Hans-Jürgen Krahl e l’intelligenza in lotta

Le «contraddizioni in processo» del lavoro culturale



Sabato 11 marzo, h. 18 verrà presentato il libro L’intelligenza in lotta presso la Libreria del Leoncavallo (Via Antoine Watteau, 7, 20125 Milano MI).

Hans-Jürgen Krahl, allievo geniale e prediletto di Adorno, è un maestro della Teoria critica contemporanea. Morto nel 1970 a soli 27 anni in un incidente stradale, ci ha lasciato un corpus di scritti che, sebbene non organico – si tratta perlopiù di esercitazioni universitarie e interventi politici legati alla sua attività di leader studentesco della SDS[1] a Francoforte –, pongono una serie di questioni teoriche e politiche che continuano a interrogare il nostro presente e le sue alternative.

Proprio per questo, insieme a Francesco Raparelli, abbiamo deciso qualche tempo fa di rendere di nuovo disponibili alcuni suoi scritti, curando l’antologia dal titolo L’intelligenza in lotta. Sapere e produzione nel tardocapitalismo uscita nel 2021 per Ombre corte[2].

Krahl, nato nella Bassa Sassonia nel 1943, e cresciuto nella tradizione del cristianesimo conservatore, nei primi anni Sessanta definisce la sua adesione al socialismo marxista e, proseguendo gli studi universitari a Francoforte, nel giro di poco tempo diventa uno dei leader del Sessantotto europeo.

Tra i suoi scritti forse il più celebre, tradotto pubblicato la prima volta in italiano sui “Quaderni Piacentini” nel 1971, è quello che si intitola “Tesi sul rapporto generale tra intellighenzia scientifica e coscienza di classe proletaria”, scritto nel 1969[3].

È qui che Krahl, in anticipo sui tempi, intravede chiaramente quella straordinaria trasformazione produttiva che di lì a poco avrebbe coinvolto tutto quanto il sistema produttivo dei paesi occidentali, segnando il passaggio dal fordismo al cosiddetto post-fordismo.

Ossia, registra quel processo che contemporaneamente determina il tramonto della classe operaia novecentesca tradizionalmente legata alla fabbrica e al lavoro manuale, e l’emergere di una nuova forza produttiva che fa del lavoro intellettuale il principale mezzo di produzione, e della metropoli lo spazio di una valorizzazione diffusa sul territorio.

Una trasformazione che politicamente potremmo sintetizzare, con una semplificazione, come il passaggio dalla fabbrica alla metropoli, dal materiale all’immateriale, dal lavoro manuale al lavoro intellettuale.

Si tratta di un processo complesso che non va confuso con una rigida e ingenua dicotomia tra due condizioni contrapposte – come se il lavoro manuale tramontasse del tutto o come se nel lavoro manuale non fosse compreso da sempre anche il lavoro intellettuale e viceversa – ma va compreso come una “tendenza” che rovescia il rapporto tra i due termini a favore della generale affermazione di un lavoro intellettuale che si fa di massa e che diventa, nei paesi a capitalismo avanzato, il principale protagonista del processo produttivo.


Basta pensare alla rivoluzione elettronica degli anni Settanta per intuire meglio l’analisi sviluppata da Krahl sulla completa integrazione del lavoro intellettuale, tradizionalmente inteso come una attività libera slegata da ogni finalità produttiva, all’interno del processo di valorizzazione capitalistica.

Ecco perché il lavoro di Hans-Jürgen Krahl risulta particolarmente importante per capire la condizione del lavoro intellettuale contemporaneo, le sue origini e le sua contraddizioni. Insomma, se tradizionalmente il cosiddetto lavoro intellettuale era stato reso possibile grazie una ingiusta divisione del lavoro – separazione tra i due tipi di attività e subordinazione del lavoro manuale a quello intellettuale che lo doveva dirigere – e se questo lavoro intellettuale era appannaggio di una ristretta minoranza privilegiata che si suddivideva a sua volta il compito di organizzare e dirigere il lavoro manuale da un lato, e creare forme che dessero senso al mondo, dall’altro (di qui la nascita del ceto intellettuale e artistico in senso stretto), ora questa configurazione politico-culturale iniziava a disgregarsi a favore di una diffusione di massa del lavoro intellettuale che perdeva le sue caratteristiche di privilegio e improduttività, facendosi condizione generale della produzione e dell’estrazione del valore.

Questo comportava, come abbiamo già detto, il tramonto della classe operaia tradizionale, ma contemporaneamente anche la trasformazione del ceto intellettuale classico che perdeva le sue caratteristiche di esclusività e separatezza per farsi esso stesso classe operaia di nuova generazione, ovvero forza-lavoro post-moderna.

Un processo non privo di resistenze e contraddizioni, all’interno del quale, rilevava giustamente Krahl, gli intellettuali non avrebbero rinunciato tanto facilmente alla loro condizione privilegiata, rimpiangendola e rivendicandone la legittimità ancora per molto tempo. Allo stesso tempo questa nuova condizione – che in Italia veniva rilevata, almeno in parte, nelle “Tesi della Sapienza” che non a caso insistevano sul ruolo degli studenti come forza-lavoro in formazione e quindi rivendicavano per questi ultimi un salario[4] – poneva il rompicapo tuttora irrisolto dell’organizzazione politica.

Sul primo aspetto, ovvero il ruolo e la trasformazione degli intellettuali tradizionali, risulta particolarmente interessante il confronto tra quanto scritto da Krahl e quanto intuito negli anni Sessanta in Italia dallo scrittore Luciano Bianciardi, straordinario narratore del lavoro culturale nella Milano del boom economico, e allo stesso tempo protagonista lui stesso di quella rivendicazione nostalgica che si diceva poco fa.

Bianciardi, autore di una famosa Trilogia della rabbia – che comprende Il lavoro culturale (1957), L’integrazione (1960) e il suo romanzo più famoso La vita agra (1962)[5] – intuisce, come rilevato da Paolo Virno in una nota del suo saggio Virtuosismo e rivoluzione[6], il fatto che il lavoro intellettuale classico sta tramontando, che la classe operaia tradizionale inizia a scomparire, che tutto il lavoro sta diventando tendenzialmente lavoro culturale e immateriale, che nel lavoro, qualsiasi esso sia, diventano sempre più importanti le doti retorico-politiche, che bisogna ormai essere capaci di alzare «una nube di polvere possibilmente e poi nascondercisi dentro»[7], ovvero bisogna essere, sempre di più, dei promotori di se stessi.

Insomma più che “fare” concretamente delle cose, diventa importante la capacità che ognuno ha di “raccontare” quello che si fa, occorre essere in grado di “inventarsi” un ruolo e una identità e soprattutto coltivare le public relations.

Queste intuizioni di Bianciardi integrano ulteriormente le analisi di Krahl, ma al tempo stesso lo scrittore di Grosseto rimane imprigionato all’interno del ruolo classico dell’intellettuale del quale rimpiange la condizione: l’integrazione di cui parla nei suoi scritti è una denuncia, appunto, dell’impotenza della voce critica dell’intellettuale che ormai, nella società dello spettacolo, tende a diventare nient’altro che una caricatura grottesca a uso e consumo dell’industria culturale. L’intellettuale diventa un imprenditore di sé stesso che deve riuscire a rimanere a galla all’interno di un sistema che comprende strutturalmente una dose di dissenso che non fa altro che rafforzare il sistema stesso.

Hans Jürgen Krahl


Qualcosa di simile, molti anni dopo, sarà rilevato anche da Mark Fisher in Realismo capitalista[8], quando, parlando del ruolo dei Nirvana e di Kurt Cobain sottolinea come oggi il successo di una critica radicale allo stato di cose esistente, coincida quasi sempre con l’integrazione e quindi il fallimento spettacolare della critica stessa.

Insomma seguendo le analisi di Bianciardi e Fisher la questione sembra essere quella dell’impotenza della critica e, soprattutto per Bianciardi, il rimpianto per una “funzione” che ormai sembra andata perduta. Ma in questa rivendicazione si annida anche una regressione in direzione di quel «parlare per gli altri» che Foucault indicava come una delle cose più «indegne» che ci potessero essere[9], ovverosia proprio la funzione dell’intellettuale classico che Krahl, materialisticamente e senza nostalgie, dava per esaurita in virtù di una trasformazione radicale del processo produttivo.

Il primo rompicapo quindi, non risolvibile dentro nostalgie regressive, è quello di come essere «dentro e contro», ovvero dentro il sistema della produzione culturale senza rinunciare a una critica all’esistente. Potremmo anche dire che si tratta di come essere “mainstream” senza esserlo, o meglio come usare le occasioni offerte dal sistema per rovesciale contro il sistema

Questa condizione richiederebbe anche una analisi approfondita, che qui non possiamo fare, di come si stia trasformando il sapere – anche in virtù della rivoluzione digitale e quindi del tramonto della parola scritta che dal XVI secolo in poi ha egemonizzato la costruzione della conoscenza – e di cosa possa significare oggi la critica, o meglio la post-critica.

Il secondo rompicapo, invece, è quello che Krahl indicava come la necessaria organizzazione politica di una nuova forza-lavoro intellettuale che oggi si presenta come incredibilmente frastagliata e articolata al suo interno. Se pensiamo al lavoro intellettuale oggi, ci rendiamo conto che questo comprende al suo interno figure disparate, con formazioni, esigenze e obiettivi molto diversificati. Come tenere insieme i cosiddetti lavoratori della cultura, dello spettacolo e dell’arte: designer, scrittori, grafici, web content editor, social media manager e lavoratori digitali in generale, influencer, artisti, ballerini, attori, scenografi, giornalisti e sceneggiatori, per dirne solo alcuni.

Se queste sono alcune delle contraddizioni in processo più evidenti del lavoro culturale – Marx nei Grundrisse parlava del capitale come contraddizione in processo sottolineando l’ambivalenza tra la strutturale riduzione del tempo di lavoro necessario e la persistenza del tempo di lavoro come unica misura della ricchezza[10] ‒ oggi più che mai sembra necessario riuscire a costruire una qualche forma associativa che organizzi queste figure e le loro lotte, così come è necessario abbandonare ogni forma di nostalgia per ruoli “indegni” e fortunatamente tramontati. Ma risolvere il rompicapo dell’intellettualità di massa non è una questione teorica, è questione politica per eccellenza e quindi appartiene ai movimenti e alla loro capacità di costruire conflitto.

di Nicolas Martino

Note
[1] Federazione socialista tedesca degli studenti.
[2] Hans-Jürgen Krahl, L’intelligenza in lotta. Sapere e produzione nel tardocapitalismo. Introduzione e cura di Nicolas Martino e Francesco Raparelli. Postfazione di Detlev Claussen, ombre corte (2021).
[3] Hans-Jürgen Krahl, Tesi sul rapporto generale tra intellighenzia scientifica e coscienza di classe proletaria in “Quaderni Piacentini” n. 43 (1971), pp. 106-119, ora in Id., L’intelligenza in lotta, cit., pp. 90-115.
[4] AaVv, Le tesi della Sapienza, in «Il Mulino», n. 5-6 (1967), pp. 375-391.
[5] I tre romanzi più famosi di Bianciardi sono stati recentemente pubblicati tutti insieme con il titolo Trilogia della rabbia, con prefazione di Francesco Piccolo, Feltrinelli (2022).
[6] Cfr. Paolo Virno, Virtuosismo e rivoluzione in L’idea di mondo. Intelletto pubblico e uso della vita, Quodlibet (2015), pp. 122-125.
[7] Luciano Bianciardi, Trilogia della rabbia, cit., p. 331.
[8] Mark Fisher, Realismo capitalista, Nero edizioni (2018). In particolare le pp. 38-42 dove Fisher, parlando dei Nirvana, sottolinea il ruolo della “precorporazione” della critica da parte del sistema.
[9] Cfr. la conversazione di Gilles Deleuze con Michel Foucault “Gli intellettuali e il potere” (1972), ora in Gilles Deleuze, L’isola deserta e altri scritti (1953-1974), Orthotes (2022), pp. 281-290.
[10] Karl Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, Vol II, La Nuova Italia (1968), p. 402.

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