Il silenzio del Don Giovanni

Don_Giovanni-german_advert

di Giulio Bellotto

///

L’arte non può essere indipendente dal contesto a cui si rivolge. Un caso di controversa censura che nel 1665 portò un tombeaur de femmes a ritirarsi dalle scene per un po’, e al suo posto fece salire sul palco un ipocrita.

Molière, Don Giovanni

«Non spetta certo a Molière parlare di devozione; con essa ha scarsa dimestichezza, non avendola mai conosciuta né in pratica né in teoria.»

Non si conosce quasi nulla sull’autore di queste parole, un anonimo che verso il 1665, anno di rappresentazione del Dom Juan, scrisse un accorato libello dal titolo Osservazioni sopra una commedia di Molière.

Le uniche certezze riguardano la sua affiliazione politica e il suo credo religioso: infatti il pamphlet si scaglia violentemente contro una precedente opera del commediografo, Il Tartufo, rappresentata a Versailles un anno prima e avversata fortemente sia dall’arcivescovo di Parigi sia da numerose confraternite religiose, ma sopratutto dal partito facente capo alla regina madre, l’anziana e cattolicissima Anna d’Austria. Se i primi mal tolleravano la critica che Molière indirizzò ai devoti e ai bigotti, i secondi dovettero trovare assolutamente insopportabile una rappresentazione tanto evidente dell’ipocrisia cortigiana dell’epoca. Inoltre le vicende di Tartufo, un uomo apparentemente pio ma in realtà tanto avido e lussurioso da insidiare la moglie dell’uomo che gli ha promesso sua figlia in sposa, ricordano da vicino intrighi di palazzo molto vicini alla casa di Francia, non ultimo l’affaire tra regina Anna e il duca di Buckingham, un episodio reso celebre da Alexandre Dumas ne I tre moschettieri.

Amore e denaro, sesso e puntali di diamante non sono però l’unica motivazione di fronte a tanta acredine verso il teatro di Molière, per il quale in molti volevano addirittura il rogo. Il periodo storico era infatti molto delicato sopratutto sul fronte politico europeo, dove si osservava una netta e insanabile contrapposizione tra Gesuiti e Giansenisti. La disputa era nata in ambito teologico e si basava sul differente approccio dei due ordini al sacramento della confessione, nonché ai concetti di peccato, colpa e assoluzione; in sintesi, il mondo cristiano era sul punto di scegliere tra una morale lassista e una estremamente rigorista. Ogni campo del sapere e ogni intellettuale fornì in quegli anni il proprio apporto alla questione: ad esempio Blaise Pascal sosteneva che i gesuiti adattassero le virtù religiose ai vizi del secolo mentre il vivace milieu veneziano, dove veniva stampata la maggior parte delle Lettres pascaliane, riteneva invece che i penitenti della Compagnia di Gesù possedessero severa virtù e autentica disciplina. Per Molière, figlio di artigiani dalla religiosità radicata e popolaresca, educato però dai gesuiti del Collège de Clermont, l’argomento era assai intrigante; così nel 1664 ecco il debutto del Tartuffe ou L’imposteur e l’inizio dei guai.

Molière ha scritto Tartufo e ha voluto rendere ridicolo e ipocrita ogni uomo di fede; ha pensato di non poter difendere le sue massime se non facendo la satira di coloro che potevano condannarle. […] L’ipocrita e il devoto hanno la stessa apparenza, per il pubblico sono uguali.

Su questo argomento, esposto in maniera chiara dall’anonimo delle Osservazioni, si basano le accuse di scorrettezza rivolte al drammaturgo. Furono lamentele convincenti quelle che giunsero da più parti all’orecchio del re, Luigi XIV le Roi Soleil, il quale sotto le pressioni della cabala dei devoti proibì le rappresentazioni pubbliche della commedia. Oggi ci accorgiamo facilmente dell’errore insito nell’accostare una pièce teatrale ai linguaggi della retorica e aspettarsi che ne segua le regole. In una lettera al re, Molière difese la sua opera con queste parole:

Il compito della commedia è quello di correggere gli uomini divertendoli, presentando i vizi e i difetti in modo anche esagerato per renderli meglio comprensibili.

In poche righe si condensa per la prima volta l’essenza della commedia tragica che nel Seicento preludeva già al teatro borghese di due secoli dopo, introducendo motivi edificanti su una base di scherzi, lazzi e situazioni comiche tipica della commedia dell’arte. Tuttavia sarebbe sbagliato apporre etichette di sensibilità contemporanea a un teatro in via di modernizzazione: ciò che subì il Tartufo può sembrare una forma di censura ma in realtà non è così. Possiamo invece considerarlo come una forma di autoregolazione interna al mercato degli spettacoli, la cui valenza sociale era allora molto importante. Di fronte a un pubblico che chiedeva sempre nuove produzioni, considerando anche la ridotta disponibilità di teatri veri e propri, l’autorità interveniva per assicurare che le poche occasioni teatrali riscuotessero il maggior successo possibile, assumendo un ruolo simile al pubblico-consumatore di un teatro in economia di mercato. Che non fosse possibile rappresentare pubblicamente una pièce controversa come il Tartufo, che oltretutto nella prima versione in tre atti vedeva l’imbroglione vittorioso, fu decretato dagli spettatori prima ancora che dalla legge.

A riprova di ciò, il re si dimostrò sempre molto favorevole a Molière e continuò infatti a sostenere la sua arte commissionando alla sua compagnia, la Troupe de Monsieur, nuove rappresentazioni a corte. Grazie a questi incoraggiamenti, per far fronte all’interdizione del Tartufo e alla lacuna creata nel cartellone, Molière dovette imbastire una nuova commedia: Dom Juan ou Le festin de pierre fu messa in scena a febbraio al Palais Royal. Questa nuova opera deve molto alla precedente, innanzitutto perché ne imparò a fondo la lezione: composta non più da tre ma da cinque atti, presentava una fine ben diversa per il vizioso protagonista, che veniva sprofondato negli inferi da un deus ex machina. Per quanto questo finale fosse di facciata e poco credibile, scritto con l’evidente scopo di rendere l’opera accettabile per il grande pubblico,[1] riscosse un grande successo anche grazie al personaggio comico di Sganarello, introdotto in Francia da Molière stesso nel 1660 con Sganarello o Il cornuto immaginario sul modello delle maschere del teatro italiano. La commedia permise al drammaturgo di rispondere pubblicamente alle accuse che gli erano state mosse, aggiungendo un nuovo capitolo al suo difficile rapporto con il clero, con cui era in tensione fin dal 1662 a causa dell’irriverente La scuola delle mogli.

Parallelamente intanto si osserva un fitto carteggio privato col re: Molière spera di convincerlo a ritirare il divieto che ancora pende sul Tartufo e per questo nel 1667, confidando nel titolo di “Frère unique du Roi” (compagnia ufficiale di corte) appena conferito ai Monsieur, presenta una nuova versione della commedia, dal titolo Panulfo, con leggeri cambiamenti nel testo; il divieto viene però rinnovato. Da questo secondo rifiuto nascono tre suppliche, che per i due anni successivi seguono Luigi XIV perfino nelle sue campagne belliche; la prima riveste un interesse particolare perché costituisce, in un certo senso, un manifesto che ci rende l’arte di Molière molto vicina e necessaria.

Questi signori cercano di insinuare che il teatro non è la sede per parlare di certi argomenti; ma col loro permesso io chiedo su che cosa è basata una così bella massima. È un’affermazione che essi si limitano a supporre e che non possono provare in nessun modo; e non sarebbe difficile mostrar loro che la commedia presso gli antichi ha preso origine dalla religione e faceva parte dei loro misteri […]

Se lo scopo della commedia è di correggere i vizi degli uomini, non vedo perché ci debbano essere dei vizi privilegiati. Quello in questione ha, per lo Stato, conseguenze ben più pericolose degli altri, e noi abbiamo verificato che il teatro ha una grossa capacità di correzione. Le più belle massime di una seria morale sono spesso meno efficaci della satira, e nulla è di maggior ammonimento, per la maggior parte degli uomini, che la pittura dei loro difetti. Esporre i vizi al riso della gente significa sottoporli a un duro attacco. Si tollerano facilmente i rimproveri, ma non si tollerano le canzonature. Accettiamo facilmente di essere malvagi, ma non vogliamo essere ridicoli.

[…] Si può temere che idee universalmente detestate facciano impressione sugli animi; che io le renda pericolose mostrandole in scena; che esse acquistino autorità dalla bocca di un personaggio scellerato? Si direbbe proprio di no; e dunque bisogna approvare la commedia del Tartufo oppure condannare in generale tutte le commedie.

[…] Ammetto che in certe epoche la commedia si sia corrotta. E che cosa, al mondo, non si corrompe quotidianamente? Non c’è cosa tanto innocente che gli uomini non possano rendere delittuosa, nessun’arte così salutifera che essi non siano capaci di rovesciarne le intenzioni, niente tanto buono in sé che non si possa farne cattivo uso. La medicina è un’arte utile, e ciascuno la considera fra le cose migliori che abbiamo; e tuttavia in certe epoche si è resa odiosa, e spesso è stata ridotta all’arte di avvelenare gli uomini. La filosofia è un dono del Cielo: ci è stata data per portare lo spirito a riconoscere un Dio attraverso la contemplazione delle meraviglie della natura; e tuttavia non si può ignorare che spesso la si è fatta deviare dai suoi scopi, utilizzandola pubblicamente per sostenere l’empietà.

A prima vista le suppliche di Molière sembrano sostenere l’indipendenza dell’artista dal giudizio di chiunque e restano pagine di orgogliosa rivendicazione dei principi della propria arte; nella pratica però introducono un compromesso. Tutto questo impegno nel perorare la causa del Tartufo infatti nasconde una rinuncia, o meglio una vera e propria ritirata. È significativo che il drammaturgo non accenni mai né al Don Giovanni né al successo ottenuto; questo silenzio è di fatto la tacita accettazione di un compromesso per emendare un’opera dall’ambigua reputazione col sacrificio di una pièce pienamente riuscita ma d’occasione, in favore di contenuti di critica sociale scomodi in cui Molière credeva fermamente. Dopo la consueta interruzione pasquale, il Dom Juan non fu più ripreso e nel 1669 il divieto di pubblica rappresentazione del Tartufo fu revocato.

Da orgoglioso guitto qual era, il giorno della prima Molière scrisse al re una lettera che sa di vittoria e di canzonatura, ma non ci è pervenuta la risposta del Re Sole.

Sire,

Un onestissimo medico, di cui ho l’onore d’essere uno dei malati, mi promette, e vuole impegnarsi davanti a notaio, di farmi vivere ancora trent’anni se io riesco ad ottenergli una grazia dalla Maestà Vostra. Gli ho detto, considerata la sua promessa, che non chiedevo tanto e che mi ritenevo soddisfatto se si impegnava a non uccidermi. Questa grazia, Sire, è un canonicato alla cappella reale di Vincennes, vacante per la morte di…

Posso osare di chiedere un’altra grazia a Vostra Maestà proprio nel giorno della grande resurrezione di Tartufo, resuscitato dalle vostre bontà? Questo favore mi ha fatto riconciliare con i devoti; l’altro potrebbe farmi riconciliare con i medici. Per me son troppe le grazie che chiedo nel medesimo tempo; ma forse non lo sono per Vostra Maestà, e pertanto aspetto con una certa rispettosa speranza la risposta alla mia supplica.

Note

[1] Lo stesso procedimento viene utilizzato spesso da Euripide per la risoluzione dei suoi drammi, quali ad esempio Medea (terzo premio alle Grandi Dionisie del 431 a.C.).

Autore

  • Rappresenta l'anello di congiunzione tra l'attore e il critico teatrale, panni che indossa uno sopra l'altro come maglioni in un giorno uggioso. Si sta formando alla Scuola di Teatro dell'Arsenale e nel tempo libero studia Lettere Moderne in Statale.