Egoismo e dissoluzione

Storia di una coscienza sottile in Henry James

james jungle

The Beast in the Jungle fu scritto da Henry James nel 1903, a quanto pare in pochissimi giorni.

Pur nella sua brevità è considerato da molti uno dei capolavori del James maturo, che aveva esattamente sessant’anni quando lo scrisse.

La definizione che di James diede Joseph Conrad descrivendolo come «storico delle coscienze sottili»[1] è, a mio parere, perfetta. James infatti, nel corso della sua opera, sancì progressivamente l’inesistenza del fatto come entità oggettiva e sostituì al realismo dei fatti il realismo della coscienza, servendosi a questo scopo del punto di vista limitato.

Se si parla del tema della dissoluzione così come affrontato dall’I Ching, l’essenza e il comportamento del protagonista di The Beast in the Jungle sono connessi a questa tematica o per perfetta adesione o per contrasto.

Siamo nell’Inghilterra del XIX secolo. Il protagonista di questo racconto, John Marcher, è sempre stato convinto che un evento destinato a segnarlo e sconvolgerlo sia in agguato sul sentiero della sua esistenza; da qui il titolo, metaforico. L’esistenza è una giungla da attraversare in cui si nascondono pericoli o, quantomeno, eventi inaspettati. Infatti Marcher non è sicuro se ciò che gli accadrà sarà terribilmente negativo o al contrario positivo in maniera eclatante.

In visita a degli amici in una tenuta di campagna, Marcher incontra una giovane donna che gli sembra di conoscere; May Bertram ha invece un ricordo preciso di Marcher, poiché lui, dieci anni prima, durante un viaggio in Italia, le aveva confessato il suo segreto, dimenticandosi poi di averlo fatto e della stessa May.

La conoscenza fra John e May dunque si rinnova, diventa amicizia e si tramuta in un legame, sancito dal fatto che May ha promesso all’amico di aspettare con lui il grande evento. Passano gli anni, l’aspetto temporale è volutamente tenuto vago da James, perché gli anni scorrono uguali, e in perenne attesa.

Marcher ha l’impressione che May a un certo punto abbia capito, gli dia velati suggerimenti, senza svelargli esplicitamente le sue conclusioni, finché l’amica muore, privandolo del suo sostegno e della sua comprensione; lasciandolo attonito e smarrito.

Che cosa ne è stato della sua esistenza? Dov’è la Beast? Cosa aveva capito May?

Viaggiare non gli dà la risposta, e neanche vistare assiduamente la tomba dell’amica, unico luogo che gli dà un po’ di conforto.

La risposta però lo coglie, agghiacciante e violenta, vedendo, un giorno, un altro uomo che visita la tomba accanto a quella di May. Il suo viso è scavato, i suoi occhi pieni di dolore, la sua anima straziata, ecco cosa si prova ad aver amato, veramente, e poi ad aver perduto una persona.

Questo è ciò che Marcher non ha vissuto, non ha voluto vedere, non ha provato. La sua condanna è stata non essersi accorto di May, non averla amata, non aver provato alcuna passione, aver dissolto la sua esistenza in una vana attesa. La belva, con le vesti della consapevolezza di questa terribile verità, infine spicca il balzo verso di lui, che si accascia sulla tomba di May.

Ecco dunque che ci si può allacciare alla frase della sentenza I Ching secondo cui «l’energia vitale, quando nell’uomo ristagna […] viene di nuovo dissipata».

Infatti in questo racconto non abbiamo la dissoluzione che porta alla comunanza ma invece la raffigurazione della fase negativa: quella in cui, appunto c’è una stagnazione che, senza consapevolezza, porta alla dissipazione dell’energia vitale e, in questo caso, anche della vita stessa.

james cover

Secondo I Ching la dissoluzione del ristagno si deve operare proprio quando in se stessi si colgono «gli indizi dell’alienamento dagli altri, della misantropia e del malumore», ma come John Marcher potrebbe farlo senza essere minimamente conscio del suo comportamento?

Un’ altra parte della Sentenza recita:

Di operare un tale dissolvimento della durezza dell’egoismo è però capace solo colui il quale, libero egli stesso da ogni recondito pensiero egoistico, permane in giustizia e costanza.

Tuttavia una delle caratteristiche principali del protagonista è proprio l’egoismo e l’incapacità di uscire da se stesso e dalla sua prospettiva; la sua costanza, che però è cieca, si applica solo all’attesa della belva.

E nonostante «dissolvere il sangue significa dissolvere quello che potrebbe arrecare sangue e ferite, evitare il pericolo» non abbia di per sé una connotazione negativa perché tutela sé e gli altri da un pericolo non ancora sopraggiunto, in questo racconto possiamo vedere solo il pericolo evitato: Marcher dissolve il rischio che ci si prende ad amare ancora prima che esso si presenti.

La “morale della favola” non viene esplicitata in The Beast in the Jungle ma può essere identificata da una frase rivolta dal protagonista di The Ambassadors, scritto da James negli stessi anni, a un giovane conoscente:

Vivete il più possibile; non farlo è un errore. Non importa tanto quello che fate in particolare, purché abbiate la vostra vita. Se non avete avuto questa, che mai avrete avuto? Io sono troppo vecchio, troppo vecchio in ogni modo per quello che vedo. Ciò che è perduto è perduto. Non fate errori su questo punto[2].

La great negative adventure[3] di John Marcher, come la definì l’autore stesso, è l’esemplificazione di quello che Agostino Lombardo scrive riguardo a Henry James: «nell’assenza e nel vuoto James aveva già identificato la belva nella giungla appostata sul sentiero dell’uomo contemporaneo»[4].

Il protagonista John Marcher, infatti, è un uomo che a fatica e come avvolto dalla nebbia si muove nella vita, più simile alla figura dell’inetto a vivere che già emergeva nei russi Turgenev e Dostojevskij così come nei romanzi di Italo Svevo.

Ma che cosa comunica, in definitiva, al lettore questo racconto?

L’inetto, a mio parere, è un tipo di personaggio che trasmette sensazioni vicine al grigio, al piatto, alla polvere. James invece rende questo racconto sulla paura di amare e la cecità emotiva, una narrazione di una tensione crescente, di detto e non detto, di presenze fantasmatiche. Due giovani che si incontrano in una tenuta di campagna e che si ricordano con piacere di essersi conosciuti in un viaggio anni prima potrebbero preludere a uno svolgimento ben diverso; e invece l’amicizia rinasce sulla base di un segreto, l’attesa si insinua e diventa sempre più densa, i dubbi rodono l’animo di Marcher e il silenzio di May è al tempo stesso paziente e mortale. E nonostante il punto di vista sia sempre quello di John Marcher, gli occhi del lettore vedono sempre di più la prospettiva di May, soffrendo per lei, innamorata silenziosa e a volte anche per lui, ottuso dissolutore. Lo stile di James al tempo stesso descrive con esattezza e tiene in sospensione, lascia presagire e cambia direzione.

I fantasmi di Henry James non hanno nulla in comune con i vecchi spettri violenti […] Hanno le loro origini dentro di noi. […] Le perplessità lasciare in sospeso, i terrori persistenti: queste sono le emozioni che James coglie[5].

Tutti perdono, in questa storia; May ha amato ma non ha parlato; John non ha vissuto.

Leggendolo, questo racconto mi coinvolse da subito profondamente proprio per la rappresentazione di quanto possa essere pericoloso lo stagnare; di quanto invece sia importante dissolvere le proprie rigidità per evolvere ed essere in comunanza con gli altri. È difficile. Ma nulla di semplice ci si potrebbe aspettare da Henry James.

Note

[1] J. Conrad, saggio riportato da Notes on life & Letters, Dent & Sons, London-Toronto 1924, utilizzato come introduzione a: H. James, La tigre nella giungla, Mondadori, Milano 1993.

[2] D. Izzo, Henry James, La Nuova Italia, Firenze 1981.

[3] M. Bell, “The Inaccessible future: The Beast in the Jungle” in Meaning in Henry James, Cambridge, Mass; Harvard University Press, London 1993, pag. 271.

[4] A. Lombardo, “Sull’arte di Henry James” in H. James, La panchina della desolazione e altri racconti, Bompiani, Milano 1980.

[5] V. Woolf, “I racconti di Henry James” in H. James, Racconti di fantasmi, Einaudi, Torino 1988, pag. XII.

di Clara Arosio

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