PLAYBACK: intervista a Sathya Nardelli

Nessuno può fallire con un’edera. È questo il sottotitolo di PLAYBACK, spettacolo di Sathya Nardelli, attrice e insegnante di teatro, andato in scena il 16 gennaio al LatoB per la rassegna dei Lunedì Teatrali.

Quando incontro Sathya per un’intervista al Colibrì di Milano, capisco subito che per lei il punto non è fallire o vincere, ma arrivare all’essenziale e raccontarlo. Ordina un ginseng grande, ironizza sul mio doppio espresso, poi calcola la mia età dall’anno di nascita e subito puntualizza: non è vero, a differenza di quanto affermo nello spettacolo, che non so la tabellina dell’8, non è vero che non so calcolare il netto dal lordo. Quando ho portato PLAYBACK a Bolzano – mi racconta – uno spettatore mi ha proprio detto: «non so se crederti». No, non credermi.

PLAYBACK è un monologo, ma sarebbe forse più esatto dire che si tratta di un dialogo con il pubblico. Com’è nata l’idea alla base del testo? Portaci con te nel tuo laboratorio, nel cantiere dell’autore-attore.

Il tema della cura e della salute mentale è per me centrale. Per certi versi, è da anni che stavo creando PLAYBACK: pensavo ai contenuti, sviluppavo alcuni nuclei, riflettevo sulle modalità più adatte a raccontare un tema personale in maniera universale. Allo stesso tempo, però, è anche vero che l’ho scritto in pochi giorni. Si è trattato di unire i nuclei narrativi già esistenti e individuare la mia voce: ironica, essenziale, personale senza essere personalistica.

Quali nuclei dello spettacolo sono nati prima della scrittura finale, e in che modo?

L’idea di un passaggio che spiegasse le ragioni anatomiche della tricotillomania attraverso un meccanismo surreale e fantastico è nata in un laboratorio con Liv Ferracchiati (autore, regista e performer). È con lui che ho cercato di imparare il difficile equilibrio tra mettere in scena qualcosa di privato, personale, e la necessità di farlo in maniera universale, mai patetica. Il gioco sulle incapacità e le ansie che riguardano tutti, in cui il pubblico si ritrova a danzare con me raccontandosi a sua volta, è nato da un’osservazione spaziale, direi quasi scenica: quando ho esordito a Trento, lo spazio Donde, senza il cui sostegno PLAYBACK non avrebbe mai preso forma, aveva una pavimentazione con enormi piastrelle bianche e nere, che mi ha dato l’idea del movimento corale.

Qual è il rapporto tra privato e universalizzazione? In che modo Ferracchiati ti ha influenzato rispetto ad esso?

Liv Ferracchiati nei suoi lavori dimostra come sia possibile recuperare un classico dialogandovi senza rinunciare a dare il proprio contributo personale, anche auto-ironico. Il mio lavoro non ha a che fare con i classici, ma tenta di fare qualcosa di analogo: instaurare una relazione tra universale – gli archetipi o i classici – e personale – i traumi delle nostre vite, ciò che davvero sappiamo e su cui possiamo essere veri e quindi credibili.

Quale ruolo ha avuto lo spazio Donde di Trento nella creazione di PLAYBACK?

Andrea Deanesi e Natasha Belsito, i fondatori, mi hanno dato grande fiducia, permettendomi di creare e provare all’interno dei loro spazi. Forse davvero PLAYBACK non esisterebbe se non fosse per loro. Il fatto che Donde sia uno spazio ibrido, in cui ci sono corsi di danza, corsi di teatro, una corte verde (che mi ha ispirato anche per il tema delle piante, presente nello spettacolo), ha senza dubbio alimentato l’interdisciplinarietà del mio spettacolo.

In scena un tuo tratto distintivo è proprio la capacità di unire linguaggi artistici differenti, coniugando vari codici espressivi. A cosa è dovuta tale scelta?

Credo che non esista, o non debba esistere, una separazione tra le varie forme d’arti. L’io finzionale di una narrazione, la presenza di un patto con il fruitore, l’importanza del corpo e delle sue manifestazioni, accomuna ogni forma artistica, perché ha a che fare con i sensi. Nel mio spettacolo, ad esempio, anche il colore del palloncino e dei miei vestiti, è scelto per avere un determinato impatto. Ha a che fare, ancora una volta, con l’essenzialità della voce, paradossalmente: essa è essenziale se è funzionale. Ogni scelta che l’autore fa deve esserlo.

La forte carica ironica dello spettacolo, e la stessa morfologia scenica, con un unico attore in dialogo con il pubblico, può ricordare la stand-up comedy. Quali sono, secondo te, somiglianze e differenze tra PLAYBACK e tali forme di spettacolo?

Secondo me la stand-up comedy è una forma di narrazione efficace ed estremamente attuale, capace di creare un aggancio con il pubblico. In questo senso, credo sia stato importante nel mio spettacolo recuperarne la carica attrattiva. Tuttavia il mio lavoro non è una narrazione verticale, di sola voce e microfono, come accade nella stand-up. Io cerco di unire la stratificazione poetica, l’ironia della stand-up comedy e l’uso di diversi linguaggi, tra cui quello corporeo.

Esistono, nel panorama attuale, artisti comici della stand-up che ti hanno ispirato o che hanno portato sul palco tematiche affini alle tue?

Seguo e apprezzo Hannah Gadsby, comica, scrittrice e attrice australiana. Lei racconta, basandosi sul dato autobiografico, le discriminazioni e le violenze di genere. Racconta traumi ed esperienze di violenza subite in prima persona. A differenza di una trasposizione teatrale, in cui la biografia viene trasfigurata dalla finzione, il monologo comico è più fedele all’esperienza personale.  Tuttavia lei stessa riflette su questo rapporto di veridicità e su quanto sia complessa l’autoironia: «I built a career out of self-deprecating humor, and I don’t want to do that anymore. Do you understand what self-deprecating means when it comes from somebody who already exists in the margins? It’s not humility. It’s humiliation.»[1]

Pensi che PLAYBACK possa adattarsi anche al contesto di un teatro tradizionale? Quali sono, secondo te, i luoghi in cui uno spettacolo come il tuo, privo di quarta parete, può esprimersi al meglio?

Secondo me il teatro di per sé non impedisce la realizzazione di spettacoli come il mio, è solo una questione culturale. Basta fare scelte consone al testo che si porta in scena: se si vuole che il pubblico interagisca, ad esempio, la scelta delle luci è importante. Per PLAYBACK non escludo né i circoli, né le associazioni culturali, né i teatri; forse sono in parte meno adatti i locali, perché richiamano un contesto differente, più affine alla stand-up comedy.

In quale misura può aver senso parlare di autofiction in riferimento alla tua opera?

È esattamente un’autofiction teatrale. Credo che la nostra generazione abbia bisogno di parlare di ciò che vive realmente, di situazioni concrete e vicine, con una voce contemporanea. Allo stesso tempo cerco però di soppesare con cura l’urgenza di portare temi personali in scena: la molla della rabbia personale, delle sofferenze vissute, è fondamentale, ma non ci si può ridurre a ciò. Racconto ciò che so, la mia verità emotiva, senza però mai sfociare nel biografismo o nel documentarismo.

Qual è il pubblico ideale del tuo spettacolo? C’è uno spettatore a cui pensi, quando entri in scena?

Vorrei non risponderti “tutti”, comprendo i limiti di una risposta così generica, ma forse, se non lo facessi, ti mentirei. La verità è che secondo me adotto un linguaggio estremamente semplice che arriva a chiunque sia interessato ad ascoltare, quindi a chiunque abbia scelto di essere uno spettatore a teatro. Ciò che fondamentalmente cerco di dire è: prendiamoci cura di noi stessi così da poterci prendere cura degli altri. È un concetto che può arrivare a tutti.

Il tema della cura psicologica e del disagio generazionale è di grande attualità. Pensi che sia ancora un tabù?

Credo sia un tema di cui si parla tanto, ma senza realmente problematizzare in maniera politica la questione. Oggi, ad esempio, ho scoperto che persino Chiara Ferragni nelle sue stories Instagram invita i suoi follower ad andare dallo psicologo, segno evidente di quanto sia un tema ora in voga. Il problema è che non si parla abbastanza di quanto ancora sia caro e per molti inaccessibile. Misure come il bonus psicologo sono un buon punto di partenza, ma insufficiente. L’incapacità di soddisfare il boom di domande ha messo in luce quanto le istituzioni non abbiano una reale visione del problema. La cura psicologica è ancora, purtroppo, un privilegio.

Qual è il ruolo del corpo nel tuo spettacolo? Come si collega alla scelta di avere una scenografia essenziale?

Non ho i soldi per avere altro, tutto qui (ride, ndr). Scherzi a parte, non è una posizione a priori. Io credo ci siano narrazioni teatrali in cui rinunciare alla pomposità della scenografia e all’abbondanza degli oggetti scenici sia funzionale per ragioni ideologiche, altre in cui sia funzionale alla stessa narrazione teatrale, altre ancora in cui sia invece importante non rinunciarvi. Ciò che importa è appunto che dietro ogni scelta vi sia una ragione. Nel mio spettacolo racconto di corpi – che soffrono, che cadono, che si liberano – con un corpo. È il mio modo di ricordarci che non abbiamo un corpo, siamo corpi.

Ci sono modelli teatrali a cui ti ispiri in questo senso?

Innanzitutto Silvia Gribaudi. È una danzatrice e coreografa il cui linguaggio attraversa arti performative, danza e teatro, indagando proprio il tema del corpo e del dialogo con il pubblico, con grande ironia e bravura tecnica. Fondamentale per la scrittura di PLAYBACK è stato poi il collettivo anglo-tedesco Gob Squad, con cui ho fatto un seminario dal titolo “Just play yourself!”. Poi Antonio Rezza e Flavia Mastrella, esempio di unione tra grande comicità, genialità tematica e funzionalità delle scenografie. Da poco ho inoltre visto l’ultimo spettacolo di Marco D’Agostin, Best regards. Lui è stato capace di rendere universale un tema personale e drammatico, senza pietismi e in maniera commovente.

Come attrice, fai parte dell’associazione Dopolavoro stadera, con cui avete dato vita alla Brigata Brighella. Come moderni cantastorie, portate le fiabe nei cortili di Milano. Anche le tue fiabe affrontano il tema della salute mentale?

Sì, una delle mie fiabe racconta di Gioia Felicini, una bambina meteoropatica che quando piove non esce di casa e si protegge con la sua coperta, Piumina. Non può fare programmi, vive in balia del meteo. Quando un giorno perde la coperta, la cerca ovunque e alla fine trova dei bulli intenti a usarla come palla da basket. Lei stringe i pugni così forte che la terra trema, i bulli scappano ma Piumina non c’è più: vola via, in alto nel cielo, salutandola con un angolino. Gioia non ne ha più bisogno.

In che modo l’esperienza della Brigata Brighella ti ha formato?

Le circa ottanta incursioni nei cortili sono state un’immensa palestra attoriale per me. Erano gli anni del lockdown, i teatri erano chiusi, e noi abbiamo trovato un modo di continuare a far teatro, con le difficoltà imposte dalle misure anti-contagio e con la sfida di far spettacoli dove nessuno si aspettava arrivassimo. Ora, però, quando ci vedono arrivare con le nostre tute blu, ci riconoscono da lontano, e tutti bambini ci accolgono entusiasti.

Sei anche insegnante di teatro per bambini. Qual è secondo te la funzione educativa del teatro?

Quando insegni teatro a qualcuno che non ha come obiettivo diventare un attore teatrale, risulta evidente quale sia la vera funzione dell’esercizio teatrale: scoprire il proprio corpo, acquisire coscienza di sé, creare reti e comunità. È per questo che amo essere un’educatrice teatrale, una formatrice: so che sto, nel mio piccolo, agendo sul reale, e aiutando giovani umani a sviluppare autocoscienza e capacità relazionali.

Sei già al lavoro su nuovi spettacoli?

Sì, una sorta di secondo capitolo di PLAYBACK. Affronto ancora il tema della cura, ma in maniera forse più cruda e diretta, provando a scardinare qualche tabù senza rinunciare all’umorismo. Sto lavorando al testo e una parte di esso ha già acquisito una forma fisica grazie ad un laboratorio con la compagnia Frosini/Timpano, in cui ho sperimentato nuovi tipi di interazione col pubblico. Questa volta, tuttavia, non sarò da sola a lavorare sulla drammaturgia. Collaborerò infatti con la drammaturga Elena Contenta Patacchini.

A un certo punto, Sathya decide che ne ha abbastanza di rispondere alle mie domande. Vuole essere lei a farle a me. Non sopporta che ci sia asimmetria, o forse non sopporta di non essere lei, questa volta, a dirigere il dialogo. Gliene concedo tre, sceglie queste: qual è la tua band preferita? qual è un’abilità particolare di cui puoi vantarti? qual è il tuo segno zodiacale? Sathya è capricorno ascendente toro, e a suo dire è per questo che ogni mattina chiude in maniera troppo vigorosa la caffettiera.

Foto di Alice Stabile

Intervista a cura di Francesca Fulghesu


[1] https://www.americamagazine.org/arts-culture/2018/08/15/humiliation-and-humility-hannah-gadsby. Traduzione: «Ho costruito una carriera sull’autoironia e non voglio più farlo. Capite cosa significa autoironia quando viene da qualcuno che è già ai margini? Non è umiltà. È umiliazione.»

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