Kintsugi: l’arte di rendere unica la fragilità

La storia, la tecnica e la filosofia

Quanti tipi di rottura conoscete? Comunque siano, il risultato è sempre formato da cocci, più o meno grandi, più o meno numerosi, ma cocci; ciò che cambia è il processo che ha portato alla rottura perché ogni oggetto conserva dentro di sé la sua storia.

La rottura più comune è quella accidentale dovuta a eventi naturali, un colpo di vento, un libro che scivola dalla libreria, o a un gesto maldestro, un movimento improvviso e succede il danno, la caduta a terra e la frammentazione, lo sgretolamento di piccoli pezzi.

C’è poi la rottura cercata, la rabbia che ci spinge a gettare a terra un oggetto, una sorta di parafulmine, che, quando siamo accecati, ci spinge a buttare addosso al nemico una tazza, un vaso, non conta quanto sia prezioso, anzi, alle volte più è prezioso e più ci sentiamo felici nella nostra pazzia.

E c’è l’incuria del tempo che passa, i traslochi, i cambi di destinazione, di proprietario, che fanno sì che l’oggetto si crepi, sbiadisca, si rompa.

Storie, questo conservano gli oggetti, storie di rotture, storie di vita; e pur sempre, alla fine, cocci.

L’arte kintsugi racconta storie di rotture e nasce proprio dalla rottura accidentale della preziosa tazza tenmoku di Ashigaka Yoshimasa, ottavo shogun dell’epoca Muromachi, in Giappone, verso la fine del XV secolo.

Kintsugi significa letteralmente “riparare con l’oro” ed è una tecnica di restauro ideata da ceramisti giapponesi per ovviare al brutto restauro eseguito da ceramisti cinesi, che cucirono con filo di ferro la tazza per il cha no yu di Ashigaka Yoshimasa, rovinandone la bellezza. I ceramisti giapponesi, vista la delusione e lo sconforto del loro shogun, decisero di utilizzare la lacca urushi (derivata dalla pianta autoctona Rhus verniciflua) che ha forte potere adesivo, unendola con farina di riso per incollare i cocci della tazza, e di decorare con la polvere d’oro le linee di rottura.

Ashigaka Yoshimasa

Ashigaka Yoshimasa, ottavo shogun del periodo Muromachi

Il risultato fu una tazza nuova, un’opera d’arte, bellissima nella sua imperfezione, arricchita, oltre che dall’oro, dalla sua storia.

Kintsugi, la storia

Ashigaka Yoshimasa (1435-1490), ottavo shogun dell’epoca Muromachi, non amava il suo ruolo militare e politico. Verso la fine della vita, abdicò a favore del figlio, diventando monaco zen e ritirandosi nella sua dimora, nel quartiere Higashiyama di Kyoto, dove fece costruire il Tempio del Padiglione Argentato, chiamato Ginkaku-ji, e una stanza per la cerimonia del tè.

Ashigaka amava l’arte e la poesia, era attento alla cultura del suo paese e a quella del popolo cinese: durante il suo shogunato nacque la corrente culturale Higashiyama bunka, il cui centro era la dimora di Yoshimasa. Là venivano ospitati poeti e artisti, monaci zen e maestri della cerimonia del tè, tra cui Murata Shuko, ideatore del cerimoniale del chado (versione giapponese della cerimonia del tè); nel palazzo dello shogun costruì la prima stanza del tè giapponese, il dojinsai.

Il periodo Higashiyama bunka si basa sui principi del buddismo zen e sul concetto wabi-sabi.

Wabi-sabi è la visione estetica del mondo giapponese; deriva dalla fusione di wabi – solitudine, tristezza, malinconia e sabi – freddo, povero: racconta la caducità della vita, l’impermanenza, l’imperfezione; lo stile è rustico, non c’è ricercatezza né perfezione, bensì accettazione dell’unicità e dei difetti, senza alterazione e nascondimento.
Se un’opera d’arte, un’espressione artistica o un momento della natura riescono a suscitare in noi sentimenti di profonda commozione e serena malinconia, allora hanno raggiunto la visione wabi-sabi, una bellezza triste e malinconica, racchiusa in sé.

Durante il periodo Higashiyama bunka il Giappone vede nascere una nuova cultura artistica e filosofica, importata dalla Cina e modificata secondo la visione estetica del wabi-sabi: viene importata la cerimonia del tè, cha no yu o via del tè; il sumi-e, tecnica di pittura e scrittura a inchiostro nero, e l’arte della ceramica, con realizzazioni di tazze tenmoku raku (comodo, maneggevole) per la cerimonia del tè. Nasce l’ikebana, l’arte di disporre i fiori recisi e il teatro No, forma di teatro molto raffinata, con attori maschi che indossano una maschera in legno.

Nasce anche l’arte kintsugi dedicata principalmente alle tazze tenmoku e ai chaire, vasi da esporre durante la cerimonia del tè. I restauri kintsugi sono talmente belli e ricchi di significato che alle volte gli oggetti venivano rotti appositamente per poterli ammirare nella loro nuova veste; ora sono conservati nei più importanti musei giapponesi.

Kintsugi, la tecnica

La tecnica di restauro è una tecnica complessa: abbisogna di elevata manualità e di precisione, nonché calma e pazienza.

La lacca urushi è una lacca allergizzante quando è fresca, ragione per cui occorre fare molta attenzione e proteggersi con i guanti; perde questa caratteristica una volta seccata. Il processo di essiccazione avviene mantenendola in un ambiente caldo (20°) con umidità relativa intorno al 70-90%: questo procedimento si ottiene nel muro che ricrea artificialmente queste condizioni.

Kintsugi Chiararte

Un oggetto realizzato con la tecnica del kintsugi da Chiara Lorenzetti

Alla lacca urushi viene aggiunta farina di riso, nori urushi, o farina di grano, mugi urushi; la pasta così ottenuta viene usata per incollare i cocci di ceramica.

Il tempo di essiccazione della colla ottenuta varia in base alla temperatura, ma di solito è di tre giorni; una volta essiccata viene tolta quella in eccesso con una pietra per levigare inumidita in acqua. Si eseguono quindi successive stuccature nelle linee di rottura e carteggiature così da giungere a un risultato perfettamente liscio.

Le linee di rottura così stuccate vengono rifinite con lacca urushi rossa a pennello; trascorsa mezz’ora, usando la spatola o il pennello, si lascia cadere la polvere d’oro sulla lacca. Con il cotone di seta, wata, si fissa la polvere d’oro e solo in seguito, dopo averla lasciata asciugare per due giorni, si toglie con una spugna quella in eccesso: il risultato ottenuto è una fitta rete di linee dorate là dove prima c’erano cocci sparsi.

Kintsugi, la filosofia

L’arte kintsugi non è solo un concetto artistico ma ha profonde radici che affondano nella filosofia zen; partendo dal wabi-sabi, tre sono i concetti in essa racchiusi: mushin, anicca e mono no aware.

Mushin, “senza mente” è un concetto che esprime la capacità di lasciare correre, dimenticando le preoccupazioni, liberando la mente dalla ricerca della perfezione.

Anicca si traduce con “impermanenza”; l’esistenza, senza eccezioni, è transitoria, evanescente e inconstante: tutte le cose sono destinate alla fine. Accettare tale condizione è avere un approccio sereno e consapevole della vita.

Mono no aware, “empatia verso gli oggetti”, è una malinconia triste e profonda per le cose; apprezzando la loro decadenza si arriva ad ammirarne la bellezza.

Un oggetto restaurato con l’arte kintsugi racchiude in sé la bellezza della rottura che lo rende unico e irripetibile: una volta riparato ha una storia nuova da raccontare, ne serba il ricordo ed è di quelle ferite che parla. L’uso dell’oro da parte dell’artista-artigiano è una profonda dimostrazione di stima e riconoscenza: parla di fragilità, di sgretolamento, di caducità, declino e di rinascita.

Bibliografia

Chiara Lorenzetti, Kintsugi, l’arte di riparare con l’oro, Lulu.com, 2017.

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