palco nel tentativo di risolvere nostre questioni personali e venire riconosciuti come buoni, belli o bravi. Saliamo sul palcoscenico chiedendo al pubblico di riconoscerci, di vederci davvero, quando dovremmo invece essere generosi e prodighi di energia ed emozioni.

Ma non sono solo gli attori che tengono lontano il pubblico. Le regie e le drammaturgie intellettualoidi fanno certamente la loro parte. Quanti Amleto in mutande dovremo vedere prima di renderci conto che forse non è così comprensibile? Il cosiddetto teatro d’avanguardia oramai è frequentato solo da altri addetti ai lavori. Sembrano convention mediche, in cui i dottori vanno a informarsi sulle nuove tecnologie scoperte per curare le diverse malattie. Solo che noi teatranti continuiamo a vedere e organizzare convention senza poi mai (o quasi) andare a visitare i pazienti.

Neanche io sono più intelligente. Anzi, sto dicendo anche molte banalità. E non sto insinuando che si debba semplificare il teatro per renderlo un puro intrattenimento. Né che si debbano eliminare le avanguardie, proponendo al pubblico solo battute sconce o pianti e risate facili: ma almeno rendiamo il tutto più comprensibile. Smettiamola di raccontarci che facciamo un teatro impegnato, per il pubblico, quando invece non abbiamo minimamente presente quale sia il nostro obiettivo, la nostra utilità.

Serve una dose di egocentrismo per salire su di un palcoscenico ed essere convinti che per gli altri valga la pena di ascoltarci per un’ora; ciò è fisiologico, fa parte del fare teatro; però per lo stesso motivo, cioè per ciò che significa fare teatro, non possiamo permetterci di salire sul palcoscenico da egoisti.

di Elena D’Agnolo

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