Riadattare e comporre – Due spettacoli di Stefano Massini

Nel teatro di oggi siamo di fronte a una condizione in apparenza cristallizzata: si conosce tanta parte del grande teatro, ma difficilmente ci si spinge oltre il teatro dell’assurdo. Infatti, di teatro contemporaneo non si conoscono gran parte degli autori, e per questo parlerò di spettacoli di autori contemporanei, per cercare di diffondere un teatro sicuramente di valore.

Oggi uno degli autori più forti e più conosciuti è Stefano Massini, che ha riadattato per il teatro un romanzo epistolare di Balzac, Memorie di due giovani spose (1842), intitolando la pièce Louise e Renée, dai nomi delle due protagoniste; egli inoltre ha scritto Credoinunsolodio, già andato in scena l’anno scorso. Entrambi sono in scena in questi giorni, il primo al Piccolo Teatro Studio di via Rovello, l’altro al Piccolo Teatro Studio Melato.

Ho visto entrambi gli spettacoli, così da potermi fare un’idea parziale sul lavoro di Massini. Anzitutto, in entrambi questi lavori si nota come il suo lavoro sia altamente legato alla letterarietà: gli attori non interagiscono, ma pensano o scrivono le loro azioni, quindi tutto viene trasposto. Massini vuole esprimere una nuova teoria di ciò che dev’essere rappresentato: dal dialogo si passa all’esposizione di uno stream of consciousness, in cui la scena riguadagna una certa attenzione e cura, perché luogo delle emozioni, dove non sono solo i corpi a manifestarle, ma anche i simboli scenici: l’ambiente ridiventa luogo di individuazione del personaggio.

Tutto è volto a ricalibrare l’idea di espressione teatrale, che si interiorizza, diventa esperimento, non rappresenta più, ma si riallinea in maniera più cogente al postmodernismo. Sì, la trama con i suoi cavilli si scompone, perde di importanza, ma ne perde anche il dialogo stesso. I personaggi, insomma, raccontano un percorso intimista, in cui certo si svolge una vicenda, ma senza che ci sia un interlacciamento dialogico. Si può dire che sia un’estremizzazione dell’incomunicabilità di Beckett o del teatro di O’Neill, in cui i personaggi si isolavano dalla realtà per esporre i loro pensieri.

Louise e Renée è tratto da un romanzo epistolare, l’unico di Balzac, trasposto sulla scena come un dialogo a distanza: Louise è a Parigi, Renée in una città della Provenza. Le due protagoniste si incontrano scontrano tramite delle lettere lette ad alta voce e interpretate da chi le scrive, dando spazio a una rappresentazione non solo orale, ma anche fisica dei sottintesi dietro le parole. Si alternano così scene dotate di uno spessore in cui Isabella Ragonese e Federica Fracassi trasmutano, si sdoppiano, danno luogo a una rappresentazione molteplice. La scena, scarna e complessa insieme, è fatta di pannelli mobili sottili, quasi di carta, pannelli che creano un gioco di ombre, specchi, tendaggi e proiezioni di frasi che guidano lo spettatore in un percorso di scoperta del significato della parola “amore”. È proprio su questa riflessione che si anima una vicenda complessa, fatta di litigi a distanza, incomprensioni, riconciliazioni, che terminano tragicamente, con una scena struggente ed estremamente simbolizzata, sulla linea della teoria dell’osceno, antica prassi del teatro greco, in cui la morte non è rappresentata esplicitamente, ma diventa una tensione, una sedia con degli stivali sopra e l’attrice ridotta a ombra che si tende dolce verso un velo che non riesce a toccare.

In Credoinunsolodio ci troviamo in Medio Oriente, tra Israele e Palestina. Tre personaggi femminili si alternano in luoghi diversi, legati e slegati insieme: una soldatessa americana, una studentessa universitaria palestinese e una professoressa universitaria israeliana. Queste tre donne, in maniera più spinta di Louise e Renée, si muovono come monadi sulla scena. All’inizio c’è un’interazione, in una scena simbolica in cui le tre protagoniste simulano una fuga, frammista a una lotta violenta; interagiscono anche alla fine, in un bar, dove i tre pensieri si incontrano fisicamente.

Questi tre percorsi sono un composto di rifrazioni in una scenografia che gioca tra luci, ambienti diroccati, rappresentazioni di una guerra interiore, un conflitto in cui dalla differenza nasce un’uguaglianza, perché l’individuazione, che separa ciascuno di noi, fonda il concetto stesso di quel che è essere umano. La trama ha poca importanza: quello che Massini sembra voler sottolineare è il dialogo interiore di tre donne che raccontano un’esperienza dal proprio punto di vista, creando equivoci, storture, dolori, in un contesto ferito dall’indifferenza di un Occidente che osserva con superficialità uno squarcio necrotico. L’Occidente è rappresentato dalla soldatessa americana, che è lì per “contenere” e si rifiuta di capire un conflitto che spezza ogni giorno delle vite, un odio («credo in un sol odio») che consuma in un circolo vizioso donne e uomini che, in realtà, credono in un solo dio.

La professoressa universitaria, all’inizio convinta della possibile unione d’intenti tra i due popoli («perché in fondo crediamo nello stesso Dio», dice a un certo punto), dopo essere sopravvissuta a un attentato comincia a ricredersi, a cadere nel circolo dell’odio; lo stesso la studentessa palestinese, che si affilia a una cellula terroristica, perché infiammata dalle tante ingiustizie di uno Stato, Israele, che non si è mai veramente sprecato per la pace. Nessun personaggio cambia idea, nemmeno di fronte alla morte. La scena finale si svolge nel bar in cui si sa che ci sarà un attentato da parte di una ventenne, lo stesso bar in cui ci sono le altre due attrici (l’incontro finale); la soldatessa vi si reca per fermare l’attentato, ma è troppo fissa nella sua indifferenza e non riesce a capire chi sia l’attentatrice, perché per la pioggia sia la professoressa, sia la studentessa hanno il velo addosso; il tutto si gioca sull’ambiguità di un velo che all’occasione diventa scialle. Un’incapacità di capire, di parlarsi, che genera l’esplosione finale, definitiva, la più lacerante.

Alla fine il senso ultimo dello spettacolo sembra essere che non esiste soluzione in un circolo vizioso dove a dominare è un odio viscerale, profondo, fortissimo, un odio che lacera e uccide, un odio incomprensibile in apparenza, un conflitto che affonda dentro le nostre anime, nei punti più oscuri, dove il problema principe è la mancanza di dialogo, l’uso scarso della parola, nonché lo sfruttamento da parte di pochi dei dolori di molti. Più che una guerra fisica, una guerra interna, presente in tutti noi. Basterebbe poco: conoscere la differenza tra un velo e uno scialle.

Louise e Renée è in scena al Piccolo Teatro Grassi dal 21 marzo al 30 aprile.
Credoinunsolodio è al Piccolo Teatro Studio Melato dal 25 marzo al 13 aprile.

di Victor Attilio Campagna

Autore

  • Tre anni di Lettere Antiche, ora a Medicina e Chirurgia. Per non perdere l'identità si rifugia nella letteratura, da cui esce solo per scrivere qualcosa. Può suonare strano, ma «Un medico non può essere tale senza aver letto Dostoevskij» (Rugarli).