Lo Spiantato – Il posto chiuso

Chi segue le dinamiche universitarie avrà sentito parlare della proposta di inserimento del numero chiuso anche nelle facoltà umanistiche della Statale. La motivazione è che non ci sono abbastanza professori rispetto agli studenti che si iscrivono (devono essere minimo 9 professori ogni 200 studenti). Come potrete intuire questo è solo un pretesto (perlopiù ridicolo). La vera ragione è che il numero chiuso è funzionale a un progetto “didattico” ben preciso: ridurre i posti, così da poter giustificare la riduzione degli appelli e, in un immediato futuro, ampliare ulteriormente tale riduzione, cosa che l’Ateneo ha in mente di fare da tanto tempo. Si vuole portare a termine una ristrutturazione di Studi umanistici, seguendo un modello anglosassone, con più test scritti e meno orali, perdendo forse quella dimensione formativa d’eccellenza che ci caratterizza rispetto ad altri atenei europei. Ora, questo è il progetto implicito dell’Ateneo. Si può essere d’accordo o meno, ma qual è il problema vero? Che non si è dialogato al riguardo con chi deve subire questa riforma. Inoltre, si sa, il numero chiuso a Studi umanistici contribuisce a costruire un’idea di Università sempre più professionalizzante, cosa di cui ho già scritto, perché questa chiusura è dovuta anche al giudizio per cui “gli studenti di lettere sono troppi, poi non trovano lavoro” (allora perché siamo il penultimo paese per quanto riguarda il numero di laureati?). L’università, lo ribadisco, non forma dei lavoratori. Non è il suo compito. Dà a dei futuri lavoratori delle competenze in più, competenze fondamentali per costruire una consapevolezza maggiore: perché a questo serve la conoscenza.

Presidio contro il numero chiuso in Statale, 16 maggio 2017

Presidio contro l’introduzione del numero chiuso nelle facoltà umanistiche dell’Università degli Studi di Milano, 16 maggio 2017

Inoltre, si parla poco di un dato: l’età media dei professori ordinari. Si aggira intorno ai 60 anni. È mai possibile che per diventare professore in un’università italiana ci voglia così tanto? Manca totalmente un qualsivoglia ricambio, manca la volontà di fare in modo che ci sia un rinnovamento della classe docente. Ci sono alcuni corsi in cui i professori vanno avanti fino a oltre 70 anni. Del resto, iniziando a più o meno 60 anni, una carriera da ordinario di 5 anni sarebbe un po’ troppo breve… Curioso come anche in questo caso, anziché elaborare delle modalità per assumere più professori e riuscire a fare in modo che tutti si possano iscrivere a un corso, si opti per creare altri corsi a numero chiuso, che ormai sono la maggioranza in Statale. Insomma, l’Ateneo milanese ha attuato tutta una serie di politiche cuscinetto per arrivare a questo: prima il test di autovalutazione obbligatorio (ma non vincolante), poi la riduzione degli appelli, ora questo. Politiche cuscinetto per riformare senza coinvolgere gli studenti. Ed è questo il punto più grave.

Dovete sapere una cosa: ai professori non interessa nulla della didattica. Non a tutti, ovvio, ma alla maggioranza non interessa. È l’ultimo tassello delle loro esigenze. Riflesso di un Ministero altrettanto negligente, che valuta i professori solo per la loro produttività nella ricerca. Per cui, fatti due conti, per i professori che insegnano in Università, il parere degli studenti meno conta, meglio è. E la maggioranza di chi studia, per paura di ritorsioni o per aperto menefreghismo, non reagisce. Aggiungete uno Stato che finanzia poco la ricerca, che non ha idea di che significhi fare una politica formativa, e avete ben chiaro il quadro e il perché vanno diminuendo i giovani che si iscrivono in Università. Ottimo direi.

Autore

  • Tre anni di Lettere Antiche, ora a Medicina e Chirurgia. Per non perdere l'identità si rifugia nella letteratura, da cui esce solo per scrivere qualcosa. Può suonare strano, ma «Un medico non può essere tale senza aver letto Dostoevskij» (Rugarli).