La polifonia delle emozioni

Il realismo di Leós Janáček e l’assurdità del normale

Leóš Janáček nasce in Moravia nel 1854. In questa data si racchiude il paradosso di una vita tragicamente complessa e di una musica tristemente riconosciuta in tutta la sua ricchezza solo, successivamente, nel 1916. Per quanto costernante, non è però difficile cogliere il perché di questa incomprensione: musicista innovatore e dalla personalità e concezione artistica estremamente indipendente, Janáček è pur sempre di quattro anni più vecchio di Puccini, di sei anni rispetto a Mahler e addirittura di dieci anni più anziano di R. Strauss. Ma la sua musica è di molti anni più avanti.

Lui è un postromantico per nulla decadente, è un modernista senza manifesto, nato nell’esatta metà fra l’apogeo del romanticismo e il suo totale rigetto. Autonomamente, concepì e anticipò il bisogno di un cambiamento e rinnovamento del linguaggio musicale, sempre ancorato, in fondo, al sistema della tonalità, ma con principi di relazione interna quasi esclusivamente non diatonici. La sua abilità di creare atmosfere, cambiandole in un istante, modificandole impercettibilmente o addirittura sovrapponendole, con pochissime note, silenzi, ritmi e, appunto, connessioni armoniche non convenzionali è in netto contrasto con l’esasperazione del sentimento e del tempo che soprattutto Mahler e Strauss ricercavano. Nel suo universo sonoro, al contrario, nulla viene drammatizzato oltre il dovuto, tutto è invece volto alla ricerca di un realismo crudo che vuole porre l’emozione pura come unico oggetto della musica – e ci riesce. In questo senso, Janáček è più romantico di tutti i romantici: ogni aspetto della sua musica è pesato e concepito per essere carico e denso di espressività.

Ritratto del compositore Leoš Janáček

Ritratto del compositore Leoš Janáček

Janáček era ossessivo nella ricerca di un colore e di un tessuto sonoro denso e complesso che fossero generati da strutture armoniche e ritmiche il più semplici possibile; semplici non in quanto banali, ma in quanto, al contrario, elementari. La sua teoria armonica e ritmica infatti si basa sull’idea – fondamentalmente herbartiana – del rapporto fra il tutto e le sue parti semplici indivisibili. Che Janáček fosse effettivamente attratto da questa tematica è testimoniato dai tanti appunti presi a margine di libri e  trattati divorati dalla sua insaziabile curiosità intellettuale, che lo portò a confrontarsi appunto con le teorie dei due discepoli di J.F. Herbart: J. Durdík e R. Zimmerman, e, successivamente, con la fisica acustica di H.L.F. von Helmholtz e la psicologia sperimentale di W. Wundt. Le implicazioni estetiche di questo riduzionismo o atomismo sfociano in quello che si può definire un proto-formalismo, per cui il principio del piacere estetico è concepibile in quanto originato da un sistema inconscio di relazioni semplici che si integrano e intrecciano, connettendosi alle loro unità più grandi: ogni singola relazione semplice è, cioè, necessaria affinché ci sia un’unità percepibile coerente.

Affascinato da ciò, Janáček cercò di tradurre questo pensiero in una prassi musicale basata, come già accennato, su un’economia – una riduzione, appunto – dei mezzi compositivi, che potesse però restituire una potente complessità di suoni, tessuti, colori e, soprattutto, generare una forte carica emotiva. A consolidare questa concezione di una scarnificazione strutturale della musica si aggiunse l’influenza dei sovversivi principi armonici di F. Skuherský, suo insegnante dal 1874 alla scuola di Organo a Praga e originalissimo teorico, il quale riteneva possibile modulare immediatamente da una chiave all’altra in virtù di specifiche regole di connessione accordale basate sia su una loro classificazione in termini di dissonanza, sia su un sistema di riferimento interno non diatonico.

Intrigato dagli studi condotti da Helmholtz nel campo dell’elettrofisiologia, che dimostrarono il fatto che il rateo di conduzione dei segnali nervosi fosse più lento di quanto precedentemente pensato, creando quindi una serie di sovrapposizioni di diversi input sensoriali, Janáček iniziò a concepire la ricezione del suono in un modo attivo, ritenendo la nostra mente capace di trattenere i suoni appena ascoltati, mentre ne ascolta di nuovi. Per Janáček, questa idea stimolò la maturazione del concetto di dissonanza nella modulazione, che divenne poi fondamentale per lo sviluppo delle connessioni accordali, concepite non secondo le regole dell’armonia tradizionale – ruotando quindi attorno all’attrazione tonale – ma proprio secondo i singoli livelli di dissonanza fra i singoli intervalli contenuti nei due accordi. Esse sono costituite in due fasi: cioè dalla presenza di un momento di disordine aurale in cui il residuo acustico del primo accordo si scontra, sovrapponendosi, con il suono iniziale del secondo, creando quindi una dissonanza melodica; e da una risoluzione che avviene quando il suono ritenuto si fonde in quello ascoltato, cristallizzandosi nella nostra coscienza. Gli accordi, le loro relazioni e le loro connessioni, associate da Janáček a specifici affetti emotivi, sono quindi comprensibili in virtù delle loro singole componenti ovvero come già detto, delle loro singole note e del loro livello di dissonanza l’una rispetto all’altra.

Secondo M. Beckermann, «this notion has at its core the belief that even the simplest, most insignificant chord connection contains an emotional power of an unrealized explosive capacity. With its system of simple relations still intact, Janáček’s theoretical world retains its atomistic, Herbartian framework; it is not only the whole connection which finally creates the ‘sheen of beauty’, each little part has become animated with an emotional quality». Questo atomismo emotivo e musicale è, ovviamente, anche al centro della sua concezione del ritmo e della melodia, che Janáček manipola similmente, riducendoli fino alle loro parti più piccole, per poi ricomporli di modo da esprimere simultaneamente disparati affetti e fenomeni psicologici, tramite la sovrapposizione e combinazione di poche e semplici cellule motiviche, sapientemente usate al massimo del loro potenziale. È in questo senso quindi che si può comprendere, come si esprime M. Kundera, il concetto di «polifonia delle emozioni» nella musica di Janáček. In fondo, è proprio l’infinito paesaggio emotivo che Janáček è riuscito a dipingere a generare in parte il forte realismo espresso dalla sua musica, contemporaneamente così familiare e comprensibile e così contradditorio ed estraneo.

In una lettera a F. Busoni, A. Schönberg riassume inconsapevolmente il cuore dell’estetica di Janáček, scrivendo che «l’armonia è espressione e null’altro. La mia musica deve essere corta. Concisa! In due note: non costruita, ma espressa. E il risultato che spero di ottenere è che non ci sia nessuna emozione stilizzata e sterile che venga protratta. Le persone non sono così: è impossibile avere solo una sensazione alla volta. Ce ne abbiamo mille in una sola volta. E queste migliaia si sommano assieme tanto quanto è possibile sommare assieme le mele e le pere. Esse sono cose distinte. Questa varietà, questa multiformità, questa illogicità che dimostrano i nostri sensi, presentata dalle loro interazioni, generata da qualche reazione nervosa o da qualche flusso sanguigno, è quello che vorrei riuscire ad avere nella mia musica. Essa deve essere l’espressione dell’emozione, per come l’emozione è realmente».

Partitura autografa della Fanfara dalla Sinfonietta di Janáček

Partitura autografa della Fanfara dalla Sinfonietta di Janáček

Espressione e null’altro. La musica non è altro che cruda espressione di emozioni, concrete e reali, ma quasi nessuno riconobbe il genio e la modernità degli intenti e dei mezzi di Janáček, primo e unico vero espressionista, come si esprime sempre M. Kundera. Solo nel 1916, quando all’Opera di Praga fu rappresentata la sua opera di brutale realismo Jenůfa – composta addirittura quattordici anni prima e ben vent’anni prima di Wozzeck di A. Berg, l’opera simbolo del Novecento – Janáček venne riconosciuto in tutta la sua grandezza. Il suo paradosso, tuttavia, continua: oltre ad anticipare l’opera modernista, fu il primo a raggiungere tanti altri traguardi, senza che nessuno se ne rendesse conto. Utilizzò un sistema armonico non diatonico basato sui dodici toni proprio prima di Schönberg; iniziò a collezionare dagli anni Ottanta, grazie all’influenza dell’etnografo F. Bartoš, canzoni popolari, incorporado la tradizione folkloristica nella sua musica prima di B. Bartók e annotando suoni della natura e, soprattutto, intonazioni vocali prima di O. Messiaen.

L’assurdo destino di Janáček è quindi servito: combatte la deriva del romanticismo con espedienti compositivi ancora troppo forti e crudi per essere compresi e assimilati e che gli negano quindi quasi ogni tipo di riconoscimento. Nel contrastare le tendenze dei suoi contemporanei con metodi che verranno adottati dai suoi successori, Janáček diventa però più romantico di tutti i romantici e più espressionista di tutti gli espressionisti. La sua frustrazione, le sue difficoltà, le sue tragedie personali si riflettono quindi nella sua musica, che nel corso della sua vita si evolve a velocità e in direzioni straordinarie. Una costante, tuttavia, rimane: la sua attenzione e il suo bisogno di far trasparire e comprendere a tutti i costi la differenza fondamentale che sussiste in musica: quella fra il sentimento e il sentimentale. Oscar Wilde, dalla cella della sua prigione, scriveva che «a sentimentalist is simply one who wants to have the luxury of an emotion without paying for it. We think we can have our emotions for nothing. We cannot». Ecco, la musica di Janáček è una musica che grazie alla sua presa diretta, grazie al suo minimalismo concettuale e alla sua potenza espressiva, diventa una musica piena di sentimento, che riesce a comunicare e a esprimere una varietà infinitamente particolareggiata di emozioni. È una musica che coinvolge profondamente, che ha «pagato» e che, d’altro canto, ci fa «pagare» per quello che ascoltiamo. Il «lusso di un’emozione» bisogna, insomma, poterselo permettere.

di Michael Jennings

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