Le nozze del testo

La messinscena come mediazione tra testo e pubblico

Il testo teatrale chiama carne. Pare una frase fatta, ma in ogni testo teatrale ci sono vari elementi linguistici che suggeriscono l’incompiutezza del testo in sé e per sé, ovvero la necessità di una messa in scena affinché il testo comunichi effettivamente.

Prendiamo in considerazione il teatro di prosa: comico, drammatico o tragico che sia, è sempre basato su un testo, la sua modalità comunicativa è la recitazione, non il canto o il movimento. Il punto di partenza è quindi proprio il testo, il cui scopo è, naturalmente, la comunicazione: il testo drammaturgico si pone al servizio del pubblico, ne chiede la collaborazione, se non la complicità per la sua piena realizzazione. È una domanda di matrimonio.

Ma come ho già detto il testo non basta. Per mostrare gli elementi linguistici che definiscono un testo teatrale e che “chiamano la carne”, prendiamo in considerazione alcuni passi specifici dell’Elettra di Sofocle e dell’Arlecchino trasformato dall’amore di Marivaux.

Oreste (a Egisto) Seguimi presto in casa: si contende per la tua vita, e non sulle parole.
Egisto (a Oreste) Perché là dentro mi sospingi? E come, se quest’azione è bella, delle tenebre senti il bisogno, e la tua mano esita a uccider qui?
Oreste Non darmi ordini. Vieni. Che là, dove uccidesti tu mio padre, tu pure nello stesso punto muoia.
Egisto È una legge assoluta che la casa debba vedere fatalmente tutte le sofferte violenze dei Pelòpidi, e dell’ora presente e del domani?[1]

Il teatro è la successione di azioni non da una prospettiva narrante (fortemente legata al tempo passato) ma all’interno di uno spazio, la scena, al presente. «Lo specifico teatrale consiste nell’organizzarsi delle parole come dei movimenti dei personaggi in rapporto reciproco o rispetto a oggetti o a spazi della scena, secondo relazioni deittiche, ostensive, spaziali. Di qui la forza suggestionante, avvolgente dell’evento teatrale. Di qui la possibilità di identificazione del pubblico e l’effetto di catarsi: perché il teatro è mimesi del vissuto, non distacco del narrato»[2].

Elektra. Ph. Anna Laviosa, © 2018

Elektra. Ph. Anna Laviosa, © 2018

I deittici sono segni linguistici il cui «significato generale non può essere definito al di fuori di un riferimento al messaggio»[3], ovvero espressioni il cui referente non può essere determinato se non in rapporto agli interlocutori. Per fare alcuni esempi prendiamo il testo di Sofocle appena citato: “là dentro”, “tua”, “là”, “qui”, “quest’azione”, “ora presente”, “domani”, sono tutti deittici.

Affinché il deittico nel testo teatrale acquisti pienamente senso, c’è bisogno della rappresentazione, di un attore che impersoni Egisto e di uno che impersoni Oreste, di un palco con una scenografia, di costumi e di un pubblico che assista e partecipi alla rappresentazione.

È il caso di fare una distinzione tra deissi anaforica e deissi indicale: la prima è caratteristica di ogni contesto linguistico e rinvia a elementi anteriori all’enunciato stesso (così i pronomi lui, lei, lo, la…); la seconda invece rinvia a elementi dell’atto di parola (io, tu…) ed è tipica del teatro.

Solo in teatro infatti il punto di vista è in continua variazione, i personaggi sono tutti “io” e “tu” e di volta in volta queste parole assumono un diverso significato.

Prendiamo ora in considerazione l’Arlecchino trasformato dall’amore di Marivaux:

Silvia (triste) Sono sempre stata sfortunata.
Arlecchino (anche lui triste) Che cosa vi succede, tesoro mio?
Silvia Succede che la Fata è molto più bella di me e temo che il nostro volerci bene non durerà.
Arlecchino (impaziente) Piuttosto preferirei morire! (poi con tenerezza) Coraggio, non vi affliggete, cuoricino mio.
Silvia Allora mi amerete per sempre?
Arlecchino Finché io vivrò.
Silvia Sarebbe un così gran peccato ingannarmi; sono così ingenua, io![4]

Qui vediamo continuamente le parole “io”, “mio” cambiare di significato, indicando prima Silvia, poi Arlecchino e di nuovo Silvia e ancora Arlecchino. Il testo teatrale quindi è un incessante succedersi di più punti di vista, al contrario di quello narrativo dove il punto di vista considerato è spesso uno solo per lunghi tratti dello svolgersi del racconto. È interessante inoltre, quando il testo viene messo in scena, prendere in considerazione non solo l’io-personaggio, ma anche l’io-attore, che inevitabilmente verrà associato al personaggio: il senso di “io” non cambia solo in base al personaggio, ma anche in base all’attore che lo pronuncia. L’io-Arlecchino interpretato da A sarà un io-Arlecchino con un’identità diversa da quello interpretato da B. Inoltre l’indice “io” richiama un linguaggio fortemente deittico, non meramente informativo, ma peculiarmente performativo: i personaggi sono tutti “io” che emettono informazione, ma essa non è legata a questioni di verità, bensì all’azione. L’informazione dei personaggi sarà allora vera o falsa a seconda dell’azione che compiono i personaggi stessi.

Questo passo di Marivaux ci permette anche di indagare un altro fattore linguistico delle drammaturgie che chiamano la carne della messa in scena: la teoria degli atti linguistici. Questa teoria si basa sul fatto che le parole, le frasi, non servono solo ad affermare qualcosa, ma hanno come fine quello di compiere un’azione verso il mondo circostante.

Se si concorda con Austin, secondo cui gli atti linguistici si dividono in locutori (atti linguistici in senso tecnico specifico), illocutori (atti linguistici che effettuano una qualche trasformazione di rapporti fra gli interlocutori), e perlocutori (atti linguistici che portano a risultati effettuali misurabili sul piano dell’azione), allora gli atti di enunciazione in teatro non sono di tipo assertivo-constativo, ma di tipo performativo, poiché sono innervati nella dinamica dell’azione. Il discorso indica il gesto che simultaneamente si compie: saranno allora tipici del teatro atti linguistici illocutori o perlocutori. Gli esempi che possiamo trovare nel testo di Marivaux sono i verbi “temere” e “preferire”. Altri esempi possono essere “giurare”, “volere”, “pregare”, “annunciare”. Sono tutti verbi che costituiscono atti che modificano i rapporti interpersonali sulla scena.

Il testo teatrale da solo non basta per la comunicazione con il fruitore (il pubblico): serve la messa in scena.

Quindi all’interno del rapporto di complicità fra il testo e il pubblico la messa in scena è come un viandante che porta doni propiziatori per le nozze, cioè per la buona riuscita dell’atto comunicativo nel suo complesso (o, per rimanere dentro la metafora, per la buona riuscita dell’amplesso fra testo e pubblico). La scena nel suo insieme si ostende al pubblico e, nell’indicargli tutte le sue relazioni interne, allo stesso tempo chiama in causa, indica il pubblico stesso, in quanto lo coinvolge nella sua rappresentazione, nello stesso momento in cui il pubblico indica la scena a partire dal suo statuto di realtà. Quando il pubblico entra a teatro, sa che assisterà a una rappresentazione, a qualcosa di fittizio; ma il fatto che questa finzione sia portata avanti davanti a lui, da persone vere, conferisce alla messa in scena lo statuto di realtà. Per una, due, tre ore, il pubblico accetta come vero quello che gli succede davanti, si crea un patto silente tra attori e pubblico: quest’ultimo potrebbe (almeno in teoria) in ogni momento intervenire sulla scena, nulla lo impedisce, ma è proprio il fatto che nessuno interviene sulla scena (se non con applausi o fischi alla fine dello spettacolo) a rendere possibile il fittizio scenico.

Stiamo ancora una volta prendendo in considerazione il teatro di prosa. Andiamo quindi a vedere l’etimo della parola “prosa”: «Discorso che procede per tutta la riga»; “prosa” è il femminile di prosus, forma arcaica per prorsus, «che cammina diritto».

Il testo di prosa è un testo fatto per viaggiare, ed è un testo che viaggia.

Viaggia dall’autore alla produzione, dalla produzione agli attori e finalmente dagli attori al pubblico. Condizione necessaria affinché questa comunicazione sia efficace è la generosità degli attori. Non prendo ora in considerazione tutta la parte di produzione di uno spettacolo, ma solo la parte che il pubblico vede, ovvero la messa in scena, dove gli attori si mostrano al pubblico. Se in quel momento gli attori sono poco convincenti, ovviamente il pubblico non crederà loro; se ci sono forti tensioni e malesseri all’interno della compagnia, molto spesso il pubblico lo percepirà; se un attore vuole primeggiare sugli altri per gloria personale, il pubblico si dissocerà. La funzione dell’attore è di mostrare l’umanità alle persone, così che possano rivedersi in essa, anche nelle sue parti più oscure. Perché ciò sia possibile occorre essere generosi e donarsi (non intendo donare la parte di sé legata al proprio personale, al proprio vissuto, ma donare energie, forza e fatica). Proprio come un viandante porta in dono alle nozze un fagiano cacciato sulla strada.

Se ogni singola fase di produzione dello spettacolo viene realizzata con generosità, il risultato sarà un felice matrimonio a ogni replica.

Note

[1] Sofocle, Elettra, tr. it. di M. P. Pattoni, BUR, Milano 1997, vv. 1491-1498.

[2] A. Canziani, Come comunica il teatro: dal testo alla scena, Edizioni il Formichiere, Milano 1978, p. 20.

[3] R. Jakobson, Saggi di linguistica generale, a cura di L. Heilmann, Feltrinelli, Milano 1966, p. 151.

[4] Marivaux, Arlecchino trasformato dall’amore, tr. it. di A. Carnevale, La Tigre di Carta, Milano 2016, p. 32.

di Elena D’Agnolo

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