Pinocchio, l’odissea di un bambino

Pinocchio fata


Il mondo dell’animazione ha radici profonde quanto quello del cinema stesso. Per motivi legati probabilmente alla possibilità di avere delle linee visive più dolci e di poter creare dei mondi assurdi, magici e irreali, l’animazione ha come audience principale i più giovani.

Per questo motivo la responsabilità di chi scrive per l’animazione è estremamente importante in quanto non vi è alcun dubbio che, in un modo o nell’altro, condizionerà i piccoli spettatori e influirà sul loro modo di vedere una determinata questione.

«Uno dei grandi obiettivi dell’essere un bambino è capire il mondo, ed è un posto spaventoso e complicato. La cosa più difficile al mondo è: cosa fanno gli altri? Come lavorano le persone?» Dice il dottor Caspar Addyman uno psicologo che studia la risata dei bambini come parte dell’Infant Lab at Goldsmiths nel suo libro The Laughing Baby.

Il padre dell’animazione Walt Disney questo lo sapeva eccome. «Se puoi sognarlo, puoi farlo» diceva e questa massima è stata il motore di uno dei film meglio riusciti della Disney: Pinocchio. Nella sequenza iniziale del film si sentono le note che sono poi diventate emblema del marchio Disney, che fanno da sottofondo alla frase ancora più emblematica «When you wish upon a star, makes no difference who you are»[1]. Questa breve frase dà adito a numerose considerazioni che, dato il periodo storico in cui il film è stato distribuito, sembra voler trovare una luce di speranza in un mondo che assomiglia a un’epopea fatta di ingannatori, tiranni, povertà e perdizione. E in questo mondo tutti siamo un po’ come burattini, e Pinocchio ne è l’inequivocabile portavoce.

L’epopea storica del personaggio

Per capire le motivazioni che hanno portato Walt Disney a scegliere questa fiaba in particolare dobbiamo andare alle origini della fiaba stessa.

Circa sessant’anni prima che Walt Disney ne acquisì i diritti, in Italia lo scrittore e giornalista Carlo Collodi inventò un personaggio bizzarro: un burattino di legno nato da un ceppo fatato grazie alle mani di un povero e solo falegname. Ho visto un angelo nel marmo ed ho scolpito fino a liberarlo». Diceva Michelangelo Buonarroti parlando della scultura. E allo stesso modo Geppetto libera sé stesso dalla solitudine, creando un burattino che gli faccia compagnia. È da notare come il padre di Pinocchio, che in questa metafora è il creatore, dia forma a suo “figlio” concependolo senza fili, libero. Ma Pinocchio nelle sue peripezie verrà comunque mosso da numerosi fili invisibili, i fili della società.

Ed ecco che emerge l’intenzione massima dell’autore: l’educazione e la formazione dei più giovani. Le avventure di Pinocchio non nascono in formato drammaturgico ma vengono pubblicate a puntate su un giornale per ragazzi. Collodi infatti ha fatto di questo personaggio un portavoce satirico della società di quei tempi, descrivendo un’infanzia che non ha grande valore, che è soppressa dal mondo, che vive in uno stato di grande difficoltà. La letteratura per ragazzi dell’Ottocento non aveva nulla di Disneyano. Le opere erano crudeli, tristi e oscure. Basti pensare all’Oliver Twist di Dickens. Collodi è stato un autore che ha vissuto in un’Italia divisa, sotto al giogo dell’impero Austriaco e che ha combattuto nella rivoluzione d’indipendenza italiana, perdendo. È comprensibile, dati questi presupposti, che voglia raccontare di una realtà difficile in cui non basta combattere o avere una forte volontà per riuscire a raggiungere i propri obiettivi. È un mondo in cui i fili vengono mossi da un burattinaio potente, un Mangiafuoco spietato che ha a cuore solo il potere e il denaro.

Considerando questa atmosfera, che era ormai consuetudine, non è dunque strano incontrare crudeltà e cattiveria anche nell’opera di Collodi che, a rileggerla da adulti, potrebbe non sembrare tanto allegra (è sufficiente ricordare che nella prima versione il racconto termina con Pinocchio ucciso dal Gatto e la Volpe). L’autore non descrive l’infanzia come una fase felice della vita, ma come un momento in cui sono presenti sofferenza e miseria: Pinocchio, infatti, si ritrova spesso in situazioni pericolose da cui esce all’ultimo momento e senza d’altra parte farne tesoro, senza apprendere la lezione e finisce per ripetere i propri errori, cacciandosi ogni volta in avventure ancora più rischiose.

Altro aspetto che caratterizza il romanzo è il realismo con cui viene descritto il mondo nel suo aspetto più duro e crudele, in cui la vita sociale è segnata dalla violenza, dalla sopraffazione, dalla cattiveria e dall’indifferenza tra le persone. Nelle sue avventure Pinocchio incontra molti personaggi perfidi, sempre pronti a sfruttare le debolezze altrui, e perfino le autorità come i gendarmi e i giudici, invece di tutelare gli inermi, puniscono e incarcerano gli innocenti.

Per meglio comprendere questa “durezza”, bisogna tener presente che quasi nessuno scrittore componeva davvero esclusivamente per il pubblico infantile; alcuni commentatori convengono che Pinocchio, piuttosto che una favola per ragazzi, sia in effetti un’allegoria della società moderna, uno sguardo impietoso sui contrasti tra rispettabilità e libero istinto, in un periodo di grande severità nell’attenzione al formale. L’originalità di Pinocchio è dovuta al fatto che questo realismo si esprime attraverso elementi magici e fantastici.

Pinocchio fascista

In ogni caso, poiché il pubblico del romanzo è composto da ragazzi, Collodi si sofferma molto su aspetti pedagogici, inserendo ammonizioni e riflessioni di carattere moralistico: si invita quindi a rinunciare alle perdite di tempo per dedicarsi allo studio, al duro lavoro e al risparmio, evitare le cattive compagnie. Proprio considerando questi insegnamenti, il libro può essere considerato un piccolo romanzo di formazione. All’inizio Pinocchio non ha rispetto per quello che gli dice il padre Geppetto, né presta attenzione alle raccomandazioni del grillo parlante e finisce sempre per farsi traviare da cattive amicizie e cacciarsi nei guai. Tuttavia, le esperienze negative e i buoni consigli della fata turchina lo conducono sulla retta via: avendo capito l’importanza dello studio e del lavoro, il burattino viene così trasformato in un bambino. Questa sarà la scintilla che permetterà a Walt Disney di sviluppare la sua visione della storia.

Ma prima di diventare il modello positivo e che persegue i propri sogni che tutti conosciamo grazie al capolavoro animato, il burattino più famoso al mondo è passato dai romanzi, ai manifesti politici, alle rappresentazioni teatrali e perfino dentro a qualche canzone. In ogni caso c’è un filo rosso che unisce tutte queste realtà artistiche: l’imprevedibilità della vita e quanto essa possa essere travolgente per il singolo.

Carlo Collodi presenta un Pinocchio che è sempre in bilico tra il positivo e il negativo, e questo squilibrio è dato proprio dall’egoismo e dal personale tornaconto di ogni personaggio che incontra la strada del nostro protagonista. Ma alla fine, grazie all’amore della famiglia e dal suo profondo senso di bontà riesce a redimersi.

Non è la stessa sorte che il Partito fascista gli concede durante gli anni del dominio di Mussolini in Italia. Nel 1922, appena dopo che le camicie nere marciarono su Roma, il disegnatore Giuseppe Petrai ricevette la commissione di creare le avventure e le spedizioni punitive di Pinocchio fascista, in cui il burattino diventata un punitore e un garante dell’ordine pubblico. Per avere appiglio sulle fasce di età più giovani, che marciavano con il nome di Balilla, nel 1926 Pinocchio entra nelle scuole e viene visto come personaggio positivo che è incaricato di scacciare i diversi, i comunisti e purga chi la pensa in modo diverso dal partito. Le nuove monellerie del celebre burattino prendono il nome di «Pinocchio istruttore del negus» e «Pinocchio vuol calzare gli abissini».

Pinocchio: tra narrativa e drammaturgia

Ma tra tutti i possibili personaggi, perché scegliere proprio un burattino?

L’Italia ha una lunga tradizione di maschere e burattini. Tra i più famosi e riconosciuti in tutto il mondo troviamo Arlecchino da Bergamo o Pulcinella da Napoli. Ogni regione italiana ha una sua maschera, diversa nello stile ma uguale nell’intento: dare voce al debole. Pinocchio non è da meno ma a differenza degli altri non ha una localizzazione geografica specifica e soprattutto si vuole rivolgere direttamente all’unico pubblico che non gode di grande considerazione: quello dei bambini.

È vero che Le avventure di Pinocchio fa parte dell’arte narrativa e non di quella drammaturgica. Ma c’è un filo diretto tra Pinocchio e la rappresentazione visiva. Pinocchio è un burattino e in quanto tale è maschera. La maschera è il simbolo antonomastico del teatro, non solo per le icone delle maschere che ridono e piangono, simboli della commedia e della tragedia, ma per un collegamento etimologico molto più profondo. L’uso delle maschere è talmente antico da doversi posizionare prima di qualsiasi altro linguaggio conosciuto. Infatti le maschere venivano utilizzate sin dai tempi del paleolitico e sono da sempre la rappresentazione di ciò che si è o di ciò che non si è.

Nel romanzo Uno, nessuno e centomila Luigi Pirandello spiega come l’uomo si nasconda dietro una “maschera”, per non permettere agli altri di riconoscere la propria personalità. Nella realtà quotidiana gli individui non si mostrano mai per quello che sono, ma assumono una maschera che li rende personaggi e non li rivela come persone. È al limite dell’assurdo pensare che la parola inglese person deriva dal latino persona che significa proprio maschera.

Pinocchio, come spiega la critica letteraria Daniela Marcheschi in Pinocchio, la maschera della verità, viene associato alle bugie, grazie a quella invenzione meravigliosa del naso che si allunga, che ha rimescolato l’immaginario comune infantile riguardo alla pericolosità di dire le bugie che fino a prima del 1881 avevano solo le gambe corte, mentre ora hanno anche il naso lungo. Ma questa metafora porta con sé una verità antropologica ben più grande che è quella del corpo che rivela una verità di sé stessi.

Pinocchio

In questo senso Pinocchio è “maschera” nello stesso modo in cui sono i suoi fratelli Arlecchino, Pulcinella ecc. e che quindi è portatore di trasgressione, ma lo è anche nel senso della maschera (quindi della persona) che rivela la verità.

«Il teatro non è il paese della realtà: ci sono alberi di cartone, palazzi di tela, un cielo di cartapesta, diamanti di vetro, oro di carta stagnola, il rosso sulla guancia, un sole che esce da sotto terra. Ma è il paese del vero: ci sono cuori umani dietro le quinte, cuori umani nella sala, cuori umani sul palco». Questa frase di Victor Hugo sembra particolarmente calzante per Pinocchio, per il quale questa frase assume un significato metalinguistico che si ripete in molteplici ambiti all’interno della stessa storia: il burattino è animato da una forza vitale ma non è un bambino vero, i luoghi della storia sono un accozzarsi continuo tra finzione e realtà, si pensi al teatro di marionette di Mangiafuoco o il macabro paese dei balocchi.

Il mondo in cui vive Pinocchio è un’enorme parodia della realtà in cui l’anticonformismo e la critica alla società si fondono con l’umorismo. Ed è proprio grazie all’umorismo che questa favola è riuscita a farsi strada negli anni diventando opera teatrale prima e film d’animazione dopo.

La psicologia di pinocchio

A cosa è utile una fiaba come quella di Pinocchio? Perché, nonostante il suo essere dura, questa storia è importante per i più piccoli? Per rispondere a queste domande c’è la necessità di chiamare all’ordine due dei più giganti esponenti della psicanalisi: Carl Gustav Jung e le sue teorie sull’inconscio collettivo e gli archetipi e Bruno Bettelheim e il suo lavoro sulla psicanalisi infantile.

Accanto all’inconscio personale, inteso sede dei complessi, Jung individuava un inconscio collettivo composto da archetipi, che sono i modi con i quali funziona la psiche in profondità. È nella fiaba che gli archetipi irrompono e danno forma alle rappresentazioni, raccontando il percorso attraverso il quale la mente giunge alla sua maturazione, liberandosi dai complessi che la mettono alla prova (gli ostacoli, le lotte, le sfide), attraverso la funzione archetipica che invece di annientarla finisce per fortificarla.

Bruno Bettelheim ha interiorizzato la teoria degli archetipi Junghiani e l’ha applicata al mondo della psiche infantile. Secondo Bettelheim il bambino è un attivo partecipe delle storie che sente; grazie infatti alla sua fervida immaginazione e alle sue emozioni riesce a identificarsi con il personaggio. In questo modo recepisce che il racconto lo riguarda in prima persona e riesce a superare le situazioni angoscianti e conflittuali che si trova ad affrontare e si prepara alla vita adulta.

La componente trasgressiva è il motore di molte delle storie ed è anche una tappa naturale della crescita di un individuo. È il punto in cui il proprio sentiero si divide da quello delle figure genitoriali e assume una propria unicità. Nel corso dell’infanzia il Super Io è debole e viene sovrastato dall’Es; Pinocchio mente alla fata e disobbedisce a Geppetto nel corso di tutta la storia, e questo è il motivo principale per cui si caccerà in molti dei guai in cui si trova. La trasgressione permette al personaggio (e quindi di conseguenza al bambino che lo guarda) di interiorizzare ciò che è il mondo adulto, ma al tempo stesso di liberarsi dalla figura onnipresente del genitore.

È il momento in cui il bambino inizia ad avvertire la pericolosità del mondo in cui vive e inizia ad avere una concezione del proprio inconscio.

Pinocchio gatto e la volpe

L’immersione conduce poi a un ritorno all’inconscio extrapersonale collettivo. Nelle storie il bambino sperimenta la forza distruttiva o creativa degli archetipi. In Pinocchio c’è l’incontro con Mangiafuoco, poi il viaggio nel Paese dei Balocchi, viene quindi inghiottito e incorporato dalla balena. Ma una situazione simile la troviamo in altre storie: Cappuccetto Rosso è ingoiata dal lupo, Cenerentola deve ritornare a casa e quindi è “ingoiata” dal giogo della matrigna, e così molte altre.

Nell’immersione i protagonisti incontrano figure fantastiche che sono elementi interni alla mente, non proiezioni ma reali presenze con cui viene in contatto: i complessi dell’inconscio personale e gli archetipi dell’inconscio collettivo. Il Grillo Parlante non è una rappresentazione del Super Io, ma la voce della coscienza in conflitto con i desideri del burattino; il Gatto e la Volpe immagini archetipiche dell’ipocrisia, dell’astuzia e della cattiveria.

Il linguaggio di Pinocchio può essere poco ortodosso per le moderne generazioni, ma l’importanza della sua personale epopea interiore ed esteriore è chiara e utile ai bambini di ogni epoca. Sebbene la storia di Pinocchio sia molto chiara ed esemplificativa, la sua capacità di far maturare chi la ascolta non è unica di questa storia. Infatti è dall’albore dei tempi che l’uomo usa le storie per maturare.

Animare significa dare vita

L’essere umano si è da sempre contraddistinto per le sua capacità intellettuali, ma ciò che gli ha permesso di edificare un mondo nuovo è la sua capacità di raccontare storie.

L’uomo disegna le proprie storie da ben prima che fosse in grado di avere un linguaggio articolato o una società stabile, come spiega l’antropologo e storico Yuval Noah Harari nel suo libro Sapiens. Le prime pitture rupestri ritrovate risalgono a circa 64 mila anni fa. I nostri avi riponevano una profonda fede in quei disegni, come se fossero vivi e potessero effettivamente aiutarli. Nel corso dei millenni i disegni e le storie hanno raggiunto un livello di intreccio sempre più complesso e, come specchio di questa trama sempre più fitta, anche la società è diventata sempre più ampia. Ma al fulcro più centrale di ogni storia c’è la stessa scintilla creativa che permette a un racconto di animarsi e diventare vivo.

Se le storie primordiali assumevano un valore propiziatorio, con il passare degli anni i racconti si sono contraddistinti, cercando di mirare a punti sempre più specifici a scopi informativi, emozionali e talvolta educativi.

Nelle ultime generazioni comunicare con le fasce d’età più giovani ha assunto un ruolo di maggior importanza e si è arrivati alla necessità di edulcorare alcuni concetti e alcuni immaginari che fino a poco prima erano più oscuri o perfino macabri, basti pensare alle fiabe dei fratelli Grimm.

In questo la Walt Disney Company si è fatta carico negli anni di aggiornare sempre di più il suo modo di comunicare ai bambini.

«Animation offers a medium of story telling and visual entertainment which can bring pleasure and information to people of all ages everywhere in the world»[2]. Con questa frase Walter Elias Disney spiegava il motivo per cui ha scelto questo genere di espressione artistica. Non c’è confine nell’animazione. Tutto ciò che è pensabile dalla mente umana è fattibile attraverso un cartone animato. Le leggi della fisica spariscono e l’assurdità vince su tutto.

Personalmente credo che ciò che rende speciale l’animazione più di ogni altra forma di arte audiovisiva può essere ricondotta alla parola stessa. Animation deriva dal latino animare che significa dare vita. Il retaggio culturale e linguistico in cui mi trovo mi permette di concepire questa parola da un punto di vista profondo. Anche nel linguaggio corrente Italiano “animare” significa dare vita, ma a sua volta animare deriva dalla parola “anima” che significa soul.

Ciò che questo genere sembra voler dire è che grazie alla nostra capacità di animare le storie a cui pensiamo abbiamo la possibilità di arrivare ovunque la nostra mente voglia, che sia in cima a una collina in una battuta di caccia o in un’intricata storia di redenzione morale in cui siamo alla ricerca del vero noi, traghettati in giro dalle peripezie della vita e mossi di tanto in tanto da fili invisibili. La cosa più importante però, è che «if you can dream it, you can do it»[3].

Note

[1] «Quando desideri una stella non fa differenza chi sei».

[2] «L’animazione offre un mezzo per raccontare una storia e un intrattenimento visivo che può dar piacere e informare le persone di ogni età ovunque nel mondo».

[3] «Se puoi sognarlo, puoi farlo».

di Simone Radaelli

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