Liberi di diventare grandi

«L’illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità di cui egli stesso è colpevole. Minorità è l’incapacità di servirsi della propria intelligenza senza la guida di un altro. Colpevole è questa minorità, se la sua causa non dipende da un difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di servirsi di essa senza essere guidati da un altro».

Immanuel Kant, Che cos’è l’illuminismo

«No, no, non si può stare sempre a guardare!»

Sottotenente  Innocenzi, Tutti a casa

 

Settantacinque anni fa, l’otto settembre del 1943, la radio rilanciava in ogni angolo del paese il messaggio del maresciallo Badoglio che ammetteva «(…) la impossibilità di continuare la impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria». Proseguiva poi affermando che «nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione» l’Italia aveva chiesto l’armistizio al generale Eisenhower che aveva accolto la richiesta; «conseguentemente, ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo».

Il paese impazzito per la felicità era sceso immediatamente in strada a festeggiare l’attesa liberazione dalla guerra. Il messaggio di Badoglio però continuava con una frase criptica, almeno per gli italiani d’allora, che sarebbe divenuta poi famigerata, aggiungendo che le truppe italiane «però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza».

La guerra era finita e non era finita o, per meglio dire, s’era chiuso un fronte ma se ne stava aprendo un altro; quello con gli ex alleati tedeschi. Purtroppo la gran parte degli italiani non l’aveva compreso e non solo i civili intenti a festeggiare, ma soprattutto i soldati che s’erano svestiti della divisa ed erano corsi a casa.

Tutto questo avveniva in una nazione nella quale, per vent’anni, era stato in vigore il più rigido autoritarismo. Gli italiani s’erano abituati ad agire solo per via gerarchica, in base ai comandi ricevuti, ma il capo di stato maggiore Badoglio, il Re e il principe ereditario erano fuggiti verso l’Albania e Mussolini, destituito qualche mese prima dell’otto settembre, si trovava ancora in prigione (sarebbe stato liberato quattro giorni dopo dai tedeschi). Gli italiani insomma non erano solamente sconfitti: erano in rotta, abbandonati a se stessi e al caos.

Nessun film ha saputo fotografare e raccontare questa situazione tragica così bene come Tutti a casa di Comencini. Il film narra la storia del sottotenente Alberto Innocenzi (Alberto Sordi) e del geniere in convalescenza Assunto Ceccarelli (Serge Reggiani). Innocenzi, pedante e più che ligio sottufficiale romano a capo d’un plotone di soldati del Regio Esercito in Veneto, al momento dell’annuncio di Badoglio si trova tagliato fuori da ogni comunicazione. Trovata la postazione a cui deve dare il cambio sotto attacco da parte dei tedeschi, Innocenzi, che non sa bene che fare, cerca in ogni modo di mettersi in contatto coi superiori per ricevere ordini precisi; ma ormai i tedeschi sono ovunque e arrestano ogni ufficiale superiore. Sequestrati due camion cerca di dirigersi con i suoi verso il 4° raggruppamento, che però trova vuoto e semidistrutto. A quel punto gran parte della truppa lo abbandona approfittando del buio d’un tunnel dal quale usciranno solo lui e il geniere Ceccarelli.

Questa scena indica un cambio di rotta nel film, nella psicologia del protagonista e infine, simbolicamente, anche la disastrosa uscita del paese dal Fascismo. Da questo momento in poi il film diventa una sorta di film-nostos che coniuga il linguaggio del cinema in esterni, tipico del neorealismo italiano, con il road movie e il genere storico-guerresco. Nel momento in cui esce dal tunnel e si rende conto che non si può più ricorrere alla guida di un’autorità, Alberto Innocenzi comincia a modificare i propri comportamenti. Rivela, progressivamente, un altro uomo: egoista, pavido e perfino cialtrone, totalmente privo di interesse per le sorti del paese e persino per quelle dei suoi compagni di viaggio (compreso lo stesso geniere Ceccarelli che in qualche modo dipende da lui).

Innocenzi vuole solo giungere a casa al più presto e in ogni modo e il film ci mostra questo ritorno come una specie di Anabasi contemporanea, puntellata con l’inserto di sprazzi di commedia, dove Sordi e Reggiani sviluppano personaggi complementari: il primo indossando la maschera del cinico, il secondo interpretando il ruolo di un italiano semplice e quasi infantile. Una struttura che consente al regista di alleggerire con delle gag basate sul registro della coppia comica un film fortemente drammatico. Uno schema questo che il cinema italiano aveva già rodato l’anno prima, quando era uscito nelle sale La Grande Guerra di Monicelli.

Tutti a casa è principalmente un viaggio da Nord a Sud attraverso l’Italia del ’43; ma il viaggio non è solo un viaggio nello spazio e il film conduce lo spettatore incontro anche alle tipiche situazioni in cui si ritrovarono gli italiani dopo l’otto settembre: i treni dei deportati verso i campi di lavoro o di sterminio; i prigionieri che lanciavano bigliettini sulle rotaie per far sapere che erano stati catturati; la fuga in montagna dei partigiani, i rastrellamenti dei tedeschi; l’uccisione degli ebrei; la solidarietà dei contadini che nascondevano i soldati (anche americani) e offrivano abiti civili per liberarsi della divisa; la borsa nera; le rivolte per la farina e il pane. Una sorta di catalogo per immagini del periodo intercorso tra l’otto settembre e il venticinque aprile.

Il viaggio nel paese occupato dai tedeschi è dunque anche un viaggio nella memoria e nella coscienza collettiva della nazione tra la fine del Fascismo e la Liberazione. Liberazione che non è solo liberazione dall’occupante e dal regime fascista, ma che nel film diventa liberazione da un modello culturale che aveva schiacciato in uno stato di minorità, morale ma specialmente mentale, tutto un popolo. Una condizione culturale che chiedeva a ciascun cittadino di relazionarsi al potere in modo irresponsabile, come i bambini si rapportano ai genitori.

In questo senso appare significativo l’uso della telecamera da parte di Comencini che evita quasi sempre e fin dall’inizio che Sordi sia visto da inquadrature di potenza. Nel cinema si chiamano tecnicamente così tutte quelle inquadrature che riprendono il personaggio dal basso verso l’alto, mettendo lo spettatore nel punto di osservazione di un bambino nei confronti di un adulto. I tedeschi e i fascisti, ad esempio, sono quasi sempre inquadrati nel film da una posizione dal basso verso l’alto, a sottolineare la condizione di potenza dell’occupante in Italia. Innocenzi viene quasi sempre e fin dall’inizio inquadrato da una prospettiva opposta, leggermente dall’alto verso il basso o al massimo a un’altezza neutrale (con l’eccezione proprio della scena in cui incontra Ceccarelli, a suggellare quello che sarà il rapporto tra i due lungo tutto il film e di quando si approfitta di un infermo per prenderne il posto su un’auto che trasporta farina per il mercato nero).

In questo modo Comencini include lo spettatore nel film e lo predispone visivamente a percepire il protagonista dal punto di vista di un adulto rispetto a un fanciullo. Innocenzi-Sordi è, per noi che guardiamo, non un uomo fatto, ma una sorta di bambinone. La fanciullezza e i bambini sono del resto un elemento fondamentale del cinema di Comencini (si pensi al suo Pinocchio ma anche al suo cortometraggio di esordio Bambini in città). Si tratta di fatto di un aspetto che è comune a tutto il cinema neorealista (Sciuscià, Germania anno zero) ma che nel cinema di Comencini trova una particolare grazia.

Tutti a casa dispiega quindi una sorta di metafora: il Fascismo, lungi dal rendere gli italiani forti come ambiva, li ha resi bambini incapaci di agire in modo responsabile. È proprio in virtù di tale paragone che il film non ha perso d’attualità. È anche grazie a questo film se possiamo comprendere che il Fascismo non è stato che un fascismo. Il fascismo non si declina solo attraverso le peculiarità politiche che lo hanno definito storicamente (culto del leader, cooperazione innaturale tra le classi) ma in qualcosa di culturalmente più ampio, nella condizione di messa in minorità di una massa di soggetti. Minorità non necessariamente ottenuta con la coercizione, ma anche grazie a una sorta di stato di torpore della coscienza, in grado di far trovar piacevole accettare che il nostro destino sia guidato da altri. In questo senso l’incontro frustrante di Innocenzi con il proprio padre (Eduardo De Filippo) che vorrebbe consegnare il figlio ai repubblichini perché ne ingrossi le fila, segna il progressivo distacco di Innocenzi dal «cattivo padre» della Patria per eccellenza, Benito Mussolini, ma anche da un modello culturale che spinge gli uomini a essere irresponsabilmente passivi.

Nel finale vediamo Innocenzi in un’inquadratura di potenza; coinvolto inizialmente suo malgrado nelle quattro giornate di Napoli, trova infine il coraggio di prendere tra le mani il proprio destino sotto forma della mitragliatrice con la quale inizia a liberarsi dei nazifascisti ma, soprattutto, a liberarsi dello stato di minorità in cui, per vent’anni, il fascismo stesso aveva posto lui e gli altri italiani. Con Innocenzi tutti gli italiani sono liberi di diventare grandi.

di Amedeo Liberti

Autore

  • È redattore de La Tigre di Carta. Dopo gli studi di Filosofia e in Analisi e Gestione dell'Ambiente e del Paesaggio, si dedica alla sua terza grande passione assieme a Pensiero Teoretico ed Ecologia, fare il videomaker. Un suo corto "La Banalità Del Mare" è stato accettato al XIII Siena Short Film Festival. Oggi lavora come proiezionista per la Fondazione Cineteca Italiana. In pratica è sempre al cinema.