Dizionario Semiologico Abissale

FASCICOLO ULTIMO

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Data: Anno dell’Abissale
Matricola: Esagramma 29
Rotta: Pianeta Terra
Keyword: “My Name is Bee”

… «nel suo angolo Luana rideva sguaiata, mi faceva di quelle facce che non vi dico, vabè.

Come la butti sempre in abisso tu!»

Poi l’infermiera si è messa il dito davanti alla bocca.

E poi quisquigliava: lo sai che la luna del Bengala non è la luna dello Yemen? Che se entri nell’imbuto l’abisso cambia faccia? E due imbuti in amore fanno una clessidra?

E qui già gridava perché già scivolavo sui coralli alpini. Facciamola scorrere, ‘sta sabbia, alziamo il tasso decimale di realtà almeno a un quattro. La mia tigre di cartapesta ci sbatterà il muso di questo ardimento, che non è abbastanza edipica la faccenda per sembrarle utile. Cerco di serrare rocce come il volante, come i denti, ma diventano sempre più coralli e mi scappano, e poi l’aria chissà perché si fa dolce e non salina. Stavolta se il cantonese mi benda non la indovino… anche se, dovessi scommettere, direi vodka Beluga.

Scivolo, smuscio, declivo verso la luce arcangelica, verso nuovi lemmi comminati, senza poter evitare gli zigzag dell’accidentato percorso dell’anima. Pochi nitori di lucidità me li gioco a prepararmi il mercanteggio che mi aspetta, non più con dio. Con gli alieni.

Faccio slitta, le punte dei miei piedi sempre lì e io non alzo lo sguardo. Se non guardi nell’abisso, l’abisso non guarda in te! Se non guardi nell’abisso, l’abisso non guarda in te! I pensieri pensati in fondo ai laghi li si pensa come fossero i laghi a pensarli.

Prima la litosfera poi i russi, dei tartari qui è buona educazione non parlare, i russi considerano questo lago un demanio tanto mitopoietabile da sfigurare gli autoctoni in spiriti delle acque. E quando la pioggia di meteoriti ha cancellato i mammiferi che imbastardivano la Siberia, il fiume Tunguska ha iniziato a rigurgitare gli spettri degli alieni giù fino al lago.

Ecco perché non c’è posto sulla terra con più avvistamenti ufo del Bajkal. Sfido, qui gli oggetti poco identificati non si limitano a volare. Io stesso ne ho visti moltissimi. Giuro che la mia nave sfilava sbalordita sul mercurio, e di fianco a noi un enorme tagliacarte galleggiante affondava nel velluto.

Abbiamo avvistato un’asola di cuoio che addorsandosi invecchiava mentre il vento conciava le sue rughe. Il lago stava a sinistra, poi a destra e io non ci capivo niente ma camminavo. Avevano sepolto dei gatti sotto la sabbia, che per la paura un cadavere si è riesumato, le gambe colavano segatura dai jeans. Per la scena, una barca decomposta ha persino vomitato riversa sul fianco.

C’erano pagine di colline, valli rilegate fra ali implumi di segnalibri sotto la torcia meridiana di un lettore accanito. Quando si addottora indossa guanti grigi e può affondare le mani fra le cosce dell’acqua dolce per farla partorire, e d’improvviso piovono vagiti, le gocce bucano di verde il letto, forano le lenzuola del deserto e gli ufo si infrattano nelle tane.

Cambio strada. Seguo gli uccelli-dentifricio che volano solo quando un bambino maleducato gli strizza la pancia, e questi sputano fuori i ciottoli con le ali che rimbalzano sul pelo dei fiori, facendo scattare le trappole delle libellule che mi zampillano sui piedi. Pesto anche delle molle che rimbalzano e cicaleggiano scontente in cerca di fronde.

Assisto a un’ecatombe, fra ossa rotte, zanne di legno e corna sempreverdi, mentre un San Sebastiano sdraiato al suolo muore all’ombra delle foglie che impennano le frecce di conifere confitte nel suo corpo, mentre le radici hanno il tempo di raggiungere il suo cuore nella lenta agonia, degna di suo fratello Bhishma. Il suo mugugno si leva su prestito del sarma, del sospiro di Penzias e Wilson in fondo all’universo.

Chino il capo per rispetto, i miei occhi collezionano le conchiglie arbuste senza più pinoli esposte ormai solo dietro la tela delle iridi. Schivo rami afflosciati di fontane lignee ghiacciate, di banane troppo mature semisbucciate, e tornano gli ufo veri e propri, quelli che volano. Sono boomerang col becco, fra cespugli-colbacco, non si resiste e io scappo!

Divento Eracle tre o più volte, ma l’ultimo bivio cosparso di squame di pesce fatte di pietra mi smarrisce del tutto. Cerco in cielo la stella polare, ma lassù si legge fino a tardi e sul palmo della collina le mucche in formazione Cassiopea rilasciano feci che affrontano i secoli per trasformarsi in rospi imbalsamati.

Cerco il muschio sugli alberi ma gli ufo hanno disboscato per costruire isbe volanti. Al loro posto cereali e martelletti di felce che suonano un notturno sull’intera ottava, fra i tasti neri di cormorani-yin e quelli bianchi di gabbiani-yang. Mi arrendo. Mi fermo perplesso. Una dentiera di alberi sorride perché la mia mente a retino va ormai disperata in caccia di metafarfalle.

Finisce che a venir catturato è il mio cervello, con la testa immersa in un sacchetto di plastica. La dentiera mi ha offerto riparo dalla pioggia. I ragni d’acqua mi camminano sul capo convulsi, affamati come una tigre di cellophane, finché ghermito l’insetto dei pensieri questi si fermano poco alla volta, lentamente…

Ribalto postura all’amplesso, il rumore della pioggia si abbassa e riporta in alto tutti gli altri sensi. Ritorna l’odore di merda di resina sudata. Resina di sudore fossile. Poi il rumore di cicale riaccende l’innaffiatoio di strazi mentre chissà che insetti scuotono saliere sull’insalata. Esco cauto, scarto il sacchetto di plastica e lui è lì. Ha rubato il sorriso agli alberi. È il mio ospite.

La copertina ve lo giuro che l’ho già… com’è il congiuntivo futuro di “vedere”? Mi viene solo un ehgm!

È la tigre di carta, la davano estinta spacciata, espugnata dai tartari, bruciata nella prima pioggia di comete, con la testa imbalsamata nell’anticamera d’un decano Siae. E invece rutta ancora, grandina dal cielo, suoi alfieri le dita squamose. L’ho pescata! L’ho ripescata da lassù… acqua sopra, acqua sotto, nessuno ci va più per il sottile, messa in abisso, sottovuoto, sott’aceto, sottaciuta e poi ruggita. D’altronde, amarsi un po’ è come bere. Ma bisogna essere in due, alla quarta persona possibilmente. Urge un ripasso. Apro, scarto, sconfeziono… temo un tiro mancino da parte degli uomini-medusa, di quelli che ti fanno rifar tutto daccapo.

Abissale, voce del verbo amare, quarta persona duale, congiuntivo futuro. Etimo incerto spesso accostato alla frase “meglio fidarsi degli alieni che non fidarsi di sé”…

F.F.F.
I Ching 1 xingshu, calligrafia di Bruno Riva, Shodo.it

Autore

  • Federico Filippo si risveglia dal sonno dogmatico nella bella facoltà di Filosofia in Statale e si riaddormenta con gli studi a Venezia. Tornato a Milano, dopo il gong della laurea in Scienze Filosofiche, inizia collaborazioni con la cattedra di Estetica e nel frattempo, in fuga dall’accademismo, ha la fortuna di radunare un gruppo di ragazzi pieni di stoffa e fondare la rivista di arte e cultura La Tigre di Carta, cui segue l’Associazione culturale La Taiga che gestisce il teatro e circolo culturale Corte dei Miracoli. Fra editoria ed eventi, gioca col violoncello il bridge e lo yoga. Tutto ciò non fa bene alla salute... meglio scrivere!