La gloria del mondo

Barbara idiozia e finta eternità delle opere umane

È proprio vero che la gloria mundi non è eterna? Il tempo non teme le piramidi, ma le piramidi non temono il tempo, così come le opere dell’uomo non soccombono all’idiozia distruttrice dell’uomo stesso.

Nudo o ingioiellato, integro o smembrato, ignoto o famoso, re o mendicante, in un fosso oppure oltre vertiginose fughe di scalini che si inerpicano lungo ciclopici bastioni di pietra per poi scivolare giù, in ipogei di portali, colonnati, volte, affreschi e forzieri traboccanti di tesori… Ai vermi, non interessa. Nessun ammasso di materia nell’universo sopravvive alla forma che assume, perché ogni schema di particelle implica un campo di possibili configurazioni successive, oltre alla pura e semplice negazione della struttura venuta in essere. Non sappiamo se la nostra carne vivente possieda una funzione morale, in questo cosmo quasi interamente avverso alla sua esistenza. Certo è che ha una funzione matematica, una funzione d’onda che si sviluppa ed espande fino alla propria estinzione. La morte e la vita si richiamano l’una con l’altra, tramite tutti i nessi simbolici che si possono immaginare, perché l’autoaffermazione del vivente si realizza in una crescita che comporta necessariamente un consumo, un esaurimento e un conseguente arresto. Noi poniamo in essere la nostra morte nell’atto stesso in cui viviamo e partecipiamo dell’organizzazione del mondo, gettandovi la nostra verità come una fiamma che divampa in un incendio. Infatti, non lasciamo altro che cenere ai nostri discendenti, perché questo è ciò che siamo e ogni essere può difficilmente offrire qualcosa di più che se stesso all’inesorabile scorrere del tempo.

Sic transit gloria mundi… ma è proprio così? No, perlomeno non sembra che finisca qui. Nei poemi omerici è proprio la capacità del tempo di distruggere ogni cosa, persona o pensiero, a rendere memorabile un evento. Gli dèi invidiano la possibilità che è data agli umani di immolarsi per una causa, di precipitare nella distruzione per affrontarla valorosamente, perché proprio in questo consiste l’eroismo, ovverosia l’apice dell’ideologia achèa. La scienza storica è stata resa possibile dagli sforzi che gli uomini hanno sempre fatto per lasciare qualcosa ai posteri, una traccia di sé che potesse sopravvivedi Ivan Ferrari Barbara idiozia e finta eternità delle opere umane La gloria del mondo re il più a lungo possibile, se non proprio fino alla fine dei tempi. Ma forse non apprezzeremmo questi sforzi e non ci preoccuperemmo di interpretarne i presupposti, se non condividessimo con gli antichi l’innata idea che vi sia una sensatezza nascosta dietro a una così pazza brama di immortalità. Può darsi che sia solo il nostro istinto che vede nella possibilità di morire un cortocircuito logico, un errore da correggere a tutti i costi, ma può anche darsi che i ribaltamenti concettuali, ai quali l’I Ching ci ha abituati, abbiano una nuova lezione in serbo per le nostre coscienze scandalizzate dalla morte.

Studiosi come Georges Goyon[1], direttore di ricerca al C.N.R.S., reso famoso dal suo lavoro nel sito di Tanis, hanno dedicato anni di studi al tentativo di comprendere come gli antichi egizi abbiano potuto aggirare i propri limiti tecnologici nella realizzazione dei loro magnifici monumenti. I suoi studi hanno illuminato il meticoloso lavoro dei cavapietre presso i giacimenti calcarei di Giza, il potenziamento della navigabilità del Nilo tramite complesse canalizzazioni che ne connettevano il delta al lago Meride e lo sviluppo di tecniche di navigazione speciale per l’approvvigionamento dei graniti di Assuan e delle dioriti nubiane fino alle rampe avviluppanti[2] di mattone crudo che ne consentivano il trasporto fino alla sommità delle piramidi. Chi le ha edificate ha effettivamente cambiato la storia di questo mondo e le sue imprese non avrebbero mai trovato dimora in seno a un’umanità immortale. Certo non resta poi molto dello splendore originario a Giza. Il rivestimento della Grande Piramide doveva farla rilucere al sole come un cristallo a chilometri di distanza, ma è stato saccheggiato, il complesso di templi, statue, obelischi, steli e colonnati che ornavano il percorso monumentale al tempo dei grandi faraoni oggi è ridotto a un’ombra, eppure Erodoto lo riteneva impressionante tanto quanto le piramidi stesse.

Checché ne dicano i proverbi, purtroppo il tempo non teme le piramidi. Tutto è fragile e poco occorre per distruggere l’opera di intere generazioni. Considerazioni analoghe si potrebbero fare per un mucchio di edifici, di vario livello estetico e antichità, che il passato ci ha tramandato. Dall’inesauribile ampiezza dei templi di Angkor, divorati dalla giungla, alle porzioni di Grande Muraglia Cinese smontate dai contadini per le loro baracche. Io che vivo a Milano so bene quanto più impressionante fosse il complesso del Castello Sforzesco al suo massimo splendore, ma questo ovviamente farebbe sorridere un romano, consapevole dei ben altri livelli di depredazione e delle perdite ben peggiori sofferte nei secoli dalla sua città. Potrà consolarsi almeno un po’ pensando al fatto che molte ruberie sono state perpetrate quasi a scopo di recupero. I marmi servirono alla creazione delle dimore gentilizie che ancora oggi ingemmano la nostra capitale e come ornamento per il palazzo imperiale di Aquisgrana. Qualcosa di simile è accaduto innumerevoli volte e in molte epoche. In tal senso, sembra assai calzante il parallelo dei riusi[3] che i Gran Moghul fecero dei siti e dei materiali appartenuti a quei templi indiani che i loro predecessori avevano semplicemente raso al suolo durante l’invasione islamica del subcontinente. Le inflorescenze architettoniche dell’arte indo-musulmana a Lahore e Golconda inducono quasi a sorvolare sulla violenza della loro imposizione.

Il vuoto dopo la distruzione del Buddha di Bamiyan ad opera dei talebani afghani nel 2001

Il vuoto dopo la distruzione del Buddha di Bamiyan ad opera dei talebani afghani nel 2001.

Altre volte, però, queste cancellazioni sono stati eventi completamente tragici, perché provocati da ignoranza, perversione, fondamentalismo, guerre, o dalle implacabili leggi del mercato, anche molto prima che questo si connotasse in senso capitalistico. I soldati di Alessandro che devastarono i palazzi persiani a Persepoli, così come quelli napoleonici che provarono la loro artiglieria bersagliando e sfigurando la Sfinge, incontrarono il disprezzo e la rabbia dei loro comandanti, ma ormai il danno era fatto e sarebbe rimasto per sempre.

L’uomo dimentica fin troppo facilmente quello che non viene imposto dalla realtà alla sua attenzione. Infatti, oggi facciamo grande fatica a studiare e capire la cultura dei perduti regni africani[4] che non ci hanno lasciato grandiose vestigia, ma perlopiù segni elusivi come i misteriosi artefici delle raffigurazioni visibili sulle rocce dell’Hoggar e del Fezzan. Nel Medioevo, i conquistatori musulmani hanno spesso cancellato tutto ciò che non rifletteva la loro ideologia, come le città alessandrine, i monumenti religiosi indiani e gli incanti sincretici del Gandhara e di Hadda[5], rendendo particolarmente difficile l’indagine degli archeologi. La stessa nebulosa origine dell’I Ching è stata resa tale dalla distruzione sistematica dei jiǎgǔwén[6], da cui è nata la scrittura cinese contemporanea, che in principio ne custodivano i simboli e i detti, operata dai medici tradizionali cinesi che, nel XIX secolo, disseppellivano questi oggetti antichissimi vendendoli come ossa di drago da tritare quale ingrediente per inutili intrugli puzzolenti.

Vedere come, sin dall’inizio della destabilizzazione del Medio Oriente, le antichità siano state fatte oggetto di devastazioni terrificanti rende deprimenti gli sforzi dei nostri progenitori di essere ricordati. La barbara idiozia di chi ha spazzato via i Grandi Buddha, di chi ha vandalizzato e saccheggiato il museo del Cairo e di chi ha raso al suolo Ninive e Palmira sembra rendere orribilmente insignificanti i tentativi dei grandi architetti e artisti del passato di comunicarci il loro senso della bellezza e i loro valori. Ma la morsa che ci attanaglia il cuore davanti a quelle immagini è dovuta al disvalore che è insito in quelle azioni. Quel disvalore, per converso, valorizza proprio quelle fatiche dei popoli scomparsi che i maniaci iconoclasti dello Stato Islamico hanno vanificato con la loro inettitudine a indirizzare la propria natura verso una qualsiasi autentica elevazione spirituale.

L’idea scellerata che essi desiderino cancellare la storia che gli imperialisti occidentali gli avrebbero imposto non potrà mai scagionarli dal danno incalcolabile che, in questo come in troppi altri ambiti, hanno inflitto all’intero genere umano. È un’assurdità così come lo sarebbe pensare che i discendenti degli antichi Maya vogliano andarsene a smontare el Castillo di Tulum per liberare la propria storia dalla narrazione che ne fanno gli altri messicani, discendenti dei loro conquistatori.

Per quanto deturpati, sminuiti e stinti, quei resti sono il meglio di ciò che possono essere i monumenti dopo tanto tempo: la testimonianza di una grandezza realmente e interamente tramontata, ma pur sempre esistita. È precisamente questo il modo in cui ci parlano di noi, di chi siamo stati come specie, di come siamo arrivati qui e di cosa potremmo ancora fare domani, imitando il passato o superandolo. La guerra contro la nostra mortalità è precisamente l’aspetto del nostro vivere storico che più di ogni altro ci definisce come umani e che offre una dimensione di bellezza alla fatica che facciamo per arrivare a costruire qualcosa con le nostre forze collettive. Non importa il fatto che una piramide non possa esistere per sempre, ciò che conta è che esista per molto più tempo di qualsiasi altra cosa, così da incidere più profondamente sull’immaginazione dei popoli e sulla loro capacità di trarne qualcosa di buono per il loro presente e per il loro futuro.

Note

[1] Georges Goyon, Il segreto delle grandi piramidi, Newton Compton, Roma 1985.

[2] Questa teoria, sviluppata proprio da Goyon nel 1977 e oggi dominante, ipotizza che una piramide in costruzione apparisse del tutto simile alla ziggurat di Khorsabad.

[3] Cfr. Gaston Courtillier, Le antiche civiltà dell’India, a cura di Guy Annequin, Libritalia 1996, p. 55.

[4] Cfr. Marcel Brion, La resurrezione delle città morte, trad. it. di Claudio Stroppa, Libritalia, 1996, pp. 75-122.

[5] Ivi, pp. 25-26.

[6] Queste ossa oracolari erano usate per la scapulomanzia, prevalentemente sotto la dinastia Shang.

di Ivan Ferrari

Autore

  • Laureato in filosofia, redattore della Rivista e socio collaboratore dell'Associazione culturale La Taiga dai giorni della loro fondazione, ha interessi soprattutto storici e letterari.