Romania. Maramureş, dove la terra è di legno

Capitolo 3

di Luca Bernardi e Ilaria Iannuzzi

Sul sedile posteriore sgranocchiamo salatini sciapi adocchiando un tramonto collinare punteggiato di cicogne e covoni di fieno. Il buio ci sorprende sui tornanti, latitano i lampioni, al termine di una lenta agonia il navigatore si blocca. Dopo un’ora e mezzo di saliscendi su una provinciale deserta ci imbattiamo in un cartello con scritto “Hoteni” e rallentiamo.

Ogni casa potrebbe essere la nostra meta, ci fermiamo, bestemmiamo, pigiamo smartphone senza connessione, accostiamo in un cortile e chiediamo lumi a un uomo di mezz’età che ci accoglie stupito. Non sa l’inglese, perciò cerchiamo di imperniare il discorso sulla macroarea semantica indoeuropea “pensione”. Il tizio annuisce, ci passa un cellulare in bianco e nero, all’improvviso si illumina: capisce dove dobbiamo andare. Fa segno di seguire la strada fino a un dosso e condisce il tutto con l’onomatopea di una sterzata brusca.

Ripartiamo, il monticello si palesa ma non il bivio, tra risate isteriche ci fermiamo in un altro vialetto. Dalla veranda vediamo una coppia quasi anziana che guarda la televisione. Lui si alza, apre, parla in tedesco. Poi intuisce la nostra inaffidabilità geografica e sale in macchina con noi per consegnarci a destinazione.

Una signora ci accoglie, Ioana, florida e allegra. Ha fatto la badante a Roma e a suon di grappa scatta l’amore reciproco. Nel giardino imperversano conigli, galline, un gatto castrato spodestato da un gattino, un labrador logorato dalla catena e perfino un agnello scampato alla Pasqua. Ioana parla con gli animali con la stessa sbrigativa dolcezza che riserva a noi. In discreto italiano racconta della figlia dentista sposatasi da poco, di quanto si stesse meglio ai tempi del socialismo, del marito a fedeltà alterne. Cuoca infaticabile, prepara polenta e provolone per colazione, zuppe al latte a cena, salsicce sempre. A forza di ţuică nel gazebo ci mettiamo a gridare, lei minaccia di filmarci, allora però ti chiediamo i soldi del biglietto, sghignazza, meglio di una telenovela, cerca di contenere in cucina il nostro gesticolare alle stelle ma è troppo bello sbronzarsi tra i grilli.

Foto di Sergio Bernini © 2017

Se a Timișoara il tempo sembrava essersi congelato trent’anni fa, il Maramureș ci riporta indietro almeno di cento. Ma qui non abbiamo l’impressione che sia avvenuta una paralisi dopo un evento traumatico – è troppo verde, troppo incontaminato, troppo sereno il Maramureș perché si pensi che qualcosa come una feroce dittatura lo abbia mai toccato. Anzi, in realtà qui il tempo non ci sembra per niente fermo, solo scorre a rallentatore, placido, incurante della distanza epocale accumulata rispetto al resto dell’Europa.

Sugli sterrati si incontrano i boscaioli che trasportano sul carretto la legna appena raccolta, nei campi si ammassano i covoni e bovini ed equini pascolano insieme sulle colline, le vecchie baba col fazzoletto in testa parlottano davanti al pozzo in cortile, mentre le pecore scampanellano avvicinandosi sull’uscio. Le ragazze da marito appendono su un albero in giardino tante vecchie pentole colorate: è un segnale eloquente, e a buon intenditor… Il giorno del matrimonio indosseranno l’abito tradizionale con la gonna brillante e fiorita e si porteranno dietro tonnellate di lino e cotone in lenzuola, cuscini, tappeti, frutto delle insonnie al telaio della loro mamă e della loro bunică. La primavera dopo, le rughe avranno già segnato il loro volto. Così si ripete la vita nella piccolissima Hoteni, e più o meno così si ripete a Sârbi, a Breb, a Săpânța, senza un briciolo di risentimento.

Foto di Sergio Bernini © 2017

Da un cortile di Săpânța una vecchina seduta accanto a una BMW ricoperta da un telo tradizionale fa cenno di raggiungerla. Ci guardiamo, tra i cerchioni saltabecca un cagnolino, non possiamo che accettare. Anche lei si chiama Ioana, fa la filatrice, nel tentativo di farci capire scandisce le parole lentissime. Intuiamo spezzoni di frase, isole di senso nel buio liquido della lingua. In città i rumeni sono lievemente più comprensibili; qui parlano un dialetto infarcito di cadenze ucraine. Stiamo seduti sull’erba, le guardiamo le rughe. Quando si accorge che non capiamo scuote la testa, fa un gesto con la mano e sorride. A malincuore ci alziamo.

In Maramureș tutto ruota attorno al legno. Di legno intagliato sono gli alti e possenti cancelli delle case, i vecchi fienili, le chiese, i gazebo addobbati con vasi pensili colmi di gerani e i tipici asciugamani ornamentali ricamati a mano.

Foto di Sergio Bernini © 2017

Di legno è anche la distesa blu intenso di croci del Cimitirul Vesel di Săpânța. Con un atteggiamento sereno, quasi beffardo, erede forse di quei forti Daci che credevano nell’immortalità e sapevano ridere in faccia anche alla morte, a partire dal 1934 lo scultore Stan Ioan Patraș comincia a realizzare delle tombe che raccontano la vita del defunto con scene di vita quotidiana dipinte in stile naïf ed epitaffi in versi ironici nel dialetto locale. Oggi il cimitero è un museo e l’attività, dalla scelta del ceppo alla composizione delle rime alle pennellate in smalto, è portata avanti dall’allievo Dimitru Pop.

Foto di Sergio Bernini © 2017

In paese lo conoscono tutti, lo scultore di lapidi in legno, è la celebrità locale, sta antipatico solo al prete che ne parla con sufficienza. Al cancello di casa compare una ragazza mora sui ventidue, se vogliamo intervistare il padre dobbiamo aspettare la sorella maggiore. Va bene, le diciamo, torniamo tra un’ora. Imponente e brizzolato nel vestito tradizionale, Dimitru ci fa strada nel laboratorio lastricato di sculture, stoviglie dipinte, quadri. Dal cortile ogni tanto si volta la minore, che ha finto di non sapere l’inglese per non mettere in ombra la sorella. Certa del nostro sdilinquimento da antropologi di fronte al totem comprato su Amazon, la primogenita conia verbi inesistenti a base nominale, scarta le domande politiche, annuisce grave, sgrana gli occhioni e si trincera dietro un muro di parole d’ordine: artigianato, territorio, tradizione.

Foto di Greta Valentina Galimberti © 2017

Ma non è solo litania per turisti. Questo è un posto in cui senti la terra, anche se sei nato in città, la continuità tra la terra e la gente, strati su strati di uomini e donne sbozzati dalla terra e alla terra tornati, generazioni sdraiate a scambiarsi il terriccio sotto il blu delle croci che ride. Forse la Romania ci commuove per la nostra innocenza perduta; i ricordi dei bisnonni che non sappiamo bollire stipati minuscoli nelle gallerie delle vene. E allora devi prendere un Ryanair per ubriacarti su un prato. Devi grondare sudore su una macchina a noleggio troppo lustra per non essere considerata un’astronave, fermarti a chiedere informazioni a due vecchiette di quarantotto anni che davanti alla macchina fotografica in un raptus di civetteria nascondono il bastone e finire per girare in tondo pomeriggi interi inseguendo il miraggio di chiese imprendibili dietro le colline.

Foto di Camilla Giannelli © 2017

Incantevoli sintesi architettoniche della tradizione autoctona, queste ultime fondono Oriente e Occidente in un equilibrio tra bizantino e gotico. L’uso del legno deriva da un fatto contingente, ovvero il divieto imposto durante il Medioevo dall’Ungheria angioina e cattolica di sprecare pietra per costruire le chiese ortodosse. I rumeni da allora impararono a sfruttare le risorse offerte da abeti, olmi e faggi in modo così abile da non aver bisogno di un solo chiodo per fissare i perfetti incastri delle assi e delle tegole. La silhouette inconfondibile di queste costruzioni, alcune delle quali sono inserite nel patrimonio mondiale dell’UNESCO, è caratterizzata da un ampio doppio tetto, uno che sormonta il pronao e un altro il naos, sopra il quale a sua volta si innalza la torre campanaria dalla copertura acuminata come un pungiglione.

Foto di Greta Valentina Galimberti © 2017

A Bârsana, dove sorge un grande complesso monastico, ci familiarizziamo con queste forme immutate nei secoli. Benché il monastero risalga alla metà del Cinquecento, nel Settecento fu confiscato dagli Austriaci (ci riesce facile far correre la fantasia verso qualche lontano inverno in cui il rosso del sangue bagna la neve) e pare incredibile che sia stato ricostruito solo nel ‘93.

Foto di Sergio Bernini © 2017

L’esempio più prezioso di architettura lignea che ci è capitato di visitare, però, è probabilmente la chiesa del 1643 dedicata a San Nicola che svetta su una collinetta a Budești-Josani ancora nelle sue forme originarie, monumentali e robuste. All’interno, l’Antico e il Nuovo Testamento si snodano sulle pareti nel tipico stile naïf della pittura locale. Ma possiamo solo sbirciare dalla finestra, perché le porte sono serrate e non sappiamo dove pescare il custode che detiene le chiavi e le fortune dei viaggiatori.

Foto di Sergio Bernini © 2017

L’ultima sera a Hoteni giochiamo a calcio e andiamo in altalena con il figlio undicenne di una vicina emigrata a Parigi. Lui ha la faccia solenne e un po’ triste di chi gioca sempre sul serio. Poi la nostra Ioana, a mo’ di addio, veste Ilaria con l’abito da sposa.

Foto di Sergio Bernini © 2017

 


Prologo. Barză, brânză, varză, viezure, mânz

Capitolo 1. Timișoara di bellezze scrostate

Capitolo 2. Hunedoara: un antipasto di Dracula

Capitolo 3. Maramureş, dove la terra è di legno

Capitolo 4. Transilvania: vampiri di gomma, alieni di luce

Epilogo. Bucura, bucurie, București

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