Prigionia come ascesi alla libertà nel teatro

La prigionia nel teatro

P

er molti rimanere bloccati, rinchiusi e incastrati è senz’altro un’esperienza traumatizzante. Lo spazio che si restringe sempre più, l’ossigeno che viene a mancare, l’abbandono completo. Tutto diventa terrore perché si perde la connessione con il mondo, con la vita. Il nostro cervello inizia a proiettare paure su paure e ciò che prima poteva essere oggettivo e reale s’avvelena di bile paranoica. Nella prigionia ci sono le nostre paure più antiche. Noi ne siamo contenitori e con queste riusciamo anche a costruire maschere. Ce ne serviamo mentre cerchiamo qualcosa o qualcuno. Aspettiamo ma non sappiamo perché. Intanto raccogliamo frammenti di uno specchio opaco che respira. Sono cose preziose: ci accompagnano dall’alba dei tempi. Il teatro vive di esperienze, di vita e di morti. Il teatro racconta anche storie, protagonista sempre l’uomo. Conoscere l’uomo in ogni sua intenzione, espressione e relazione. Cerchiamo di comprenderlo e ci ritroviamo meravigliati da un universo infinito. Se volgiamo lo sguardo alle stelle come Talete, nascosti in un vecchio pozzo o camminiamo persi in altre dimensioni contemplative è perché in noi arde il bisogno di trovare risposte.

Ora immaginiamo quanto possa essere sgomenta la piccola rana che scopre di non aver mai vissuto, protetta in un ventre di pietra che chiamava mondo, un corpo imprigionato. Questa rana però avrà una seconda possibilità, anzi la libertà di avere possibilità. È stata tremendamente stupida ad allontanare la tartaruga poco prima, finalmente lo riconosce ma per questo nessuno potrà biasimarla. Ancora non sapeva, non poteva sapere che fuori dal pozzo ci potesse essere un pozzo più grande. Meraviglia! Ma tutto questo sarà dimenticato e dopo non le importerà più se i desideri espressi possano essere esauditi o no. È libera finalmente. Già sente i brividi per i salti immensi che l’aspettano: un mondo nuovo. Ma certo in fondo potrebbe anche fare una piccola domanda, una piccolina così per sicurezza, per levarsi quel mortifero tarlo assillante; può permetterselo no? Eh! Allora:

Pozzo dei desideri, perché sono prigioniera?

Più di ogni altra cosa ciò che mi colpisce di Menandro è il realismo delle sue maschere. Queste vivono in una tridimensione non subito svelata come se attraversassero prove di umanità e il premio fosse l’umanità stessa. La sua opera più rappresentativa, il Dyscolos, è una delle poche opere arrivate a noi. Tutte le altre sono andate perdute o abbandonate nel tempo. Questa commedia è stata scritta nel 317 a.C, un anno prima di presentarsi e vincere alle feste Lenee di Atene il concorso di drammi comici. Importante è il suo contesto storico. «L’epoca in cui visse fu densa di eventi drammatici che portarono Atene alla perdita anche dell’ultima parvenza di libertà. In quegli anni drammatici – anni di scandali, rivolgimenti, speranze deluse, guerre – la città entrò nell’orbita macedone.»[1]

Menandro appartiene alla nuova commedia ellenica perché nelle sue opere tratta della vita privata e quotidiana del cittadino. Scrive di personaggi nei quali lo spettatore può al meglio identificarsi. Al centro non c’è più la polis e la sua piazza. Parla del suo tempo e ne critica i costumi. I tempi di crisi culturale e politica si riflettono nelle sue storie e sapienti sono le conoscenze sui caratteri dovuti ai primi studi di Aristotele.

Nel Dyscolos, un personaggio scorbutico e misantropo, Cnemone, vive con la figlia e una serva in campagna lontano da tutto e tutti. Egli è così odioso che neanche la moglie lo sopporta, così questa va a vivere con il figlio Gorgia, avuto dal primo matrimonio. Sostrato, un giovane di città di famiglia benestante, s’innamora della figlia di Cnemone ma sembra impossibile anche solo avvicinarla per il carattere e la diffidenza del padre. L’incontro e l’amicizia con Gorgia, fratellastro della ragazza fa sperare nella riuscita della sua impresa: chiedere la mano della ragazza al padre. Sembra non cambiare niente quando Sostrato decide di travestirsi da contadino per farsi notare da Cnemone ma, colpo di scena, questi cade accidentalmente in un pozzo. Sarà grazie alla prontezza e al coraggio di Gorgia che Cnemone si salverà da morte certa, tornando a credere nella bontà umana e infine acconsentendo al matrimonio. Terminerà tutto con un banchetto a conclusione della cerimonia al dio Pan.

Il prologo è molto importante nella drammaturgia menandrea. Raccontando sia l’antefatto che la conclusione, il pubblico può concentrarsi sugli intrecci tra i vari personaggi, la loro caratterizzazione e sullo svolgimento elegante che contraddistingue le opere dell’autore.

Fondamentale è la figura di Pan, dio pastorale con corna e zampe di caprone. «È presente dunque in tutta la commedia e non soltanto come espediente di scansione narrativa (la cerimonia) o come elemento decorativo (la statua in scena): è il dio che per premiare la pietà della fanciulla e punire lo scorbutico Cnemone, fa innamorare della prima il ricco Sostrato e fa cadere nel pozzo il vecchio. In sostanza, nella commedia il dio Pan, alla cui sfera d’influenza si riconducono sia lo scenario agreste sia le occupazioni dei personaggi principali, assume pure le vesti della tyche (sorte), del caso in cui soggiacciono gli eventi. La funzione di Pan nella commedia va dunque interpretata in una dimensione precipuamente artistica, in quanto nel dio si trovano il pretesto della commedia, la sua unità strutturale e narrativa, la sua atmosfera e insieme il volto poetico del caso che, in un’epoca di crisi dei valori tradizionali, pare essere l’unica legge cui la realtà risponde.»[2]

Se Cnemone non fosse caduto nel pozzo non ci sarebbe stato lieto fine. Mi piacerebbe analizzare questa parte della storia tornando alla sorte della nostra cara rana. «Siamo nel momento più intenso della commedia: Cnemome, di poco scampato alla morte, ripercorre la propria vita e le scelte compiute. L’utopia di poter rinunciare agli altri, i cui valori egli non condivideva, si è rivelata impossibile; impossibile è pure l’integrazione, per chi nella vita e nell’uomo cerca l’incarnazione di valori troppo alti e assoluti. È un momento di crisi e nella crisi il personaggio si umanizza: Cnemone, non più solo macchietta comica del vecchio burbero che insulta e maltratta gli altri, mostra le motivazioni, serissime, della sua misantropia, prende coscienza del proprio errore e della propria incapacità di cambiare.»[3] Cnemone diviene consapevole della distanza creata tra egli e il mondo, finalmente vede in quale tensione si è obbligato a vivere, soffrendo. Il risultato è il dialogo con uno specchio implacabile che insegna il perdono, un pozzo dei desideri.

Mi torna alla mente un breve racconto scritto da un gigante quale Pirandello. Nel 1909 venne alla luce A Giarra. Il lavoro ebbe delle metamorfosi, all’inizio da novella in dialetto agrigentino divenne nel 1917 uno spettacolo al Teatro Nazionale di Roma e nel 1925 fu pubblicato in lingua italiana. È doveroso aggiungere che l’abbandono del dialetto privò la drammaturgia di realismo e musicalità, essendo l’italiano una lingua fatta per pensare e scrivere invece che per parlare e agire. Ho vivido il ricordo dell’immagine di Franco Franchi nei panni del vecchio Zi Dima incastrato con gobba e smorfie dentro quell’enorme giara al centro del patio. Un Ciccio Ingrassia (Don Lollò) furente con occhi da fiera sfogarsi sul compagno di mille avventure. Consiglio al lettore di recuperare questa preziosa perla dei fratelli Taviani.[4] Ne vale assolutamente la pena. Sarà che vedo accomunati i nostri tre personaggi, prigionieri in un pozzo, in una giara, in un’idea, in loro stessi, nel loro ego.

Devo precisare però che per Zi Dima raccolgo le mie libere interpretazioni. Il tema della sua prigionia non viene mai trattato dai critici. Per questo mi aggrappo alle fronde lontane e straniere della Tarologia (studio dei tarocchi) per mettere in luce un aspetto nascosto e illuminante, dialogando con l’archetipo, consapevole che i rami hanno il piacere di comunicare tra loro. È interessante associare le tre vicende all’archetipo dell’Appeso. L’Appeso è un arcano (carta), all’interno del mazzo dei tarocchi. Leggendo la figura entriamo dentro un vocabolario fatto di colori, numeri, simboli, religioni, saperi esoterici e bellezza. Osserviamo la sua posizione all’interno della carta: è a testa in giù e a mani legate. Ciò rappresenta la sua incapacità di muoversi, il suo blocco e la sua visione del mondo, diversa dall’abitudine. L’arcano è uno specchio della situazione e allo stesso tempo chiave di svolta. Ciò è importante perché i tarocchi così come gli I Ching custodiscono un antico e universale insegnamento: la vita è movimento. Ecco un altro pozzo dei desideri: cosa chiedere a noi stessi nella più completa sincerità? Tenete a mente questo mentre ripassiamo la trama de La Giara.

La commedia è ambientata in una calda e senza tempo Sicilia, intrisa di canti, risate e folclore. Don Lollò è un ricchissimo e feroce proprietario terriero che si ritrova con un’enorme giara inspiegabilmente spaccata. Zi Dima, un conciabrocche orgoglioso e taciturno, viene chiamato a ripararla. A lavoro concluso per errore si ritrova imprigionato dentro senza via di uscita. Scoppia una lite testarda tra i due. Zi Dima cerca di liberarsi spaccando la giara mentre Don Lollò glielo impedisce imponendo un risarcimento per il danno. Si crea una situazione di stallo paradossale, dove a vincere sarà la tenacia di Zi Dima, liberato dallo stesso Don Lollò logorato dal baccano creato dal prigioniero e dai contadini con una festa nel patio. Il protagonista farà la sua uscita trionfale in spalle al popolo. La commedia trova la sua fine con la liberazione del prigioniero, ormai cambiato e portatore di una nuova verità, la sua.

La prigionia diventa passaggio fondamentale per una crescita, un cambio di prospettiva, liberazione da schemi, cliché e abitudini controproducenti. L’incarcerazione diviene quindi epifania: mostra l’incapacità di vedere le proprie catene che legano mani, occhi cuore e piedi. Simulacri degeneri che si nutrono delle nostre energie, relazioni e tempo di vita perché viviamo ma non viviamo veramente. Dormiamo e tutto ci va bene. Abbiamo memoria cortissima. L’arcano dell’Appeso ci esorta ad agire da una prospettiva completamente cambiata e a liberarci dalle catene della mente che sono più forti di qualunque altra catena fisica.

«Un personaggio, signore, può sempre domandare a un uomo chi è. Perché un personaggio ha veramente una vita sua, segnata di caratteri suoi, per cui è sempre “qualcuno”. Mentre un uomo – non dico lei, adesso – un uomo così in genere, può non essere “nessuno”»[5] e cosa possiamo essere se l’ambiente in cui viviamo non fa fiorire, ma soffoca, degenera una natura felice e vera. Bisogna svegliarsi e agire per sapere chi siamo, liberi da maschere, cliché e prigioni. «Ogni essere che viene al mondo cresce nella libertà e si atrofizza nella dipendenza»,[6] scrive Silvano Agosti, il che dà da pensare in rapporto alla lezione di Menandro, modernizzata da Pirandello, sulla sete di possesso della terra e simboleggiata dalla legge del contrappasso del misantropo che, inciampando nel pozzo, cade vittima della sua stessa proprietà.

Note

[1] Dall’introduzione di N. Russello, Menandro, Dyscolos, BUR, 2014.

[2] Ibidem.

[3] Ibidem.

[4] Paolo e Vittorio Taviani, Kaos.

[5] L. Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore, Einaudi, Torino 2009, p. 78.

[6] S. Agosti, Lettere dalla Kirghisia, Rizzoli, Milano 2007, p. 48.

di Ricardo Sarmiento M.

Leggi tutti gli articoli del numero 21

Autore