La raccolta

Durante una presentazione più scompaginata del solito, fa cometa un falso allarme e un dubbio sul responso dell’I Ching, cui dovranno dare assedio le rubriche del n. 19 della Tigre. Infine, il verdetto, non contraddetto, ma detto in falsetto… il tema sarà: La raccolta! Improvvisa diastole d’anarchia s’erge fra il volgo! L’ordo scompare, interiezioni in volgare!… – “Cosa s’intende per raccolta, porca di una *@¥ɏʑѝӵש!?” – tuona l’intero entourage di quel cenacolo a stento capace di far la differenziata nel pattume. Nell’educata indecisione ravvisiamo un germe atavico, dal momento che l’istinto ordinatore della logica occidentale (per l’etimo del verbo lego cfr. la rubrica di filosofia) contiene anche inserti rubati alle culture asiatiche. Oltre cioè che una deontologia à la Encyclopédie, nella raccolta si annida uno sfizio alla Mille e una notte, riscoperta guarda caso in Francia proprio all’epoca dei Lumi. I trucchetti di Sherazade, matrioske e scatole cinesi spifferano tutti un sommo disagio: qual è il principio aggregatore della lista? Dal “terzo escluso” di Aristotele al paradosso di Russell non si parla d’altro. Ebbene, per divertirci anche noi col rovello di una seconda lista a eurismo della prima, ecco dall’Asia con furore la Top Five delle soluzioni plausibili:

Esagramma 45, La raccolta

1. Tecnica Brahma. Siete di fronte a un’accozzaglia di similitudini prive di un principio ordinatore? Escogitare un bel nome collettivo potrà, grazie all’anabattesimo, metterci una toppa. Così fecero in India con il termine Brahma, per rendere conto del principio cosmico e di tutta la sua centuria cultuale, ierofanica e scritturale. Al maschile (Brahmān) il termine indica colui che officia il sacrificio rituale, al neutro (Brāhman) indica le invocazioni sacre e il loro potere, dal neutro poi la forma Brāhmana che dà nome ai baroni della casta, ossia i bramini, infine nelle Upanishad il termine descrive il sommo principio universale e, da esso, la sua divinità custode, cioè Brahma. Comoda la vita! Nel prenderci gusto, anche il termine Veda passa da definire stricto sensu solo i quattro Saṃhitā (Ṛgveda, Sāmaveda, Yajurveda, Atharvaveda) a indicare in generale l’intero corpus “vedico” fino ai sūtra più tardivi. Il trucco snellisce talmente la nomenclatura che, sempre in India, per orientarsi nel cruciale episodio della nascita del buddhismo, la storiografia contemporanea – sull’orlo del burnout per l’obbligo di catalogare decine di scuole, sette ed eterodossie – ha coniato il termine Nikāya, che in sanscrito significa appunto “raggruppamento”, per tratteggiare le volute del paleobuddhismo pre-mahayana a partire da un comune denominatore dottrinale, come fece Hobbes con il Corpus Christi, ossia l’unanime riconoscimento da parte di queste correnti del Tripiṭaka, la grande raccolta del “Triplice canestro” contenente il Canone pāli, il Canone cinese e quello tibetano… un canestro da tre punti che manco Abdul-Jabbar!

Illustrazione di Shinsen Man’yōshū. Antologia di waka e kanshi attribuita a Sugawara no Michizane (893-913 d.C.)

2. Tecnica Vishnu. Quando ai primordi del cosmo la realtà era un informe casotto di enti frammisti in un oceano di latte, Vishnu suggerì di zagolarlo per cavarci fuori qualcosa, soprattutto per estrarre il nettare dell’immortalità. È questa la tecnica d’estrazione, che ordina con vettore centrifugo. Il metodo d’esclusione, sul quale si basa, può avvenire in due modi. O mediante fattori ponderati, si veda la raccolta dei Quattro grandi romanzi della letteratura cinese (Il romanzo dei regni, I briganti, Il viaggio in Occidente e il famoso Sogno della camera rossa), infagottati nel numero di 4 per estromissione di altri falliti antagonisti, tra cui l’underground Chin P’ing Mei, censurato poiché troppo vernacolare e licenzioso. Altrimenti, l’espunzione può essere altresì dettata dal caso, dall’accidente. I Cinque classici cinesi, ad esempio, sono tali in seguito alla perdita dello Yuèjīng, il Classico della musica, andato distrutto durante la dinastia Han.

3. Tecnica Osiride. All’indomani della distruzione, il metodo inverso sarà centripeto, per rimettere insieme i frammenti in diaspora di un unicum smarrito. Menzioniamo la minuta ricostruzione dell’Avestā, il testo sacro zoroastriano, le cui 21 Nasks furono distrutte da Alessandro Magno. Toccò agli Arsacidi e, dopo di loro, ai Sasanidi radunare i frammenti scritti e i ricordi orali nonché i documenti conservati dai greci da confrontare con i residui delle traduzioni in lingua pahlavi per riedificare la bibbia mazdea. Fa specie che proprio il movimento centripeto sia qui minacciato dalla presenza di un centro di gravità troppo forte, in questo caso il condottiero macedone, che dopo l’audience riscosso col fendente al nodo gordiano risolveva ormai tutti gli impicci col tatto di Hulk, ma la sua fragile annessione imperiale andò in frantumi dopo la sua morte, nell’epoca dei diadochi. Forse proprio in ciò sta il monito dell’I Ching all’atto di suggerire, come esito del tema della Raccolta, il simbolo dal titolo: La potenza del grande, ricavato però, notate, per assenza di linee mobili nell’esagramma di partenza (andate a studiarvi il metodo oracolare!) e il cui tema di sviluppo fuoriesce perciò dal rovesciamento dell’intero simbolo, secondo il principio: “troppo forte = troppo statico = troppo debole”, davvero degno del Libro dei Mutamenti. Si confronti allora, ex negativo, da una parte l’epilogo fallito di Giasone all’atto dell’adunata eroica degli argonauti, e dall’altra le scene sublimi dei Sette samurai, l’ultimo epico gathering al tramonto di un’èra, quella dei bushido, giunta ormai marxianamente nella sua fase tragicomica, che grazie al ruolo trixter di Toshiro Mifune ritraduce la debolezza del grande nella forza del debole.

Esagramma 34, La potenza del grande

4. Tecnica Rikyū. Arrivati ormai alle soglie della logica post-moderna, alla soluzione del paradosso ci si avvicina, come sempre, con la sua stessa intensificazione. Sen no Rikyū, maestro del Tè, chiede all’allievo di riordinare il giardino per l’arrivo degli ospiti. Il bravo scolaretto rassetta per bene e raccoglie tutte le foglie. Rikyū guarda il risultato e gli allunga uno di quei buffetti Zen che lasciano il livido, si avvicina poi a un ramo, vi scuote le foglie e le lascia cadere. Un’oncia di caos corrobora la perfezione. Esempi nipponici consimili si sprecano ma il migliore, in tema di collezioni, è l’antologia poetica del Man’yōshū, insieme di quasi cinquemila poesie waka ordinate in elegie (banka), in versi amorosi (sōmonka) e in una terza categoria indefinita che fa da pattumiera del sistema e reca nome: zōka, ossia “miscellanea”, zona grigia e imperfetta che sostiene furbamente l’olismo del tutto.

5. Tecnica Confucio. Siamo arrivati all’ultimo e più sottile dei sotterfugi agglutinanti, poiché fa implicita leva sulla minaccia del regressus ad infinitum. Quel vecchio volpone di Confucio, ben prima della nascita dello Zend, i commentari dell’Avestā che, scritti a margine di quest’ultima, ingenerarono confusione negli studiosi su quale fosse l’originale e quale l’esegesi e fecero nascere il termine Zend-Avesta con cui si designa erroneamente il testo sacro mazdeo, e persino avanti rispetto alla canonizzazione della Mishnah, il commento orale alla Torah scritta, a sua volta accostata alla Ghemara, i commentari rabbinici, e inclusa insieme a questi nel pachiderma del Talmud, su cui poi si innestarono le interpretazioni cabalistiche che affastellarono a bordo pagina strati su strati di appendici, ebbene già nonno Kong Fuzi volle instillare Kong-Fu-Sione dopo aver intuito che il modo migliore per catalogare qualcosa è aprire una finestra verso una collettanea potenzialmente infinita mediante l’uso del commentario, che a sua volta viene trasformato dal tempo in sostanza ermeneutica. Se infatti la semplificazione dei testi classici cinesi succitati nel novero di cinque si deve alla scuola confuciana, è stata pur sempre quest’ultima ad averne esteso a dismisura la portata con l’aggiunta dei Dialoghi, discussioni di Confucio con gli allievi, e per colpa di quest’ultimi, ancor più rei, esondata inesorabilmente con l’aggiunta del Mencio, dal nome del principale adepto del vecchio barbagianni, Il grande studio, a opera del fido Zengzi, e Il giusto mezzo, per mano di Zisi nipote di Confucio, entrambi estrapolati da alcuni capitoli del Libro dei riti. Questa tregenda di supplementi, pedici e note di note degna d’un David Foster Wallace sta per infettare persino voi, cari lettori! Ahahah! Eh già, dal momento che nel plotone dei Cinque classici cinesi compare lo stesso I Ching il quale, nelle edizioni moderne, discrimina con insufficienza il testo supposto “originario” dalle cosiddette Dieci ali, i commenti di Confucio al Libro dei Mutamenti, cui seguono crono-logicamente tutti quelli che hanno imperversato nella storia, passando per Ouyang Xiu, Sima Guang, Kang Youwei, Carl Gustav Jung, Richard Wilhelm, C.F. Baynes, Carol Anthony e… questa stessa introduzione!

di Federico Filippo Fagotto

Autore

  • Federico Filippo si risveglia dal sonno dogmatico nella bella facoltà di Filosofia in Statale e si riaddormenta con gli studi a Venezia. Tornato a Milano, dopo il gong della laurea in Scienze Filosofiche, inizia collaborazioni con la cattedra di Estetica e nel frattempo, in fuga dall’accademismo, ha la fortuna di radunare un gruppo di ragazzi pieni di stoffa e fondare la rivista di arte e cultura La Tigre di Carta, cui segue l’Associazione culturale La Taiga che gestisce il teatro e circolo culturale Corte dei Miracoli. Fra editoria ed eventi, gioca col violoncello il bridge e lo yoga. Tutto ciò non fa bene alla salute... meglio scrivere!