Romania. Timișoara di bellezze scrostate

Capitolo 1

di Luca Bernardi e Ilaria Iannuzzi

Timişoara ci accoglie fantasmatica, è l’ultima domenica di luglio, per strada le macchine sono così rare da farci temere di muoverci in una riproduzione al plastico. Parcheggiamo, saliamo nell’appartamento al primo piano di uno stabile scrostato dove in un bugigattolo che dà sul cortile intravediamo la famiglia del custode rimestare polenta con musica quasi neomelodica in sottofondo. Mangiamo salame e usciamo.

Palazzi in stile Secessione dai volti screpolati, i folti intrecci dei fili elettrici della luce e dei tram che paiono schiacciare l’orizzonte a terra, l’aria stagnante e silenziosa di un pomeriggio estivo… Il tempo su Piața Traian sembra essersi fermato. La targa di un relitto di auto sul ciglio della strada ci suggerisce la data in cui siamo riportati: 1989, l’anno della Rivoluzione. Forse la gente è in vacanza, o forse è serrata in casa per il troppo caldo, o forse questa impressione deriva anche dal fatto che non siamo capitati esattamente in centro, bensì nel quartiere storico ma leggermente decentrato di Fabric, eppure Timișoara ci appare subito di una bellezza dimenticata, come il grandioso set di un teatro della Belle Époque ormai dismesso.

Foto di Sergio Bernini © 2017

A una fontana, sotto il solleone, la gente riempie bottiglie da due litri e mezzo. Abbacinati chiediamo informazioni a un cinquantenne dallo sguardo mite. Ha voglia di parlare, il suo inglese è imperfetto ma solido. Si chiama Sorin, lavora in un’azienda di software, vive con la madre anziana. Quando nell’‘89 è scoppiata la rivoluzione aveva ventisei anni. Un giorno di metà dicembre ha sentito dei rumori e ha deciso di andare a curiosare. Si è ritrovato in mezzo ai manifestanti e alla fine voleva tornare a casa attraversando un ponte. Ma la sua ragazza, come sovrappensiero, gli ha detto: no, meglio fare un’altra strada. Il giorno dopo è venuto a sapere che proprio all’imbocco di quel ponte la polizia aveva cominciato a sparare sui manifestanti.

Dopo la Rivoluzione, dice, in Romania non c’è era più niente. Bisognava ricostruire e per dieci anni non ha mai smesso di lavorare un fine settimana: come vivere dentro una lavatrice in centrifuga. Quando un venerdì pomeriggio ha scoperto di poter disporre di sé per sessanta ore, senza preparare vestiti né provviste ha guidato verso le montagne. Con l’entusiasmo del neofita ha sgarrato i tempi del ritorno e al calare del buio si è trovato in una valle sconosciuta, , lontano dalla baita abbandonata dove aveva pensato di dormire. Allora si è seduto vicino alla chiostra di pietre di un bivacco e ha atteso l’alba. A un certo punto ha sentito un movimento nell’oscurità e temendo un orso, da bravo cittadino, si è irrigidito. Poi ha percepito qualcosa di umido sulla mano. Una capra selvatica gli leccava il mignolo.

Foto di Sergio Bernini © 2017

Chissà quanto c’è di vero nei racconti di Sorin. Suo nonno, amico di un prete inviso al regime, è finito in carcere. Sorin ha cercato di ritrovare la sua pratica nel marasma di relitti burocratici resi pubblici con l’avvento della democrazia, ma per ora non è riuscito a scoprire nulla. In compenso ha pubblicato qualche fotografia di paesaggi montuosi sul sito del National Geographic ed è molto orgoglioso. Ogni volta che cerchiamo di allontanarci, nonostante i cinque litri d’acqua che porta, aggiunge qualcosa per trattenerci.

«Seguite il tram e arriverete nella piazza dove è cominciata la Rivoluzione», ci suggerisce, e così pediniamo le rotaie come se fossero il corso della Storia. Ci lasciamo alle spalle la magnifica Sinagoga Fabric, un tripudio di cupole argentate e mura ornate come merletti in stile neomoresco (con tocchi neogotici, neorinascimentali, neobarocchi e – come farseli mancare – anche neobizantini); attraversiamo il bel parco Regina Maria; ci lasciamo tentare da una freschissima limonata, la prima di una lunga serie; infine sbuchiamo fra i palazzi in stile barocco viennese di Piața Unirii.

Foto di Sergio Bernini © 2017

Gli edifici ne dipingono il perimetro di giallo melone (la cattedrale dedicata a San Giorgio), rosa (la Banca Şvăbească), ambra chiaro (Casa Prenner), acquamarina e corallo (Casa Brück), panna (il palazzo episcopale), giallo canarino (la Cattedrale ortodossa serba), azzurro carta da zucchero (la casa della comunità ortodossa), crema (il Palazzo barocco, oggi sede del Museo d’Arte)…

Città di frontiera, da sempre ospite di diverse comunità etniche e religiose, Timișoara dispiega tutta la sua tavolozza di colori pastello per accostare nella stessa piazza una chiesa cattolica di rito romano e una banca ungherese, la casa di un carpentiere tedesco e quella di un farmacista austriaco, una chiesa serba e una galleria d’arte europea.

Roccaforte strategica al centro della pianura del Banato durante il medioevo, nel 1552 la magiara Temesvár fu conquistata dalle armate del pascià turco Sokollu Mehmed. Per quasi duecento anni l’ottomana Temeşvar si coprì di moschee, finché nel 1716 Eugenio di Savoia la annesse all’Impero austroungarico per divenire una piccola Vienna. Solo nel 1920, dopo la sconfitta dell’Austria nella prima guerra mondiale, Temeschburg finalmente divenne la rumena Timișoara.

Salendo sulla terrazza del Casinò Militare in Piaţa Libertăţii si dispiegano sotto i nostri occhi le traversie della storia della città. Intitolata prima del 1920 al Principe Eugenio, nel XVIII sull’area dove sorgeva un grande bazar turco sono calati gli edifici tardo barocchi e rococò a uso militare. Così gettiamo uno sguardo al Vecchio Municipio, oggi sede della facoltà di musica dell’Università, e immaginiamo che al suo posto doveva esserci un bagno turco. Sotto i nostri piedi dobbiamo immaginare, invece, che sorgesse la grande Moschea Silahdarului. E, un poco in lontananza, intravedendo le cupole a bulbo moresche della Sinagoga Stronghold, immaginiamo anche la comunità sefardita spagnola che veniva a mischiarsi con quella aschenazita tedesca.

Come se non bastasse, la natura cosmopolita di Timișoara ci si rivela ancora quando in Piața Victoriei ci ritroviamo circondati dall’Opera Rumena, il Teatro Nazionale, il Teatro Ungherese e il Teatro di Stato Tedesco. Davanti a noi si stende un lungo boulevard fiorito, bordeggiato da decadenti palazzi Art Nouveau e locali – finalmente! – affollati. In fondo, svetta la Cattedrale Metropolitana come un castello fiabesco dalle smaglianti guglie verdi.

Foto di Greta Valentina Galimberti © 2017

I rintocchi delle campane ci richiamano dentro per la messa domenicale. Avvolti dal profumo di incenso, dai bagliori dorati delle candele e delle icone e dalla litania tonante del pope, assistiamo affascinati al rituale ortodosso e all’intensità con cui i rumeni – in piedi, soli, assorti e concentrati – vivono la loro fede.

Dalla terrazza di un ristorante lì vicino, che nel XIX secolo era stata la casa di un coltivatore di fiori boemo, guardiamo il sole calare lento sulla città. Alla fine, perdendoci tra i vicoli, non abbiamo trovato la piazza dove ha avuto inizio la Rivoluzione (che è Piața Maria). Ma, in fondo, avrebbe potuto essere qualunque altra: ogni palazzo sfigurato ne porta incisi i colpi, ogni androne delle scale è ancora impregnato dell’odore polveroso, ogni volto ferito ne porta la memoria.

Si è fatto ormai buio quando facciamo ritorno nel quartiere Fabric, passando davanti alla Chiesa del Millennio. Le sue torri neoromaniche e neoromaniche, sinistramente illuminate nella notte, ci danno la sensazione di trovarci in una storia spettrale, mentre dei bambini – certamente ignari dei nostri fantasmi – giocano a rincorrersi nella piazza antistante. È questa l’ultima visione che abbiamo di Timişoara, prima di rimetterci in viaggio.

Foto di Sergio Bernini © 2017

 


Prologo. Barză, brânză, varză, viezure, mânz

Capitolo 1. Timișoara di bellezze scrostate

Capitolo 2. Hunedoara: un antipasto di Dracula

Capitolo 3. Maramureş, dove la terra è di legno

Capitolo 4. Transilvania: vampiri di gomma, alieni di luce

Epilogo. Bucura, bucurie, București

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