L’ombra degli eventi del Monolite Nero

Nessuno può saltare oltre la propria ombra.
(Martin Heidegger)

Peter Pan! Oh Peter, sapevo che saresti tornato. Ho conservato la tua ombra.
(Peter Pan, Walt Disney)

Nella cultura dell’Occidente e del Medio Oriente, forse per via di reminiscenze dei culti solari dell’antico Egitto e dello zoroastrismo, l’ombra e le tenebre hanno spesso costituito una potente allegoria del male. Lucifero, ad esempio, viene gettato per contrappasso nella Tenebra, regno dal quale oggi rischia d’esser spodestato da Kylo Ren.

Eppure, nelle prime pagine della Genesi ogni caratterizzazione negativa dell’oscurità è assente. Persino la coesistenza complementare di luce e tenebra manca (niente lato chiaro della Forza). L’ombra precede il fulgore ed è anche più vasta. Il personaggio principale (YHWH, aka Dio) crea infatti il cielo e la terra nell’ombra e solo poi, un po’ annoiato, mentre «il suo spirito aleggia sulle acque» comanda: «Sia fatta la luce!»[1].

Ciò che più aggrada il Creatore è la capacità della luce di separare le acque inferiori (il mare) da quelle superiori (il cosmo). Cosmo che da allora in poi diventa un oceano galattico puntellato d’isolette luminose (il firmamento)[2]. In questo modo, implicitamente, i mitografi della Bibbia non solo anticipano, con gran scorno di tutti gli amanti delle space opera, l’idea d’un universo solcabile da astronavi, ma anche assegnano alla luce un ruolo poco epico e molto pratico: misurare lo spazio e il tempo. Insomma la Genesi, almeno inizialmente, ci presenta una configurazione dei rapporti luce-ombra piuttosto vicina alla cultura dell’Estremo Oriente[3] (e quindi all’esagramma 36 dell’I Ching) ma anche all’attuale cultura scientifica (con buona pace di Richard Dawkins) dato che la luce appare, qui, come una specie di regolo universale.

La Storia ama procedere per corsi e ricorsi. Così non è strano che a voler riconciliare le masse con una più neutrale, se non positiva, concezione delle tenebre sia proprio un film di fantascienza che parla della genesi dell’Uomo: 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick. È sufficiente fare uno sforzo di memoria per convenirne. Ricordate come inizia il film? Se avete risposto: «Con l’allineamento d’un pianeta al sole con in sottofondo le note di Also sprach Zarathustra[4], sappiate che sbagliate. Il film in realtà inizia con quasi due minuti di buio in sala («Sia fatta l’ombra!») commentati da un brano in sottofondo di musica sperimentale: Atmosphere di György Sándor Ligeti[5].

È un particolare da tenere bene a mente, in quanto il brano suddetto è un soundmark, il segno di riconoscimento (acustico) d’un personaggio del film: il Monolite Nero. Kubrick insomma sceglie di presentarci il Monolite in maniera analoga a quella con la quale Fritz Lang, nel suo primo film sonoro, ci introduce a M. Il mostro di Düsserdolf. Il suono indica il personaggio ancor prima dell’immagine.

Di fatto, Kubrick per prima cosa pone il pubblico di fronte a uno schermo nero (il Monolite) mettendo gli spettatori negli stessi panni dei primati nel deserto all’inizio del film. Prima di fare i permalosi («Primate sarà lei!») chiediamoci: cos’è il Monolite Nero? Una sentinella aliena posta a guardia dell’Uomo, come afferma lo sceneggiatore? Una specie di Divinità cosmica, come ipotizza Moravia all’uscita del film[6] e come propone Il grande potere del Chninkel[7]? Kubrick stesso avalla l’ipotesi divina; ma non bisogna farsi ingannare. I registi hanno una sola divinità: il cinema.

Per capire il senso del Monolite Nero bisognerebbe aver avuto il privilegio di proiettare 2001: Odissea nello spazio in pellicola dalla cabina del proiezionista. Chiunque faccia tale esperienza si rende subito conto che il Monolite Nero è la stessa pellicola. Una pellicola nera, non impressionata e non sviluppata. Kubrick lo sottintende fin dall’inizio, inquadrando per la prima volta il Monolite Nero con alle sue spalle il sole (la lampada di proiezione?)[8].

Il Monolite insomma non è solo il misterioso testimone dei passaggi evolutivi della specie Homo (primo utensile e primo omicidio, prima scoperta di altre forme di vita, ecc.), ma la pietra miliare che segnala i dilemmi del processo creativo del regista. Kubrick, come ogni artista, guarda all’orizzonte degli eventi, in direzione della storia che vuol narrare e delle sue potenziali articolazioni, ma senza sapere bene cosa troverà, perché ogni evento creativo, ogni snodo, si occulta nell’ombra al di là dell’orizzonte stesso. Un’ombra che fugge via come quella di Peter Pan, ma di cui non si può far a meno nel processo inventivo e oltre la quale non si può saltare. Perché se lo scrittore ha una pagina bianca il regista ha una pellicola nera e non sempre sa prima dove lo porterà la storia, o come giungere alla sua fine.

In altri termini: il Monolite Nero allude al problema stesso dell’atto creativo, sia della specie Homo sia, come elemento meta-cinematografico, del singolo ominide Kubrick. Una volta colto questo tema molte scene apparentemente criptiche si chiariscono. In primo luogo la ribellione di HAL 9000, misteriosa quanto la scelta di raccontarla. Dopo Frankenstein, dopo R.U.R., non è un cliché quello della ribellione delle macchine? Ma del resto la stanza rococò bianca non è un museo di cliché? Non è affastellata da oggetti convenzionalmente considerati belli?

In un bel saggio d’antropologia Leroi-Gourhan spiega che la diversità dell’Uomo, rispetto a altri animali, sta nell’attitudine a esteriorizzare[9]. Se nelle altre specie son gli individui che s’adattano interiormente all’ambiente per sopravvivere (la tigre sviluppa artigli e fauci per predare) l’Uomo invece inventa un artiglio esteriore: il coltello. L’uomo dà forma a oggetti a lui esterni perché assolvano a problemi interiori (fame, paura). Ma quest’attitudine non è anche un limite? Da un certo punto di vista sicuramente, perché porta a confondere la creatività con l’invenzione di un oggetto esterno come soluzione a un problema posto. La creatività, però, in sé non è mai né esterna né interna. Consiste nella capacità di metaforizzare, di trasportare una cosa da un senso a un altro (il femore di un morto che si fa arma contundente).

HAL è in primo luogo cinepresa[10], occhio e memoria esteriorizzata, ma se deve ribellarsi è perché poi sia ucciso. Assistiamo all’omicidio dell’ultimo strumento (che è anche dispositivo registico) a chiudere un cerchio, dato che il primo utensile che ci ha reso umani era servito a ammazzare. HAL deve morire perché l’Uomo (Kubrick) evolva e capisca che la creatività non risiede in mezzi esteriori, siano essi mezzi tecnici, siano essi mezzi culturali.

Perché la creatività sta nel buio e Kubrick ci dice che l’atto inventivo dipende dal saper abbandonare sia le sirene dalla tecnologia sia il bagaglio culturale (la stanza bianca dei cliché), entrambe pure esteriorizzazioni, per inseguire un Monolite-Ombra e generare, dentro e fuori di sé[11], un bimbo che sia un astro, con gli occhi spalancati sulle tenebre.

Note

[1] Genesi, 1, 1-15.

[2] Ibid.

[3] Si pensi al Tao, allo Ying e allo Yang.

[4] Il film di Kubrick può esser interpretato anche come una specie d’omaggio allo Zarathustra di Nietzsche e non farebbe che narrare l’evoluzione dal primate divenuto intelligente fino all’avvento del Superuomo (il feto cosmico). Anche il finale, circolare, fa pensare all’Eterno Ritono. Cfr.: AA.VV., La carica dei 101 capolavori… di Long Take, Long Take, Milano 2018.

[5] Se a qualcuno la cosa sembra nuova, può darsi che non abbia visto il director’s cut o che l’abbia visto in TV.

[6] Cfr. Nicola Mirenzi, “2001: Odissea nello spazio è Dio, il mondo e Nietzsche. Ma anche niente di tutto questo“, Huffington Post, 31 marzo 2018.

[7] Fumetto vagamente ispirato al film di Kubrick.

[8] Il che spiegherebbe anche come mai il Monolite non getti (quasi) mai la propria ombra: la pellicola stessa “getta” l’ombra sullo schermo.

[9] Cfr. A. Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola, Einaudi, Torino 1977.

[10] Cfr. E. Ghezzi, Stanley Kubrick, Il Castoro, Milano 1995.

[11] David si vede morire.

di Amedeo Liberti

Autore

  • È redattore de La Tigre di Carta. Dopo gli studi di Filosofia e in Analisi e Gestione dell'Ambiente e del Paesaggio, si dedica alla sua terza grande passione assieme a Pensiero Teoretico ed Ecologia, fare il videomaker. Un suo corto "La Banalità Del Mare" è stato accettato al XIII Siena Short Film Festival. Oggi lavora come proiezionista per la Fondazione Cineteca Italiana. In pratica è sempre al cinema.