Ex abundantia cordis

Le onde anomale del Barocco e del cinema di Peter Greenaway

La parola “abbondanza”, sinonimo di Copia (esagramma n. 55 dell’I Ching) contiene in sé la figura dell’onda. In latino ad esempio il verbo abundare rimanda all’immagine dello straripamento, al travasarsi in ogni luogo dell’acqua. L’abbondare è insomma un inondare. Il fatto è che fin dall’antichità, dalle feconde e limacciose piene del Nilo, alla figura dell’onda e di tutto ciò che è liquido e straripante si collega l’idea di ricchezza. La ricchezza dell’onda è anche data da un certo ritmo, quel ritmo che la fa tornare sempre diversa e sempre uguale; anche le piene del Nilo tornavano a intervalli regolari. L’inondare, per essere veramente ricco, non può essere quindi una tantum, ma deve essere ridondante e ripetersi. In questo senso “abbondare” e “copiare” si ritrovano sinonimi.

Che dove ci sia acqua ci sia anche prosperità e vita è un riflesso dell’istinto prima ancora che un insegnamento di Talete, ma lo stesso riflesso ci induce anche ad associare all’acqua il terrore della morte perché, si sa, nel Nilo i coccodrilli prosperano. Del resto già dal racconto biblico di Noè, come da quello di Atlantide che fa Platone nel Timeo, è chiaro che all’acume degli antichi non doveva essere sfuggita l’ambivalenza del potere dell’onda, al contempo nutrice e distruttrice. Anche senza tirare in ballo ecatombi leggendarie, difficilmente sarà sfuggita ai nostri avi l’osservazione che la stessa acqua che sostenta è anche quella che catalizza il marciume organico e la putrefazione. Così non credo sia un caso se a separare il mondo dei vivi dall’Ade ci sia il fiume Acheronte. Le acque che rompiamo, quando veniamo alla vita, per circolarità dobbiamo poi superarle per inoltrarci nel post-vita. Tale contraddizione insita nell’elemento liquido s’è trasmessa necessariamente anche all’abbondanza che può essere, al contempo, culmine della ricchezza vitale o eccesso che principia la decadenza (come del resto alcune sentenze e interpretazioni dell’esagramma 55 giustamente fanno notare).

A registrare tale complementarietà dell’abbondanza, naturalmente, c’è anche l’arte. Qui ci interessa uno stile in particolare che, usualmente, viene associato alla prosperità ed è caratterizzato proprio da una plasticità fatta di pieghe ampie, aperte e imprevedibili come un’onda anomala: il Barocco. Che il Barocco sia uno stile improntato all’abbondanza lo si può evincere anche dal semplice profluvio di decorazioni dorate che caratterizza l’interno di certe chiese. Con il Barocco è come se la cattolicità della controriforma avesse voluto sbattere in faccia ai pauperisti luterani e al loro minimalismo quella ricchezza esuberante che era stata demagogicamente usata come un j’accuse contro la Chiesa di Roma. Già questo renderebbe il Barocco uno stile eccessivo e paradossale. Una religione fondata sugli umili che rivendica sfarzo e ricchezza come elementi della propria ideologia.

In realtà il Barocco risponde a una esigenza teologica che unisce e divide i due rami principali della cristianità: il riconoscimento che la salvezza dell’anima non può essere per tutti. Su questo cattolici e protestanti sono d’accordo[1], ma mentre per i luterani le opere umane son prive di utilità rispetto al raggiungimento di tale salvezza (predestinazione) per i cattolici invece, Dio, nella sua bontà, dà agli uomini gli strumenti per salvarsi. Ne derivano due atteggiamenti radicalmente diversi nei confronti del lavoro[2]. Per i luterani il lavoro e la prosperità sono espressione della Grazia (dono primo di Dio) e, in quanto semplice manifestazione di tale grazia, possono andar quindi a vantaggio solo dei fedeli e rimanere totalmente indifferenti alla divinità, per i cattolici il lavoro invece è proprio uno strumento di salvezza che deve andare a glorificare Dio. Ogni opera umana giusta e bella avvicina ciascun membro della Chiesa un po’ di più a Dio. Ogni fedele, pertanto, può e deve fare la propria parte, secondo il proprio censo e le proprie capacità, per vivificare nel mondo la parola divina. Se lo stile Barocco si afferma in Europa è proprio perché viene percepito fin da subito come lo stile che meglio è in grado di realizzare tale aspirazione alla glorificazione di Dio[3].

Che questa estetica poi sia improntata a uno stile ricco è più un effetto dello sforzo collettivo e di una ideologia che chiama non solamente ciascuno a fare la propria parte, ma anche a farla meglio che può (visto che tale sforzo deve essere teso a glorificare Dio) che l’effetto (senz’altro anch’esso presente) della necessità dei membri della casta politica, economica e religiosa di lasciare un segno tangibile del proprio potere. Al di là della disputa teologica il risultato principale è però tanto di natura economica quanto estetica: i protestanti, preferendo uno stile minimalista, non hanno riversato fiumi di denaro per decorare e costruire i luoghi di culto, almeno non quanto i cattolici. Da qui un altro paradosso dell’abbondanza barocca: mentre il minimalismo protestante ha consentito la concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi, il Barocco ha rappresentato un’onda di ricchezza proveniente da mille rivoli che però, allo stesso tempo, non si è concentrata in un capitale privato, ma si è dispersa in innumerevoli manufatti pubblici. Il che spiega ampiamente, non solo e non tanto il ritardo dei paesi dell’Europa del Sud in termini di adesione al capitalismo, ma anche come mai Spagna e Italia siano in assoluto i paesi con più siti architettonici patrimonio dell’Unesco al mondo (molto di più di qualsiasi paese nordico): nel Sud Europa la ricchezza cattolica non si è limitata a essere solo un fatto individuale e privato, ma si è concretizzata in opere pubbliche e collettive[4] magnificenti[5]. Il Barocco, pertanto, è intrinsecamente abbondante, perché è di fatto, non solo simbolicamente, un fiume di ricchezza. Un’onda anomala ideologica che è finita col traboccare, alimentata processualmente da ogni rivolo sociale, dal più alto al più basso, fino a condensarsi in uno stile artisticamente pantagruelico.

Al di là delle contraddizioni socio-economiche che gli sono proprie, lo stile Barocco rivela incongruenze anche negli elementi culturali e ideologici che lo hanno promosso. Il Barocco s’evolve dal Manierismo, uno stile che rovescia la lezione rinascimentale, fortemente improntata da un lato all’osservazione della natura e da una attenzione quasi scientifica dei dettagli (tanto che si potrebbe parlare di realismo sperimentale per certi autori rinascimentali), dall’altro alla pura teoria ideale, improntata a rivendicare l’arte come traduzione di un mondo archetipico e iperuranico. Insoddisfatto da tale irrisolta dicotomia che comunque faceva dipendere l’arte da qualcosa di esterno all’artista (sfera reale o sfera ideale), il Manierismo finisce per lasciare maggior spazio al mondo soggettivo di pittori e architetti e ai loro fantasmi interiori. Lo stile Manierista è infatti improntato alla esaltazione della fantasia[6]. Si pensi ad Arcimboldo e alle sue teste, ai colori accesi e innaturali di Pontormo o ai corpi deformati verso l’alto di El Greco. Più che alla mancanza totale di regole il Manierismo si indirizza però al capriccio e all’invenzione, alla ricerca cioè di ciò che contraddice la logica e la norma. Il Manierismo è insomma l’anti-norma che si fa regola[7] o, se vogliamo, è la teorizzazione di pratiche artistiche valide a tradurre il fantastico interiore dell’artista.

Quest’ultimo aspetto soggettivo e intimo del Manierismo, il Barocco lo accoglie, ma senza rinunciare a coniugarlo con quella spinta culturale, presente nel Rinascimento, attenta a riconoscere l’importanza dell’oggettivo, dell’esteriore e del naturale (si pensi a Leonardo e ai suoi studi anatomici). Viene in mente il problema principe di Leibniz (e di Spinoza), che è quello di accordare due dimensioni parallele e non convergenti, quella spirituale e quella materiale, il libero arbitrio con il determinismo meccanico[8]. Il XVII secolo infatti è anche l’epoca dell’esaltazione della scienza e del suo metodo (vedi Cartesio, Galileo, Newton, ecc.) tanto che, giustamente, è stato notato che il Barocco è ben rappresentato dalla figura dell’ovale[9]; l’ovale, ovvero l’ellissi delle orbite astronomiche kepleriane: una figura chiusa circolarmente, ma con un fuoco eccentrico, irregolare; singolarità e razionalità insieme.

È che il Barocco si distingue nettamente dal Manierismo perché accantona la fantasia a favore dell’immaginazione. Non si tratta di distinguere la lana caprina da quella pecorina. Mentre una fantasia può anche essere completamente slegata dalla realtà, fino all’allucinazione, ciò che immaginiamo, che sia vero o che sia falso, deve mantenere comunque delle caratteristiche di verosimiglianza. Tale sensibilità etica verso il vero ha una utilità pratica e religiosa: l’abbondanza dell’onda Barocca, per mantenere la sua spinta, deve anche restituire qualcosa ai fedeli che la alimentano. Lo scopo dell’arte Barocca deve essere anche quello di permettere di anticipare a tutti i fedeli la bellezza e la ricchezza della vita che aspetta coloro che si sono spesi in opere a maggior gloria di Dio[10]. Per alcuni artisti barocchi l’Arte deve emozionare, coinvolgere e commuovere lo spettatore, ma la spinta emotiva che suscita non deve essere fine a se stessa: il suo scopo deve essere quello di aiutare il fedele a salvarsi spingendolo a una conversione; ma solo la verisimiglianza e un realismo drammatico permettono di prefigurare con l’immaginazione quel che sarà il Regno dei Cieli, non certo la fantasia. Il campione di questa arte “impegnata” è, naturalmente, Caravaggio, che interpreta il Barocco non solo alla luce di una certa abbondanza espressiva, ma soprattutto come una luce che illumina una certa verità, come la sua pittura ben esemplifica[11]. È soprattutto lui a credere che l’Arte debba essere uno choc che spinge chi guarda il quadro a un trabocco del cuore (di nuovo l’abbondanza) tale da far rivivere e non solamente rivedere il fatto rappresentato[12]. Il Barocco di Caravaggio, insomma, promuove la conversione religiosa ex abundantia cordis.

Eppure, nonostante ciò, il Barocco risulta essere uno stile molto concettuale, che rifiuta di rivolgersi alle masse e preferisce dedicarsi all’élite, all’intelligentia colta[13] che, con l’eccezione dei filosofi e degli scienziati, sembra però interpretare il sapere in modo non funzionale ma, piuttosto, come occasione d’espressione di stravaganze o per manifestazioni di destrezza, arguzia e di capacità di sorprendere. Per questi artisti barocchi l’arte deve si persuadere, impressionare e commuovere, ma all’unico scopo di permettere l’esercizio dell’immaginazione[14]. Siamo al polo opposto dell’impegno di Carvaggio, che infatti non farà scuola, non nel senso proprio del termine almeno, anche se lascerà un’impronta indelebile nell’immaginario di artisti barocchi del calibro di Valasquez e Rembrandt. Il punto è che le élite barocche amano divertirsi, sono decadenti e distanti dai neo-colti ceti popolari protestanti con la loro missione moralizzatrice neoevangelica; e per questo apprezzano e promuovono, del Barocco, una certa sofisticatezza, lo sfoggio di abilità, l’eccentricità, finanche il monstrum e la crudeltà. Vi è nel Barocco un culto dell’effimero[15]. Tale spirito di levità, che esprime il gusto più spettacolare e meno razionale dell’animo Barocco, lo si percepisce non solo nelle opere di alcuni pittori (Rubens), ma nella poesia del Marini e di altri scrittori[16]. Sono due anime che convivono, entrambe presenti, entrambe importanti, due anime contraddittorie, quelle che alimentano il Barocco che, in questo senso, non risolve le contraddizioni del Rinascimento, tra arte ideale ma intellettuale e arte naturalistica ma sperimentale, ma le spinge agli estremi, fino a farne le due facce chiaroscurali di una specie di stile à la Giano.

Talvolta però, grazie alla sensibilità del genio, queste due anime si fondono sincretiche in un’unica opera. Si pensi alla Gorgone di Caravaggio, stupendamente dipinta su uno scudo che replica, in modo immaginifico ma spietato, la visione riflessa che della Medusa ebbe Perseo. Mondo mitologico e rappresentazione realistica si fondono in un manufatto che è replica verosimile di un evento necessariamente fantastico[17]. Qui Caravaggio compie un’operazione estremamente concettuale. Non si limita a raffigurare o richiamare, ma tende a replicare e a ripetere l’irreale. La rappresentazione di Caravaggio si fa qui blasfema ri-presentazione del mito. Blasfema perché quello scudo appare come una menzogna sotto le spoglie della più vera verità. È che il Barocco sembra riflettere molto sulla rappresentazione, non solo e non tanto a voler suggerire come il mondo sia rappresentabile e osservabile, ma nel domandarsi con angoscia se noi stessi non si sia parte dell’infinito e talvolta crudele spettacolo di Dio. Citando Calderon De La Barca si può dire che il mondo è un gran teatro (di Dio). Col Barocco teatro e teatralità diventano dunque metafora stessa della vita umana.

Più spesso però le due anime dell’onda Barocca sembrano inconciliabili. Eppure sono espressione di un’unica necessità, quella di accantonare la classicità e, soprattutto, gli esiti sclerotizzanti promossi da un uso acritico dalle auctoritates su cui tale classicità si fondava, in funzione di un maggiore sperimentalismo anche linguistico. La poesia del Marini, la pittura del Caravaggio, le ricerche di Galileo e Keplero, la filosofia di Cartesio, Spinoza e Leibniz hanno in comune proprio la necessità di svincolarsi da una tradizione sentita ormai come incapace di spiegare il mondo. Tanto il reale che l’immaginario, nella sensibilità barocca, sono prima di tutto qualcosa da sperimentare e da giocare in modo nuovo.

 Per una messa in scena totale

«[…] Come lo fai il prezzo delle portate?»
«Io chiedo di più per tutto ciò che è nero: uva nera, olive nere, ribes nero. La gente in genere ama ricordarsi della morte. Mangiare pietanze nere è come consumare la morte […]»

Il cuoco, il ladro sua moglie e l’amante, di Peter Greenaway (1989)

Qualcuno a questo punto si chiederà cosa potrà mai avere a che fare il Barocco con il cinema, arte industriale e di massa per antonomasia. Da ciò che si è detto finora l’idea stessa di un cinema Barocco dovrebbe essere di per sé un non sequitur. Sebbene al cinema sia dato spesso grande spazio all’immaginazione raramente lo si è fatto avendo di mira la necessità di esprimere concetti complessi. Al cinema, anche per necessità produttive, ogni intellettualismo è abolito, ogni concetto ridotto all’essenziale fino allo stereotipo, soprattutto nel cinema fantastico, di prassi rivolto al grande pubblico e non alle élite colte. Eppure, non solo un cinema barocco è stato possibile, ma ha anche un campione che svetta su tutti gli altri: Peter Greenaway. Questo è stato possibile perché Peter Greenaway non è solo un regista. In primo luogo ha studiato da artista e, in quanto tale, si è rivelato anche un profondo conoscitore dell’arte; in particolare proprio del periodo Barocco.

Quando Domenico De Gaetano individua in Greenaway un regista dalle istanze neobarocche, dunque, non si può non essere d’accordo con lui. Anche se, allo stesso tempo, ci sembra che nel momento in cui egli indica in Prospero’s Book. L’ultima tempesta (film ispirato a La tempesta) il momento in cui Greenaway s’avvia verso un cinema definitivamente neo-barocco, rischia di farci cadere in equivoco[18]. Bisogna dire che Greenaway è Barocco fin dal suo primo lungometraggio The Falls e rimane Barocco in ogni film successivo. Solo in apparenza Greenaway arriva all’espressione di un cinema Barocco gradualmente. I suoi primi lavori (commissionati dalla BBC) sono opere sperimentali e mockumentary (cioè falsi documentari). Eppure proprio quest’ultimo aspetto dovrebbe metterci sull’avviso. Non dovremmo mai dimenticare quanto la poesia barocca ami il calembour e lo scherzo o quanto la pittura Barocca abbia riflettuto a partire dal Caravaggio (ma non solo con lui) sul tema del vero e del falso (si ricordi la Gorgone). Lo spirito di The Falls, che raccoglie in una summa elementi dei cortometraggi precedenti, risponde perfettamente al gusto del Barocco, sebbene incarni un Barocco più letterario che scientifico e pittorico. Anche l’ossessione per i cataloghi e per la numerologia presente in questo suo primo lungometraggio (e poi anche in Giochi nell’acqua e in altre opere), tutto giocato sul doppio significato inglese di “falls” (caduta e caso), dove si mette in scena un incidente globale, misteriosamente collegato a 92 episodi della vita di 92 individui che hanno il cognome che inizia o finisce per “falls”, esprimono istanze barocche[19], almeno quanto il successivo I misteri dei giardini di Compton House, film ambientato alla fine del Seicento inglese.

Fotogramma da “I misteri del giardino di Compton House” (1982)

Non è tanto l’ambientazione a caratterizzare i film di Greenaway come barocchi, ma piuttosto la loro struttura narrativa spesso pregna di metafore e allegorie. Il citato Misteri dei Giardini di Compton House è, ad esempio, al contempo un amaro apologo dei rapporti tra arte e potere, ma anche una sorta di analisi dei rapporti tra visione e verità, motivo per cui il film ci offre anche un compendio delle tecniche pittoriche dell’epoca (il protagonista è un pittore che deve realizzare dodici vedute di una magione). Il film riprende suggestioni legate all’alfabeto e alla numerologia che hanno caratterizzato i primi cortometraggi e che non abbandoneranno mai il regista (Greenaway cerca così di riflettere e farci riflettere sull’asimmetria tra parola e immagine). Quello di Greenaway come del suo protagonista sono approcci molto tecnici, molto scientifici che però, verrebbe da dire, almeno per il protagonista della pellicola rimangono inutili. Il pittore, benché esperto della visione e benché dotato di ogni strumento tecnico, fatica comunque a capire d’essere capitato in un gioco di potere più grande di lui, così come il vedere la verità nel telescopio non servì a Galileo per proteggersi dal potere della Chiesa.

A segnare il passo nel cinema di Greenaway della fine degli anni Ottanta e degli anni Novanta c’è poi l’aspirazione a realizzare, attraverso i film, un’opera d’arte totale. Opere in cui cinema, musica, poesia, concetti scientifici si concretizzino in un’unica esperienza artistica. Già Misteri dei Giardini di Compton House e Giochi nell’acqua ci fanno percepire questa questa aspirazione. Dalla fine degli anni Ottanta Greenaway sembra trovare in un cinema dal forte impianto teatrale il mezzo ideale per la realizzazione di tali intenti[21]. In seguito individuerà nelle nuove tecnologie digitali il mezzo per continuare a esprimere le proprie ambizioni, ma, nel frattempo, è nella drammaturgia teatrale e nel teatro elisabettiano (del resto Greenaway è inglese come il seicentesco Bardo di Avon) che trova il modo più naturale per articolare le sue articolate metafore. Si è visto in precedenza come la rappresentazione, lo spettacolo e la teatralità divengano in epoca Barocca il modo più semplice per esprimere determinate inquietudini della modernità. Greenaway compie lo stesso percorso cercando di teatralizzare il cinema o di realizzare un cinema teatralmente metaforico, in pieno spirito barocco.

Se le cose stanno così allora bisogna dire che già il Ventre dell’architetto, ambientato a Roma, può essere visto come una moderna tragedia shakespeariana dove, ancora una volta, s’avanza la metafora dell’artista-intellettuale sconfitto dal potere (e dalle donne). Il fatto che il film sia ambientato a Roma, città barocca per antonomasia e che abbia come protagonista un architetto non è dunque un caso. Greenaway è qui tentato di compiere un’opera artisticamente complessa, in grado di conciliare il cinema con l’architettura, utilizzando quest’ultima come medium espressivo ben al di là di un mero uso scenografico. L’architettura per Greenaway è un’arte pubblica, corale e anche monumentale, strettamente legata al tema dell’eternità e della morte. Non a caso il tema della morte (del protagonista e dell’artista in generale) è presente in tutto il film connesso con quello della sopravvivenza dell’opera d’arte. L’architettura nel film infatti svolge quasi il ruolo di un Coro Greco il quale, benché qui sia muto, dialoga col protagonista e ne profetizza la fine tragica.

Potenza dell’esercizio artistico e arte dell’esercizio del Potere

I film di Greenaway, in effetti, sono metafore che chiamano in causa un unico concetto che ritorna come un’onda sempre uguale e sempre diverso: la pericolosità e talvolta la velleità del sapere, di ogni techné sia estetica sia scientifica, di fronte alla crudeltà e alla grettezza del potere. In precedenza si è visto come nel Barocco, accanto a uno spirito più lieve ed edonistico, è sempre stato presente anche un impeto etico, votato alla denuncia della verità. Il cinema di Greenaway non si ritrae da questa missione etica connessa all’arte cercando di riflettere proprio attorno al potere in rapporto con il sapere e la cultura. È come se Greenaway mettesse in scena sempre uno stesso evento, quello del sacrificio dell’intellettuale colto ma impreparato alla brutalità che talvolta lo colpisce in nome del mantenimento dello status quo e altre volte in nome dell’interesse personale. Del resto il secolo Barocco inizia con il rogo di Bruno, prosegue con il processo a Galileo, il probabile avvelenamento di Cartesio e la scomunica di Spinoza[20]. Ma si pensi anche alla alterna fortuna di pittori come Caravaggio, alla sua fine drammatica. Greenaway sembra volerci rendere consapevoli, attraverso i suoi film, della lezione che ci giunge dall’epoca barocca: l’arte è, in quanto forma di conoscenza, come tutte le forme di conoscenza (scienza compresa), un esercizio pericoloso.

L’architettura messa in scena  ne il Ventre dell’architetto, non quindi  è solo l’occasione di utilizzare una città come una scenografia, è anche l’arte che ben si presta ad esprimere uno dei temi cari al regista: il rapporto tra  artisti e potere. Si pensi ai grandi architetti dei regimi totalitari, come Speer o gli architetti del fascismo. Nel film si allude a costoro attraverso la figura dell’architetto Boullée, ma il problema del rapporto tra artisti e committenza attraversa come un cursore quasi tutte le opere di Greenaway. Lo ritroviamo ne I racconti del cuscino e in Nightwatching e in Goltzius and the Pellican company. Nightwatching è ad esempio interessante perché Greenaway torna ad utilizzare il registro del mockumentary, cioè del falso che però sembra vero, per sviluppare il tema del rapporto tra arte e potere. Già ne Il bambino di Mâcon Greenaway aveva utilizzato tale registro, mettendo in scena dietro una tenda, in un film in cui finzione e realtà si penetrano fino a farsi indistinguibili, lo stupro d’una giovane donna da parte di una milizia. Nel Bambino di Mâcon lo scopo di Greenaway è quello di spingere a farci saltare la quarta parete e mostrare come rappresentazione artistica e realtà siano più strettamente relate di quel che siamo usi credere, mentre in Nightwatching Greenaway sembra volerci far riflettere sulla nostra attitudine a credere ai messaggi falsi ma seducenti perché espressi in modo criptico, al falso che si presenta come verosimile perché più affascinante. Nel film si immagina la denuncia, fatta da parte di Rembrandt attraverso il famoso quadro La ronda di notte, di un complotto politico (di cui però non esistono elementi storici). Tale denuncia si risolverà poi nell’emarginazione sociale e lavorativa del pittore (fatto storico reale). Greenaway in modo sapientemente ironico usa da un lato la rappresentazione teatrale, dall’altro delle false interviste frontali a Rembrandt e a sua moglie (ciò un linguaggio che si userebbe in un documentario televisivo), proprio per sfumare i confini tra reale e irreale ovvero tra fatto storico e falso storico. Del resto Greenaway sembra sempre più interessato nelle sue ultime opere ad affrontare una riflessione sull’arte nell’epoca della nuova riproducibilità tecnica: quella del digitale. La domanda posta potrebbe essere così espressa: la democratizzazione delle espressioni artistiche operabile grazie al Digitale si tradurrà necessariamente in uno svilimento dell’Arte e in un uso basso di tali mezzi?

Goltzius and the Pellican Company, ad esempio, può essere visto come un ragionamento sulla pornografia e sull’esibizione pubblica della sessualità perversa, impaginata in quella cornice di rapporti tra potere politico-religioso e uso dell’Arte che sono ormai un canone per il regista. Greenaway immagina che l’incisore barocco Goltzius sia chiamato dal Margravio di Alsazia a rappresentare gli episodi biblici più scabrosi (come l’incesto di Lot con le figlie). Il soggetto del film è, pertanto, la pornografia. Un genere che è “mockumentario” per necessità. In tutti i film porno, infatti, si mettono realmente in scena degli atti sessuali che, tuttavia, sono e restano al contempo assolutamente fasulli e non spontanei. Non c’è nulla di meno documentaristico di un film porno. Ma Goltzius è anche una riflessione sull’uso artistico e sulle possibilità di utilizzo delle nuove tecnologie e in particolare sulla riproducibilità tecnica. Così come l’invenzione della Stampa permise la diffusione di disegni, illustrazioni e immagini tabù, dense di contenuti erotici o violenti legati alla storia, anche Internet (che è il corrispettivo della stampa del XXI secolo) e le nuove tecnologie digitali ormai riversano sul mondo un’ondata di immagini false e vere allo stesso tempo (quelle porno appunto). Non solo Greenaway ci rammenta come la pornografia non sia un fenomeno sociale recente, bensì antico, ma ci mostra anche l’ambiguità dell’arte stessa, sempre in bilico tra costruzione artificiale e rappresentazione del vero, come l’attività di un regista porno. Tale insistenza sui rapporti tra vero e falso nell’arte, rapporti che per il regista sono sempre irrisolti e che si esprimono attraverso la sua sensibilità “mockumentaria”, esprimono chiaramente la mentalità barocca del regista e permettono di spiegare i suoi film come dei tentativi, quasi ossessivi, di riproporre a più riprese il problema delle due anime del Barocco: immaginazione e realismo.

Fotogramma da “Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante” (1989)

Ma forse il film migliore per cogliere appieno il gusto barocco per il cinema di Greenaway è il capolavoro cinematografico degli anni Ottanta: Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante. Al di là dell’ambientazione è l’impianto del film che è compiutamente Barocco. Greenaway è sempre stato l’alfiere di un cinema e di un’arte molto razionale e controllata, molto concettuale e poco emotiva o dionisiaca. Un’arte giocata soprattutto sulla contrapposizione e ripetizione di elementi complementari. Anche questo gioco di rispecchiamenti e di accostamenti tra elementi opposti è molto Barocco. Il contrappunto caratterizza, per esempio, la poesia del Marini, la musica di Vivaldi e Bach ma anche il minimalismo musicale di Nyman, il compositore feticcio dei primi film di Greenaway.

Il film si apre con una scena di violenza nel quale uno dei protagonisti, il Ladro Spica (traslitterazione dell’inglese “speaker” che vuol dire parlatore), individuo violento, ignorante e logorroico, ossessionato dalla necessità di apparire diverso da ciò che è e pertanto colto e dai gusti sofisticati, costringe un suo debitore a mangiare degli escrementi. Nel frattempo ai lati della scena appaiono due camion, uno stracolmo di pesce e l’altro di carne, che si aprono verso lo spettatore, mentre la sottomessa Moglie Georgina, il Ladro e i suoi accoliti entrano nel ristorante (di proprietà dello stesso Spica) gestito da un geniale e raffinato Cuoco di origine francese.

Già da questi momenti iniziali possiamo intuire che Greenaway intende giocare il film su una serie di contrappunti, come in una partitura barocca: feci-cibo, innocenza-cattiveria, dominio-sottomissione, dentro-fuori, autorità-autorevolezza. Ogni personaggio ha il suo alter-ego. L’autorevolezza del Cuoco si contrappone al mero autoritarismo del Ladro (allegoria del capitalista cleptocrate); la cultura e la bellezza della Moglie (una splendida e discintissima Ellen Mirren oggi famosa per la sua interpretazione della Regina Elisabetta) si contrappongono all’ignoranza e brutalità del marito, così come la sua ricchezza alla povertà del lavapiatti (o del debitore). Il principale contrasto però è fra il Ladro e l’Amante (un colto libraio ebreo). Mentre per il Ladro la bellezza (rappresentata dalla Moglie) è qualcosa da sfruttare, sottomettere e persino umiliare, per il colto Amante è qualcosa da liberare e a cui corrispondere amore. A questo contrasto diretto si accompagna quello più mediato tra il Ladro e il Cuoco, che nasconde, protegge e incoraggia i due amanti. Nel film non sono solo i personaggi che si sdoppiano: anche ogni ambiente si raddoppia e si contrappone a un altro. La cucina, caratterizzata da tonalità verdi, si contrappone concettualmente al bagno del ristorante (dove si incontrano clandestinamente la Moglie e l’Amante) in cui domina un bianco abbacinante e cromaticamente alla sala da pranzo, dominata dal colore rosso e dal nero[22]. La sala da pranzo a sua volta si contrappone al blu scuro dell’ambiente esterno, il quale invece ci rimanda per complementarietà concettuale al bagno bianco (il luogo dell’intimità).

Greenaway, con una tecnica simile a quella utilizzata da Hitchcock in Nodo alla gola, sviluppa il film attraverso una serie di piani sequenza, quasi tutti caratterizzati da carrelli orizzontali, nei quali, ogni volta che i personaggi passano da un ambiente all’altro, i protagonisti modificano il colore dei propri abiti per adattamento ambientale. Così la fascia da sindaco del Ladro è verde in cucina, rossa nella sala da pranzo, blu all’esterno. Il medesimo processo di cambiamento cromatico investe anche gli abiti di sua moglie e degli altri protagonisti. Unici personaggi i cui abiti non cambiano mai colore sono il Cuoco (sempre vestito di bianco) e l’Amante (sempre vestito di marrone). Questo è significativo perché entrambi simboleggiano due diverse figure di uomini di cultura o di sapere. Il Cuoco e l’Amante rappresentano due atteggiamenti diversi di fronte alla bellezza. Uno più intellettuale e letterario, idealista e classico, l’altro più artistico, sperimentale, ma anche accorto e consapevole delle conseguenze che può avere il sottrarre al Potere l’uso cinico e perverso che questo fa della bellezza. Se il Libraio-Amante rappresenta l’intellettuale classico, quello che vive e si alimenta col mondo virtuale della parola scritta (legge a tavola), il Cuoco invece rappresenta l’artista plastico, colui che manipola la materia, che trasforma il mondo. Radicalmente diversi saranno i loro destini. Mentre il libraio a causa di una delazione, verrà scoperto e infine ucciso dal Ladro (soffocato con i suoi libri), il Cuoco finirà con l’aiutare Georgina a compiere la sua vendetta, dando in pasto al Ladro il povero libraio[23]. Il finale è una grottesca metafora di quel che può accadere all’ignoranza arrogante quando è costretta a nutrirsi di cultura. Morire. La vittoria della Moglie e del Cuoco rappresenta anche una scelta etica che forse esplicita il pensiero estetico del regista. L’artista non può limitarsi a sostenere la bellezza restandosene in disparte o fuggendo nel proprio mondo (come cerca di fare il libraio), ma ex abundantia cordis deve impegnarsi, scegliendo il campo pubblicamente e apertamente nella sfida contro il Potere e la sua brutalità. Perché qualche volta la bellezza e l’arte possono avere la meglio anche sul più becero e gretto dei potenti.

Note

[1] Contrariamente all’opinione comune, anche per i cattolici, come per gli evangelici e per i luterani, la salvezza è appannaggio di pochi. Già Agostino, nel De civitate Dei¸ sosteneva che la salvezza sarebbe stata appannaggio solo di una parte della Chiesa. Se a questo concetto si uniscono certe ambiguità di Agostino intorno all’idea di Grazia divina, determinata duplicemente dalla Natura (stabilita all’inizio del tempo) e dalla Volontà (espressione della libertà umana) le distanze tra cattolici e protestanti in fatto di predestinazione si assottigliano. L’ambiguità di Sant’Agostino è irrisolta, dal momento che non spiega in che misura ciascuno di noi sia libero di volere in maniera indipendente da ciò che Dio abbia voluto che noi si sia. Cfr. Agostino, De Civitate Dei, libri XVI e XXII, Rusconi, Milano 1992. Ricordiamo, per chiarezza, che Lutero era un monaco agostiniano.

[2] Su questo punto cfr. Max Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo.

[3] Cfr. G. C. Argan, B. Contardi, L’arte italiana dal Rinascimento al Neoclassico, Firenze 1991, RCS – Sansoni editore, p. 255.

[4] Ibid.

[5] Qui possiamo notare un altro paradosso: del ricco Barocco beneficiano, anche se in modo solo indiretto, tutti, anche i più poveri, persino a distanza di secoli (basti pensare all’indotto turistico legato al Barocco leccese o a quello di Noto). La povertà monacale dei luterani ha alimentato invece un sistema, il capitalismo, in cui la ricchezza vale per se stessa e va a vantaggio di pochi i quali, Vangelo alla mano, oltretutto difficilmente andranno in Paradiso. Cfr. Vangelo di Marco 10,17-30.

[6]  Cfr. G. C. Argan, B. Contardi, L’arte italiana dal Rinascimento al Neoclassico, cit., p. 245.

[7] Ibid.

[8] Su questo punto e in particolare sul rapporto tra oggettivo e soggettivo, tra interno e esterno, nella filosofia barocca di Leibniz cfr. G. Deleuze, La piega, Leibniz e il Barocco, Einaudi, Torino, p. 45 e ss.

[9] Da Heinrich Wölfflinn.

[10] Cfr. G. C. Argan, B. Contardi, L’arte italiana dal Rinascimento al Neoclassico, cit., p. 255.

[11]  Cfr. ivi, p. 268.

[12] Ibid.

[13] «Il popolo non è certo il pubblico dei poeti barocchi». Cfr. Guglielmino-Grosser, Il sistema letterario, Principato, Milano 1987, p. 64.

[14]  Cfr. G. C. Argan, B. Contardi, L’arte italiana dal Rinascimento al Neoclassico, cit., p. 255.

[15] Cfr. Guglielmino-Grosser, Il sistema letterario, cit., p. 64.

[16]  Ivi, p. 63.

[17]  La mitologia è un elemento Barocco che ricorre anche in un pittore complementare a Caravaggio: Annibale Carracci. Su questo punto cfr. G. C. Argan, B. Contardi, L’arte italiana dal Rinascimento al Neoclassico, cit., p. 257 e ss.

[18]  D. De Gaetano, Il cinema di Peter Greenaway, Lindau , Torino 1998, pag 167.

[19] Su questo punto cfr. la voce “Peter Greenaway” nell’Enciclopedia del cinema Treccani.

[20]  Bisognerà attendere l’astuzia e la doppiezza di Leibniz perché la filosofia e la razionalità tornino ad avere rapporti, se non normali, almeno di compromesso con il potere politico e con la Chiesa; ma ormai il Barocco volge al termine e avanza l’Illuminismo.

[21]  Tra la fine dei Novanta a gli anni Duemila, Greenaway troverà nella sovrapposizione tra immagini e scrittura (si è visto che la curiosità per l’alfabeto è presente in lui anche nelle prime opere sperimentali), facilitata dall’avvento dalle nuove tecnologie digitali, ancora un nuovo modo per esprimersi. La sovrabbondanza Barocca è anche sovrabbondanza di segnali.

[22]  Nei colori della sala da pranzo vi è anche un richiamo colto, esplicitato dal quadro alle spalle dei commensali: il Banchetto degli ufficiali della Guardia civica di San Giorgio di Frans Hals. Il Ladro e i suoi accoliti si vestono come i protagonisti del quadro.

[23]  Il cuoco il ladro sua moglie e l’amante è il primo film di Greenaway in cui l’intellettuale, benché venga sacrificato, è alla fine vendicato. Bisogna attendere The Pillowbook (I racconti del cuscino) per osservare in Greenaway un approccio, se non più sereno, almeno più equilibrato tra intellettuali e potere.

Bibliografia

G. C. Argan, B. Contardi, L’arte italiana dal Rinascimento al Neoclassico, RCS – Sansoni editore, Firenze 1991;
D. De Gaetano, Il cinema di Peter Greenaway, Lindau, 1998;
G. Deleuze, La piega. Leibniz e il Barocco, Einaudi, Torino 2006;
Guglielmino-Grosser, Il sistema letterario, Principato, Milano 1987;
M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo.

di Amedeo Liberti

Autore

  • È redattore de La Tigre di Carta. Dopo gli studi di Filosofia e in Analisi e Gestione dell'Ambiente e del Paesaggio, si dedica alla sua terza grande passione assieme a Pensiero Teoretico ed Ecologia, fare il videomaker. Un suo corto "La Banalità Del Mare" è stato accettato al XIII Siena Short Film Festival. Oggi lavora come proiezionista per la Fondazione Cineteca Italiana. In pratica è sempre al cinema.