Se il filo di Arianna è un nastro di Moebius

La mostra di Kishio Suga all’Hangar Bicocca

Nella periferia nord di Milano, in quel quadrato dove sorgevano, durante l’Età delle Ciminiere e l’Evo delle Tute Blu, quelle che nella mitologia meneghina erano vere e proprie cattedrali dedicate al dio della produzione industriale, là dove c’erano la Breda, La Falck e dove ancora resta parte della Pirelli, sorge un luogo che scaccia ogni nostalgia: l’Hangar Bicocca.

Sotto i coperchi delle pentole del diavolo a volte ribollono gustosi manicaretti, pertanto non smetteremo mai di ringraziare la deindustrializzazione e gli adepti al culto della gentrificazione di Milano (zona Bicocca) per aver creato i presupposti per creazione di questo spazio. Dove la Breda costruiva le sue locomotive, al grido: “alzati e esponi arte contemporanea!”, lo spazio è stato fatto risorgere. Nell’Hangar, ad esempio, hanno trovato ospitalità nomi di prestigio della video arte, come Apichatpong Weeresethakul, delle installazioni, come Micol Assaël e Tomás Saraceno, delle arti performative come Ragnar Kjartansson o scultori contemporanei di fama come Juan Muñoz.

Piuttosto che guardare al lavoro culturale svolto nel passato, però, data la vocazione anti-nostalgie del posto, consigliamo a chi ama l’arte di recarsi all’Hangar per passeggiare oggi nell’area delle Navate, là dove Kishio Suga ha attualmente installato la ventina di opere che compongono la prima retrospettiva al di fuori del Giappone a lui dedicata: Situations.

Kishio Suga è l’ultimo esponente della scuola d’arte Mono-Ha, ovvero la “scuola delle cose”. L’idea alla base di questa scuola è antica quanto l’arte del Ready Made concepita da Marcel Duchamp. La cose più banali si possono trasformare in arte, grazie al semplice gesto dell’artista che le colloca in situazioni non convenzionali e ne riconfigura il significato estetico, rendendo sublime ciò che originariamente sublime non era. Famoso l’esempio della Fontana di Duchamp.

La scuola Mono-Ha fa tesoro di questa lezione, soprattutto Kishio Suga che concepisce la sua arte come strettamente legata alle situazioni (da cui il titolo della retrospettiva). L’opera d’arte per Suga deve infatti indurci a riflettere sulle relazioni che gli oggetti tessono tra loro e con lo spazio circostante. Tanto che, semplificando e con molta irriverenza, si potrebbe dire che il gesto artistico di Kishio Suga consista in una sorta di Land Art praticata però indoor.

Un altro elemento che accomuna Suga a Duchamp è l’uso dei materiali di consumo e/o d’uso quotidiano come mezzi per fare arte. Con la significativa differenza che l’arte di Kishio Suga tende a concentrarsi più sulla scelta dei materiali semplici, spesso di origine naturale (il legno, le pietra e i ciottoli), talvolta manufatti (la corda, la carta) o semilavorati industriali (blocchi di paraffina, lamine di metallo grezze), piuttosto che sul Ready Made propriamente detto. Il risultato è che l’estetica della Mono-Ha di Kishio Suga entra in consonanza con l’arte minimalista o con l’Arte Povera italiana. Inoltre, la scelta di utilizzare semilavorati industriali o artigianali, invece che oggetti pronti all’uso (come le stampelle o lo sgocciolatoio di Duchamp) cioè l’idea di utilizzare prodotti di transizione invece che prodotti fatti e finiti, suggerisce nuovi modi di porre un’attenzione alla trasformazione delle cose.

Kishio Suga, "In the State of Equal Dimension", 1973

Kishio Suga, “In the State of Equal Dimension”, 1973

Che una mostra retrospettiva abbia l’ambizione d’accompagnarci nel presente o addirittura nel futuro delle arti, pertanto, non è poi così paradossale. Le opere d’arte di Kishio Suga dialogano strettamente con gli ambienti in cui sono collocate e sono riadattate dall’artista stesso ai luoghi in cui vengono esposte. Questo fa sì che ciascuna opera, pur mantenendo i caratteri originali, si riconfiguri e ne acquisti di originali.

Ne è un esempio la prima opera, Critical Sections, una lunga fune ­di tessuti neri e bianchi intrecciati che, tenuta insieme e al contempo divisa da ramoscelli di legno a intervalli regolari, cala dal soffitto per ricongiungersi al suolo, dove termina in spire sottolineate da lamine di zinco ripiegate. Inizialmente l’opera era collocata nel Museo di Arte Moderna di Tokyo, al di sotto di un lucernario a cupola, in modo da evidenziare non solo un rapporto spaziale tra alto e basso, ma anche quello abitativo tra dentro e fuori.

Con la nuova collocazione dell’opera siamo ancora invitati a osservare la relazione tra parte alta e parte bassa dell’edificio ma, mancando nelle Navate dell’Hangar un lucernario che possa farci percepire la luce naturale del cielo, la relazione dentro-fuori viene meno e il rapporto con le luci artificiali e con la superficie del suolo dell’Hangar si fa invece preponderante, facendo acquisire uno speciale significato alle lamine di zinco con cui terminano (o da cui originano) le spire di tessuto; così come acquista vigore l’attenzione che si pone alla regolarità delle divisioni realizzate dai ramoscelli di legno. In questo modo l’opera si tramuta in una sorta di dima o metro artistico che ci permette di misurare e cogliere pienamente l’antica vocazione tecnico-industriale dell’Hangar.

Altre opere di Kishio Suga invece sembrano non alterare il proprio senso originario con la nuova collocazione nell’Hangar, anzi sembrano trovare enfasi e vigore in questo luogo. È il caso di Soft Concrete, opera nella quale Suga colloca delle lastre di metallo su una colata di ghiaia ricoperta di cemento, reso soffice perché impregnato d’olio motore che ne impedisce l’indurimento. Il risultato è che la durezza e la stabilità del metallo contrastano con la colata di ghiaia e cemento che, nel corso della mostra, tenderà a modificare il proprio aspetto assestandosi.

Tutta l’opera di Kishio Suga comunque gioca con polarità complementari, come a volte l’uso di materiali chiari opposti a materiali neri (vedi Critical Sections) suggerisce. Abandoned Situation, ad esempio, consiste in una lamina ondulata collocata a terra, sigillata e riempita in solo due scanalature di acqua mista a inchiostro. L’effetto è quello di un enorme foglio di carta ondulata di cemento con due righe nere a dividerlo simmetricamente. Una simile ricercata disposizione (soprattutto per un artista che proviene da una cultura tradizionalmente tesa a prediligere l’asimmetria) contrasta con l’uso dei materiali poveri. L’effetto è quello di trovarsi in un’area abbandonata (l’acqua nera e ferma suggerisce l’idea di un canale di scolo tappato) ma, allo stesso tempo, le due linee esattamente parallele e la simmetria tramutano l’opera in una sorta di mandala longitudinale o comunque rimandano all’idea d’una decorazione pittorica.

Che le opere di Kishio Suga giochino con gli opposti è un fatto. Alto-Basso, dentro-fuori, soffice-duro, visibile-invisibile, precario-stabile, naturale-artificiale, sono solo alcune delle coppie di complementari utilizzate dall’artista per metterci in rapporto con le situazioni spaziali e con le relazioni fra gli oggetti. La cosa più significativa però è che, quasi a incarnare nelle sue opere i basilari concetti taoisti (e poi scintoisti) dello yin e dello yang, Suga non risolve mai il conflitto che si genera nella situazione in un senso o in un altro, ma lascia che gli opposti si compenetrino, quasi che l’artista ci inviti ad abitare sulla soglia che permette il passaggio da un polo all’altro. In questo senso forse l’opera più significativa è Infinite situation III (Door), un’opera consistente in una trave di legno messa di traverso su una porta aperta sull’esterno. L’artista ci invita a essere questa trave.

La coppia oppositiva su cui insiste di più la tecnica artistica di Kishio Suga è però quella tra complesso e semplice. La semplicità dei materiali e la loro disposizione regolare, infatti, sono solo apparenze, perché un’osservazione più attenta invece apre gli oggetti a situazioni complesse. Oggetti semplici che rimandano a relazioni semplici (alto e basso, dentro e fuori, ecc.) che creano però situazioni complesse.

Non è un caso se molti oggetti artistici di Kishio Suga consistono in funi o fili che stabiliscono un percorso. Un percorso che si può, però, solo contemplare con lo sguardo e mai seguire con tutto il corpo. Questo non solo perché il vero percorso dell’opera è più mentale che fisico, ma perché il gioco delle relazioni tra gli oggetti e gli spazi, attraverso le opposizioni disposte dalle opere d’arte dell’artista, può condurre a una sorta di labirinto estetico percettivo, dal quale si può trovare l’uscita solo seguendo una linea concettuale che assomigli più a un nastro di Moebius che a un filo d’Arianna.

di Amedeo Liberti

Autore

  • È redattore de La Tigre di Carta. Dopo gli studi di Filosofia e in Analisi e Gestione dell'Ambiente e del Paesaggio, si dedica alla sua terza grande passione assieme a Pensiero Teoretico ed Ecologia, fare il videomaker. Un suo corto "La Banalità Del Mare" è stato accettato al XIII Siena Short Film Festival. Oggi lavora come proiezionista per la Fondazione Cineteca Italiana. In pratica è sempre al cinema.