Nottambuli al diner

Vite sospese nell’America di Hopper

L’esercito aveva deciso di far sprofondare la città nell’oscurità. Dopo l’attacco di Pearl Harbor dilagava il terrore di essere colpiti ancora; le petroliere e le navi mercantili ormeggiate nel porto di Brooklyn non sembravano al sicuro, con le loro silhouette ben profilate dai bagliori della città ed evidenti anche dal largo. Meglio nasconderle nel buio: nella primavera del 1942 fu ordinato un blackout, i palazzi con uffici e appartamenti di tutta New York dovettero oscurare le finestre, le brillanti insegne pubblicitarie al neon di Times Square si spensero, fu ridotto al minimo il wattaggio dei semafori e imposto di coprire i fari delle automobili. Persino la torcia della Statua della Libertà non brillava più.

Mandare a letto la città che non dorme mai però dovette essere difficile. Nella pasticceria Ebinger’s si continuava a lavorare nottetempo per sfornare entro il mattino una nuova torta: la Brooklyn Blackout Cake, un trionfo nerissimo di caffè e cioccolato. E anche la lampada dello studio del pittore Edward Hopper rimaneva ostinatamente accesa. Ossessivo indagatore della luce e degli effetti d’ombra, «Ed – scrive la moglie Josephine nel suo diario – rifiuta di interessarsi all’alta possibilità di essere bombardati».

La poetica di Hopper, tutta giocata sul contrasto tra il rigore della luce geometrica che investe gli oggetti e il mistero delle lunghe ombre che proiettano, è costantemente in bilico tra realismo e irrealtà. Nella sua pittura prende forma un’America anonima, piccolo borghese, fatta di spoglie camere d’albergo e binari della ferrovia, di persone e di cose isolate, silenziose, come in sospeso. Accomunati dalla stessa limitata sensibilità gastronomica, Ed e la moglie Jo frequentavano questo panorama demitizzato cenando nei diner, automat e Chop Suey, ovvero le tavole calde spesso aperte 24 ore su 24, i self-service con piatti già pronti nei distributori automatici e gli economici ristoranti degli immigrati cinesi che spesso fanno da ambientazione (e da titolo) ai quadri di Hopper.

Una sera del 1942, passando davanti a un locale a Greenwich Village, il quartiere di Manhattan dove abitava, aveva appuntato sul suo taccuino un’idea che quella vista gli aveva suggerito:

Notte + interno brillante di un ristorante economico. Oggetti luminosi: bancone in legno di ciliegio + una serie di sgabelli attorno; la luce riflessa sui serbatoi metallici sulla destra in secondo piano; una serie di piastrelle luminose di giada messe di tre quarti, sotto la vetrina che gira all’angolo. Le pareti chiare di colore giallo ocra fino alla porta della cucina sulla destra.

Un bel ragazzo biondo vestito di bianco (giacca e cappello) dietro al bancone. Una ragazza con la camicetta rossa, con i capelli castani e sta mangiando un panino.

Uomo con naso a becco con vestito scuro, cappello grigio scuro con banda nera, una camicia blu semplice e tra le mani regge una sigaretta. C’è un’altra figura scura di spalle a sinistra.

Il marciapiede all’esterno è di un verde chiaro quasi pallido. Sul lato opposto ci sono delle case fatte con mattoni rosso scuro. L’insegna del ristorante è scura e c’è scritto “Phillie’s 5c Cigars”, con il disegno di un sigaro.

Fuori dal negozio è buio e verde.

Nota: l’interno del soffitto è luminoso e contrasta con il buio della strada esterna e sull’angolo della vetrina c’è una piccola finestra.

Aveva appena stilato il progetto iniziale per il suo dipinto più celebre: Nighthawks, ovvero I nottambuli. Alcuni dettagli sarebbero cambiati nella realizzazione finale: innanzitutto, la piccola finestra scompare. Non ci sono aperture sulla strada visibili nella vetrina del locale, che sembra imprigionare i suoi avventori come dei muti pesci in un acquario. Attraverso quella vetrina siamo invitati ad accedere alla loro sfera privata, coinvolti nel solito gioco voyeuristico hopperiano, ma contemporaneamente ne siamo esclusi per l’atteggiamento di distacco e alienazione dei personaggi.

Attorno a loro la città è spenta. Il diner illuminato sembra essere l’ultima luce accesa mentre New York osserva un blackout anti-bombardamento. Immersi nella luce verdastra dei neon che Hopper ha studiato attentamente, ricreando un’atmosfera ipnotica che ricorda quella dell’Assenzio di Degas, i quattro personaggi dalla fisionomia affilata sono appollaiati sul bancone come dei rapaci (nighthawks significa, letteralmente, “falchi della notte”). Contemplano il vuoto, persi in pensieri solitari di cui la smisurata metropoli non si cura. I due uomini, con il cappello fedora in testa, ricordano Max e Al, i gangster del racconto Gli uccisori di Hemingway, che Hopper aveva letto e amato molto. E non è improbabile che quel racconto abbia avuto un’influenza su Hopper: nel suo quadro si ritrova la stessa essenzialità della composizione, la pulizia dello stile, la stessa attesa di qualcosa di ignoto incombente, la sensazione di una quieta infelicità.

Lonelier. Illustrazione di Fabio Santaniello Bruun ispirata al dipinto Nighthawks di Edward Hopper 1942

Lonelier, di Fabio Santaniello Bruun. Illustrazione ispirata al dipinto Nighthawks di Edward Hopper, 1942. fsb.design

O forse la loro storia è un’altra: il periodo del proibizionismo e dei traffici di alcolici dei leggendari criminali è finito, è finita la spericolata e ruggente età del jazz, e all’indomani dell’entrata in guerra rimangono – reduci della Grande depressione – soltanto degli uomini soli, dalle speranze disilluse, incapaci di comunicare. L’uomo e la donna seduti accanto non si dicono nulla, le loro mani vicinissime non si toccano, paiono una coppia diventata estranea sotto il carico del non detto.

Il secondo dettaglio che Hopper deve aver ripensato rispetto all’idea originale è quello della ragazza con la camicetta rossa che mangia un panino. A ben vedere, quello che sta tenendo in mano potrebbe non essere un poco invitante sandwich verdastro (davanti a lei, in effetti, non c’è alcun piattino), ma un pacchetto di sigarette o, più in tema con la trama hard boiled che avevamo abbozzato, un mazzetto ripiegato di contante. Curiosamente, infatti, nei dipinti di Hopper il cibo non si vede mai. I suoi personaggi seduti a tavola non mangiano mai niente, al massimo sorseggiano tazze di caffè; sono sempre come in una distratta attesa che arrivi un piatto. La loro sembra essere sempre una vita in sospeso. Hopper non cede mai al gusto di ritrarre una natura morta: le sue nature morte sono le persone stesse.

Il senso di vuoto che emanano i suoi quadri silenziosi, dunque, non è solo uditivo, ma anche olfattivo e gustativo. Hopper allude solo, senza mostrarlo, al cibo poco costoso che si era diffuso negli Stati Uniti dopo la crisi del ‘29 e poi durante la Seconda guerra mondiale. Nei diner si trovava il classico cibo “da colazione”: uova fritte e omelette con bacon, waffle, pancake, French toast, milkshake. Immancabili poi gli hot dog, o coney dog nella versione di Coney Island, una ricetta con influenze della cucina greca e macedone degli immigrati; e ancora hamburger, le tipiche patate a julienne fritte dette “hash brown”, pollo fritto e salsicce. Ad accompagnare tanto fritto l’onnipresente caffè lungo.

Già a partire dagli anni Quaranta le abitudini alimentari statunitensi cominciavano a cambiare, privilegiando il consumo di questo tipo di cibi rapidi ed economici che esploderà nei decenni successivi con il fiorire dei fast food. Nel 1972 chiuderà per fallimento la Ebinger’s Bakery, le cui torte di qualità saranno spinte dai prodotti industriali fra i beni di lusso poco accessibili ai più. Anche i diner nei vecchi prefabbricati tenderanno a quasi sparire con l’avanzata delle catene di fast food e, più recentemente, dei vari locali bio, gourmet e instagrammabili.

A New York sopravvive ancora qualche diner: fra quelle pareti il tempo è come immobile, sospeso, e la notte sembra durare per sempre.

di Ilaria Iannuzzi

Autore

  • Comincia gli studi a Pisa per poi approdare a Milano, dove si laurea in filosofia. Grande appassionata di arte, si ostina ad andare in giro senza gli occhiali per vedere il mondo come se fosse un quadro impressionista.