Di come un omega diventi pesce

La “ricettività” nel Narciso e Boccadoro di Herman Hesse

pesce omega

Nel monastero di Mariabronn, dietro alla porta custodita da un castagno del mezzogiorno, monaci e scolari insegnano e studiano, si dedicano all’ascesi e alle arti, alla magia e alla preghiera, alla sapienza cristiana e pagana. Fra gli scolari è il giovane Boccadoro, che, destinato dal padre alla vita monastica, ha fatto di essa la propria aspirazione e si dedica allo studio con fervore. Prova dispetto, però, nell’accorgersi che, mentre, seduto al banco, scrive lettere greche sulla pergamena, è qualcos’altro a rapire la sua attenzione. Accade, infatti, che il teta o l’omega che sta scrivendo guizzi d’improvviso e sfugga:

è un pesce, mi ricorda in un attimo tutti i ruscelli e i fiumi del mondo, tutto ciò ch’esiste di fresco e di umido, l’oceano di Omero e l’acqua su cui camminava Pietro; oppure la lettera diventa un uccello, mette la coda, rizza le penne, si gonfia, ride, vola via…[1]

Quando Boccadoro racconta queste fantasie a Narciso, suo maestro e amico, questi sa che una simile confidenza non parla di come uno scolaro distratto occupa i momenti oziosi, ma ha un significato profondo. Egli ha compreso che il ragazzo non diventerà mai un uomo del sapere, dedito allo studio e al pensiero astratto, né sarà un monaco: il suo destino è al di fuori delle mura del convento: «Tu avrai una strada più bella e più difficile della mia»[2], dice a Boccadoro, che dapprincipio non accetta le premonizioni di Narciso, teme anzi di scorgere in sé inclinazioni peccaminose, in contrasto con il suo desiderio di un’esistenza consacrata allo spirito. Non molto tempo dopo, Boccadoro abbandona il collegio per fuggire con Lisa, una sconosciuta il cui amore lo ha travolto un pomeriggio in un prato, strappandolo alla vita del monastero. Con questa fuga la vocazione di Boccadoro, ravvisata dal chiaroveggente Narciso, imbocca il proprio cammino.

uccello theta

Boccadoro diventerà un artista: in che senso questa è la sua vocazione? In un senso, probabilmente, diverso da quello che essa ha per maestro Nicola, presso il quale Boccadoro impara a intagliare: presto, infatti, il giovane abbandona l’officina, dove il maestro credeva di potergli offrire un’esistenza che avrebbe appagato le sue ambizioni e il suo talento. «A che poteva giovare render sempre più abili le sue dita?»[3] Ciò che chiama a sé Boccadoro, ciò che lo attira irresistibilmente lungo il suo destino è il mondo stesso: egli è artista perché è attratto dal mondo, dalla percezione della realtà che in lui trova una risonanza tanto ricca da traboccare. La percezione del mondo avviene in Boccadoro come l’affacciarsi su un profondo mistero.

Perché parlare di mistero? Perché non è solo una fantasia sciolta a vedere o a immaginare in unteta o in unomega un uccello che ride e spicca il volo o un pesce che porta con sé ogni volto dell’acqua: è la cosa che il giovane ha davanti a sé a offrirsi alla sua sensibilità come un invito. Un invito a che cosa? Non solo un invito a immaginare – pesci o uccelli o altro: o, meglio, si potrebbe anche chiamarlo così, ma con ciò non si sarebbe ancora spiegato cosa sia questo invito, da dove provenga e in che direzione tenda. Il pesce che guizza da sotto la penna è già la forma attraverso cui Boccadoro prova a decifrare questo invito, che promette oscuramente una ricchezza di senso non del tutto trasparente, ma che ammalia e che si vorrebbe inseguire. A che cosa invita? – questo è l’interrogativo contenuto nella percezione che ad un tratto è incantata da se stessa e prende la forma di un’esigenza di capire oltre: di un mistero che si annuncia. Le molte donne che Boccadoro ama nel corso della sua vita raminga, le opere d’arte dinanzi a cui si commuove ineffabilmente, ma anche i cocci e le scaglie di pesce che scintillano al fondo di acque melmose sono i volti con cui questo mistero si fa avanti: in ogni cosa egli intravede e cerca la figura della Madre primigenia, la vita che raccoglie in sé la bontà, la pienezza, la gioia e la crudeltà delle privazioni, del dolore, la morte. La vita ha per Boccadoro un volto materno, femminile, poiché nella sua esistenza agisce una sorta di simmetria che vede contrapposti il padre, funzionario imperiale, alla madre mai conosciuta, ballerina e pagana dall’indole selvaggia, l’amicizia di Narciso all’amore delle donne, il Dio nascosto a cui si rivolgono le preghiere, i canti, nel convento di Mariabronn, a questa Madre del creato, il cui sorriso dolce e crudele traluce nelle cose del mondo.

pesce omega 2

La convergenza di dolore e bellezza è l’orma della Madre: essa lo scuote profondamente nella Madonna lignea dalla bocca «fiorente e triste»[4], intagliata da maestro Nicola; lo colpisce nella somiglianza tra la smorfia di dolore còlta sul volto di una partoriente e l’espressione di piacere in una donna al culmine della voluttà; nell’immanenza della morte, cui vanno incontro tutte le cose che si lasciano amare. Boccadoro è avvinto da questo enigma del mondo, dal mistero della bellezza che invita e che promette e che porta con sé inesorabilmente l’orrore, la sofferenza, la fine: la bellezza stessa sembra farsi incontrare in questa commistione di promessa d’altro, come di altre vite meravigliose, ricche, che allettano la fantasia con visioni, e di destinazione al decadimento e al nulla.

La «vocazione artistica» di Boccadoro è dunque una disposizione all’ascolto nei confronti di questo intreccio che compone la vita: è una capacità ricettiva rivolta al mondo, che assume l’aspetto dell’attrazione per un mistero, poiché la promessa contenuta nel darsi delle cose lascia inesaudite tutte le domande che suscita. Sono domande che non ammettono in risposta parole esplicative: lo stesso pensiero puro, nel rivolgersi a questo enigma, non vede più chiaro di quanto faccia chi scorge una lettera d’un tratto involarsi, divenuta uccello; quanto esso comprende più distintamente è piuttosto il proprio limite al cospetto di ciò verso cui si dirige. Per questo Narciso, il pensatore, riconosce in Boccadoro, pur così diverso, un animo affine; per questo, d’altronde, è Narciso a riconoscere l’amico e a comprenderne destino, non il contrario.

Inseguire il pesce, il flutto d’acqua, che sgorga tutt’a un tratto dalla forma che la penna traccia sulla pergamena, non porta a scoprire, a impadronirsi di qualcosa. Non, però, perché la soluzione dell’enigma sia introvabile: la vita è lì, l’enigma è il rivelarsi della «stoffa magica»[5] di cui è fatta. Non si può, però, fare un passo oltre, per averla in pugno e guardarla da tutti i lati. La Madre non si lascia afferrare. È lei, invece, a stringere fra le sue dita tenere e spietate chi la ama perdutamente e la cerca, chi, ascoltando il suo richiamo profondo lungo le vie del mondo, si fa orecchio con cui la vita ascolta se stessa, bocca con la quale canta.

Note
[1] H. Hesse, Narciso e Boccadoro, tr. it. Cristina Baseggio, Mondadori, Milano 2011, p. 56.
[2] Ivi, p. 58.
[3] Ivi, p. 166.
[4] Ivi, p. 141.
[5] Ivi, p. 164.

di Ginevra Salvaggio

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