Intervista ad Alberto Garlandini – ICOM2016

A cura di Ilaria Iannuzzi, Marco Saporiti, Pietro Tedeschi

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In occasione della Conferenza Generale di ICOM (International Council of Museums), dal 3 al 9 luglio 2016 sono a Milano oltre quattromila professionisti museali per discutere di “Musei e paesaggi culturali”. Lo scopo è riflettere sulla nuova responsabilità civile e universale di cui deve essere investito il Museo, ovvero conservare e valorizzare il patrimonio materiale del territorio in cui è integrato, diventandone così interprete privilegiato.
Ne parliamo con Alberto Garlandini, presidente del comitato organizzatore di ICOM Milano 2016.

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Da dove nasce la scelta da parte dell’Italia di proporre questo tema? Che tipo di riflessioni sono state fatte?

Questo tema è stato scelto perché i musei sono cambiati in maniera radicale. Mentre per secoli il museo ha trovato la sua ragion d’essere e il fuoco della sua azione nelle collezioni e nella loro conservazione, valorizzazione ed esposizione, oggi, pur mantenendo questo aspetto sempre presente e fondamentale, il centro dell’azione si è spostato dalla collezione al visitatore e alla relazione che le collezioni hanno con il contesto. Spostare l’attenzione sul visitatore vuol dire organizzare il museo in maniera diversa: esso mantiene le collezioni e le promuove, ma rimane soprattutto al servizio del visitatore, della società e dei suoi sviluppi. Questo vuol dire cambiare atteggiamento nei confronti del visitatore: il museo non può aprire le porte la mattina e chiuderle la sera, ma deve entrare in comunicazione con il visitatore e la comunità, il territorio e il paesaggio che lo circonda. Il pubblico del museo è cambiato radicalmente. Una volta sia il direttore sia il visitatore facevano parte dello stesso strato sociale, avevano lo stesso linguaggio e possedevano lo stesso livello culturale. Oggi tutto questo è completamente cambiato e il museo deve entrare in comunicazione con la società nel suo complesso, deve aprirsi a ciò che gli sta intorno, prima di tutto alla società. D’altra parte, il museo non si spiega se non come espressione della comunità.

Per capire la storia del museo e delle collezioni bisogna entrare in sinergia e in relazione con le collettività che li hanno creati. Il paesaggio culturale è qualcosa in più sia del concetto di comunità sia del concetto di territorio. Parlando di paesaggio culturale si fa riferimento alla Convenzione Europea del Paesaggio, approvata nel 2000 a Firenze, nella quale si parla per la prima volta di paesaggio non in termini di semplice valore estetico, ma come un insieme che la società identifica quale parte della propria identità. Il paesaggio, dunque, è un dato contemporaneo in continua evoluzione, perché è un’interazione costante tra l’essere umano e la natura. Questo è il motivo per cui nella conferenza parliamo di paesaggi culturali. Il museo deve assolutamente cercare di dare un significato ed evidenziare le relazioni materiali e immateriali tra le sue collezioni e ciò che c’è sul territorio, occuparsi del patrimonio culturale e naturale che ha intorno, interagire con le comunità nel modo in cui si stanno trasformando e con le sedi decisionali in cui i loro rappresentanti effettuano le scelte sul futuro e sullo sviluppo sostenibile della società, del territorio e del paesaggio, affinché questo insieme trasmetta un’identità.

Nella Convenzione Europea del Paesaggio, per paesaggio culturale si intende «una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle persone, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni». Cosa succede però quando la specificità di un territorio non viene percepita dalle persone? Talvolta una comunità ha difficoltà a riconoscere il suo paesaggio culturale, anzi, talvolta ciò assume un carattere distruttivo. Quindi, quale potrebbe esser il destino dei paesaggi “così come non sono percepiti dalle persone”? Potrebbe essere il Museo ad assumersi la responsabilità di tale destino ed è auspicabile che lo faccia? Prevede che questo sia un punto che verrà dibattuto all’interno della conferenza e che alla discussione partecipino gli esperti museali provenienti da quei territori culturali a più alto rischio?

Ciò che non si percepisce non si potrà mai proteggere. Un patrimonio culturale deve essere percepito dalla collettività, come anche gli interventi che servono per valorizzarlo e tutelarlo e non solo dallo Stato, dalle amministrazioni o da un piccolo gruppo di eletti.

La distruzione violenta del patrimonio culturale è un fenomeno che nella storia c’è sempre stato ma che si è aggravato nella seconda guerra mondiale e, dopo di essa, non si era più visto con particolare virulenza, a parte qualche episodio come nei Balcani. Ora stiamo assistendo a forze politiche – l’Isis e non solo – che fanno della distruzione del patrimonio culturale una caratteristica della loro azione. Il patrimonio viene correttamente visto da queste forze come fortemente identitario, quindi lo distruggono per andare a colpire una comunità nella sua identità culturale. Per cui oggi ci troviamo di fronte non solo a episodi di distruzione del patrimonio culturale come effetto collaterale di guerre (che c’è sempre stato e sempre ci sarà), ma anche all’obiettivo diretto di distruggere parte del patrimonio culturale per colpire le identità. Questo aspetto preoccupa tantissimo ICOM, l’UNESCO e la comunità internazionale. È una barbarie che purtroppo, una volta perpetrata, non può essere più sanata. Su questo discutiamo molto e i musei sono a disposizione per poter intervenire quando ciò è possibile, possiamo agire appena lo scontro fisico è ridotto e ci permette di intervenire per recuperare e restaurare il possibile, e soprattutto fare una grande battaglia culturale per isolare posizioni di questo tipo. Il direttore di Palmira [Khaled al-Asaad (1932-2015), N.d.R.] è stato ucciso perché era il simbolo di ciò che il museo è: memoria del valore di una comunità. ICOM lavora a stretto contatto con le varie forze a livello internazionale che intervengono prima, durante e dopo, per sanare il sanabile.

D’altro canto, ci sono comunità che in parte non si riconoscono nel proprio patrimonio cultuale. In questo caso i musei non possono sostituirsi a esse, non ne hanno né il potere né la capacità; però hanno una grande responsabilità, che è quella di tenere sempre presente l’importanza del patrimonio culturale e fare sentire la propria voce: cercare non di “lanciare maledizioni” dalla propria torre d’avorio, ma di aprire relazioni sempre maggiori con il territorio. Dobbiamo avere la capacità di interagire con le comunità e i suoi rappresentanti, trovare il linguaggio adatto e sapere che i processi sono di lungo periodo, le soluzioni non sono facili ed è solo una grande crescita culturale che permette di salvare il paesaggio. Questo è necessario continuare a fare, un’attività difficile ma continua.

La creazione di un’identità è frutto di una scelta consapevole. La comunità sceglie quali oggetti del proprio territorio – materiali o immateriali – assumere come proprio modello culturale e quali invece scartare; allo stesso modo il museo sceglie di esporre solo una parte selezionata di opere della propria collezione. Quanto questa scelta può influenzare l’immagine che una comunità ha di sé e quanto può falsarla?

Le trasformazioni del paesaggio, le trasformazioni del patrimonio, che sempre avvengono perché sono frutto di relazioni in continua evoluzione, sono naturali. Il problema è come si gestisce il cambiamento.

Bisogna tener conto che, anche se ci sono grandi polemiche in Italia, è normalissimo, anzi necessario, che un museo esponga solo una parte delle proprie collezioni. Un museo senza collezioni non esposte è un museo con difficoltà enormi di sopravvivenza. In primo luogo le collezioni sono sempre in evoluzione e le esposizioni devono rinnovarsi per rendere il museo più attraente. In secondo luogo il museo deve promuovere mostre e per farlo deve avere opere in deposito, per scambiarle con altri musei e permettere loro di allestire mostre. In terzo luogo, ciò che oggi viene considerato di particolare valore dal punto di vista culturale non lo era cento anni fa (e per dir la verità non lo era nemmeno vent’anni fa), né è detto che lo sarà in futuro; per cui le scelte di noi operatori museali sono temporanee, ma le collezioni conservano e non disperdono opere che provengono dalle nostre comunità e che attualmente sono considerate secondarie.

Per quanto riguarda invece le comunità, la cosa è un po’ diversa. Ci sono tradizioni identitarie e altre che vengono dimenticate; se non vogliamo fare dei falsi, il modo migliore per salvaguardarle è quello di tenerle in vita, facendo sì che la comunità le consideri parte della propria identità. Ciò che la collettività non considera più significativo è in pericolo, quindi bisogna fare in modo che essa lo recuperi prima che diventi un fenomeno che, pur documentato dal museo, non sarà più vivo.

La percezione del valore di un paesaggio è mutevole. Per esempio Milano, rispetto al passato, ha acquisito e sta acquisendo una nuova consapevolezza del suo rapporto identitario con l’ambiente. A inizio Novecento stava avvenendo una distruzione di molti monumenti e aree di interesse storico perché non erano considerati fondamentali e rappresentativi per la città (rientra tra questi addirittura il Castello Sforzesco, che era legato a percezioni negative come il dominio straniero); oggi invece si nota una forte e accresciuta sensibilità per le specificità materiali e valoriali della città (mi viene in mente, per esempio, un gran numero mostre fotografiche sul recupero una Milano nascosta, che si vuole rivelare). Quali fattori intervengono a modificare la valutazione di un patrimonio culturale? 

Sono fattori prima di tutto culturali, poi economici, sociali, ecc. Pensate soltanto ai centri storici: erano la parte più viva delle nostre comunità, storicamente, magari erano in condizioni fatiscenti, ma erano una parte viva della città, dove si svolgeva l’interazione sociale, culturale, economica. C’è stata una fase storica, il dopoguerra, in cui la gente scappava. Si cercava la casa nuova, si cercava di vivere con le comodità della vita contemporanea e si pensava che nell’edificio storico, nel centro storico, ciò non fosse possibile (e, di fatto, a quei tempi non era possibile). Peraltro, anche i costi del recupero del patrimonio edilizio storico erano superiori al costruire case nuove e in più c’era l’interesse economico a costruire case nuove che incise nel far credere alle comunità come la vita in queste nuove “città satellite” fosse più attraente e valida che non nel centro storico. Questo portò all’abbandono dei centri storici e in certi casi alla loro distruzione fisica o a quella del loro tessuto sociale; vennero consegnati agli strati marginali della società, divenendo spazi di emarginazione e non di vita sociale. Questo circolo vizioso viene invertito in un circolo virtuoso quando ci sono degli interventi culturali significativi. Da questo punto di vista è interessante vedere come da varie parti del mondo, ad esempio, una scelta della comunità di costruire un museo in parti della città emarginate ha invertito il processo, perché ha evidenziato il valore culturale anche di aree in abbandono, rendendole interessanti. Il recupero convince altra gente a tornare e innesca un processo culturale, e poi secondariamente economico. Pur parlando di comunità, all’interno della comunità ci sono persone che hanno responsabilità maggiori: le persone di cultura, che hanno la responsabilità di evidenziare cose che altri non riescono in un primo tempo a capire e apprezzare, i membri della classe dirigente, che sia culturale, sociale, economica, hanno la responsabilità di prendere decisioni a volte non capite, ma che innescano processi positivi.

Quali passi stanno compiendo attualmente l’amministrazione e gli enti museali per promuovere l’interesse verso la storia della città e valorizzare situazioni urbane di rilevanza socio-culturale? 

Milano è una città un po’ particolare. In Italia è la città che più si trasforma, da sempre è una città in continua trasformazione, in cui anche il paesaggio urbano è molto cambiato, in cui gli aspetti storici sono inseriti in un tessuto in continuo cambiamento. È sempre stata anche una città molto aperta culturalmente.

Il Museo Archeologico ha rinnovato le proprie collezioni, ma anche recuperato delle parti romane e altomedievali che erano in totale abbandono, che non facevano parte direttamente dell’edificio museale e delle proprie collezioni. Si è lavorato per decenni per recuperarle e riaprirle al pubblico. È stata aperta recentemente l’area della Milano imperiale. Il museo condusse una battaglia culturale affinché gli scavi continuassero e si eliminasse il parcheggio che era stato fatto per recuperare l’area. Ci sono voluti decenni. In altre parti del mondo può forse avvenire che una decisione dall’oggi al domani cambi subito le cose, io però sono scettico verso questo tipo di decisioni, perché la storia si costruisce giorno per giorno con un cambiamento culturale lento e continuo, delle popolazioni e anche dei governanti. Da noi, per esempio, in Piazza Missori c’è la cripta della chiesa [di San Giovanni in Conca, N.d.R.]. La chiesa venne abbattuta nel dopoguerra, perché era necessario creare una via di scorrimento – via Larga – che poi non venne completata e fortunatamente non si abbatté tutto il centro storico per farla. I musei sono stati protagonisti di battaglie culturali: La Brera di Russoli si batté per recuperare un insieme in abbandono del quartiere e del complesso monumentale, i musei storici furono protagonisti del salvataggio del Castello Sforzesco, grazie soprattutto a Beltrami. Per ognuna di queste scelte ci fu un’interazione col territorio, per incidere sul tessuto intorno al museo e per una crescita di consapevolezza generale. Chi ha delle responsabilità culturali non deve chiudersi nelle proprie stanze, ma deve combattere e usare le proprie risorse per difendere ciò che ha intorno.

Come si dovrebbero rapportare le istituzioni museali nei confronti di quegli ambienti lontani dalla vita storica e culturale della città, periferie urbane quali Bovisa o Quarto Oggiaro 

In realtà queste aree hanno una storia enorme. La Bovisa non è valorizzata, ma ha una storia come quartiere operaio ed era una zona vivissima della città. Con la deindustrializzazione era giunta a una condizione di abbandono totale, ma il fatto di portarvi l’Università – quindi una scelta culturale – fu una scelta lungimirante, i cui effetti sono già visibili. Ha ridato vita al quartiere, che non è più una zona emarginata e anzi ha delle grandi prospettive di sviluppo, da cui dovrà venir fuori non solo la proiezione sul futuro ma anche la capacità di trovare un fil rouge tra quello che oggi è la Bovisa e quello è stata. Si sta discutendo del Gasometro che c’è lì, che sarà sicuramente destinato ad attività culturali.

I musei non fanno tutto, sono istituzioni culturali importanti, che assieme agli altri istituti culturali devono rivitalizzare il territorio. Quarto Oggiaro è certamente una zona periferica, ma ha una storia interessante, e anche un tessuto urbano interessante, che deve essere valorizzato. La Bicocca era una zona come la Bovisa e Quarto Oggiaro, di grandissima industrializzazione e oggi totalmente deindustrializzata, ma è stata recuperata con alcune istituzioni importanti come il Teatro [degli Arcimboldi, N.d.R.] e l’Hangar Bicocca, uno spazio espositivo fra i più interessanti a mio avviso nell’ambito dell’arte contemporanea. Il passato si sposa col presente e col futuro, se si ha la lungimiranza di vedere queste relazioni. Una persona di cultura deve essere capace di vedere in spazi completamente rinnovati gli elementi che ci dimostrano che non sono zone abbandonate, di vedere queste relazioni. Io sono ottimista. Abbiamo recuperato brillantemente i centri storici e dobbiamo esserne coscienti per continuare su questa strada, perché abbiamo tutte le possibilità per evitare la costruzione di periferie abbandonate a sé come purtroppo è avvenuto in tante città europee, con conseguenze negative sulle comunità.

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