A ogni costo

Guerriglie, malaria, marce forzate sino ai territori sconosciuti della Valle dell’Indo: i soldati di Alessandro Magno seguono fiduciosi il loro comandante, fino al momento in cui…

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Le truppe di Alessandro implorano di tornare a casa dall’India. Incisione di Antonio Tempesta, 1609

Si scherza talvolta sul carisma di certi individui, sostenendo che la gente sarebbe capace di gettarsi nel fuoco per ordine loro. In verità, la storia ci insegna che c’è ben poco da scherzare sull’influenza che una persona può avere sui propri simili. Quando Cristoforo Colombo chiese al proprio equipaggio di spingersi oltre i confini del mondo conosciuto, le credenze più diffuse volevano una simile impresa letale, oltreché fisicamente impossibile. I suoi uomini erano perlopiù galeotti in cerca di perdono e lui dovette comunque mentire spesso sulle distanze percorse, ma tali fatti non sembrano sufficienti a spiegare la realizzazione di un’impresa così coraggiosa da parte di persone tanto semplici. I soldati di Giulio Cesare, oltrepassando armati il Rubicone, contravvennero ai propri giuramenti di fedeltà verso la Repubblica e a tutto il sistema di pensiero nel quale erano cresciuti, in base al quale i confini del territorio romano erano sacri e portare armi al loro interno non significava soltanto violare le leggi del Senato, ma anche quelle dei penati e dei numi. Molti delitti, sacrifici, viaggi e gesti considerati impossibili secondo il senso comune di un certo periodo storico sono stati eseguiti sulla scorta di una richiesta emessa da una voce che appariva straordinariamente veridica e potente.

Uno degli uomini più abili nel farsi seguire dai propri simili fu Alessandro Magno. La sua eccezionalità riposa su svariati fatti grandemente noti: la capacità di condurre un esercito di peloponnesiaci fin dentro la capitale dell’impero che più li aveva minacciati nel corso della loro storia, la capacità di essere insieme uno studioso e un guerriero incredibile o quella di paragonare se stesso agli eroi omerici e non apparire vanesio. Meno note sono le implicazioni della sua spedizione nella Valle dell’Indo.

Come già chiarito dallo studio di Klaus Juhani Karttunen[1], il subcontinente indiano non era quasi per nulla noto in Grecia. Si sapeva soltanto che, oltre i territori iranici, c’era una vasta area abitata che aveva avuto soltanto dei rapporti commerciali trascurabili con i persiani finché la dinastia achemenide non aveva assunto il controllo dell’odierno Pakistan fino al Sindh, nonché della Bactria. A parte le informazioni corrette che da queste conquiste erano giunte all’intellighenzia delle grandi civiltà mediterranee tramite i logografi e fatte salve pochissime eccezioni personali, tra le quali spicca il caso del navigatore e geografo greco cario Scilàce di Cariànda (VI-V sec. a.C.), soltanto il mito e la favola trattavano di queste zone. Lo stesso Erodoto riuscì a reperire solo poche informazioni, che non sembrano provenire da località più distanti dell’Hindukush e della Gedrosia, dove comunque non si recò.

Si sa come funzionano le leggende: le diversità di una cultura o di un ambiente naturale sono amplificate dall’ignoranza finché esplodono nelle idee più assurde. Così la scarsità di dati certi si unì all’esotismo di alcuni tra gli stessi per fare dell’India una sorta di mondo al contrario nell’immaginario collettivo greco. Era cioè la terra delle assurdità, dell’Età dell’oro e dei mostri, dove gli esseri mitologici che nell’ormai civilizzato mondo mediterraneo non potevano più trovare spazio si erano presumibilmente spostati. Era il mistero che stava al di là dell’ecumene, ovverosia di quel mondo considerato pienamente umano sul quale era pensabile estendere un impero. Anche Eschilo e Sofocle citarono gli Indiani nelle loro tragedie[2], come abitanti di un luogo straripante d’oro situato ai confini del mondo, a testimonianza del valore simbolico che questo popolo sconosciuto andava assumendo nell’immaginario collettivo greco.

L’idea di una spedizione in quei territori, soprattutto al termine di conquiste senza precedenti, dovette apparire quantomeno strana e rischiosa ai macedoni, ma Alessandro era spinto da una sete di conoscenza che stava tranquillamente al passo con quella di potere. Egli desiderava sollevare il velo dell’ignoranza che gravava su quell’area e conoscere i popoli che vi vivevano, così diversi da quelli su cui regnava. La spedizione in India di Alessandro Magno aveva lo scopo essenziale di ricalcare le mitiche conquiste di Eracle e Dioniso, associandolo a figure che avevano dovuto lottare per vedersi riconosciuta la propria divinità. In tal senso, l’India doveva apparirgli quell’oltre-esotico e straordinario che tutti gli altri sovrani umani non avevano mai afferrato. La propaganda macedone del periodo pose spesso l’accento sull’ideale di catturare tutto ciò che era stato dominio di Dario e Serse, non solo quel che ne restava al loro infelice epigono Codomanno, ma è assai dubbio che Alessandro credesse nell’ipotesi di una vera e propria dominazione achemenide dell’India.

Alessandro partì nel 327 a.C. con un esercito di 100.000 unità, composto in larga parte da persiani, ma portò con sé molti greci dotati di una buona istruzione. Essi avrebbero cambiato per sempre la concezione che l’Occidente aveva dell’India, ma sfortunatamente le informazioni scritte rimasteci intorno a questa impresa sono davvero poche. Sappiamo che, alleatosi col re di Taxila, egli attraversò l’Uḍḍiyana (l’odierno Swat) e giunse nel Punjab nel 326, dove sconfisse il re indiano Purushottama presso il fiume Idaspe (Jhelum). Fondò quindi le città di Nicaea (Mong) e Bucefala (Jhelum).

Mediante l’Indikà di Arriano, conosciamo la testimonianza di Nearco di Creta (356-?), colui al quale Alessandro dette il compito di percorrere l’Indo e raggiungere Susa, lungo la costa marittima. Il suo diario è l’unica fonte antica che descriva le popolazioni litoranee del Makrān e fu usato da molti geografi successivi. Il timoniere e capo-pilota della stessa spedizione nautica, il cinico Onesicrito di Astipalea (375-300 circa), scrisse a sua volta un resoconto che tutte le fonti antiche ritennero inaffidabile. Come attestano i suoi frammenti, egli era un pensatore elegante, ma interessato più alle proprie idee che alla realtà. È molto interessante, però, il suo resoconto dell’incontro con i gimnosofisti. Alessandro, sapendolo un cinico, lo invitò a due miglia da Taxila per conoscere gli affascinanti filosofi nudi. Ce n’erano una quindicina, guidati da un guru chiamato Calano. Pare che deridessero apertamente l’uso di portare abiti, come una convenzione che ledeva il contatto con la natura da parte degli uomini. Fecero mostra di conoscere la fama di Pitagora, Socrate e Diogene di Sinope, stimandoli pur nel limite del loro basso attaccamento alle convenzioni sociali. Ai loro occhi, pare che nemmeno il cosiddetto Socrate Pazzo fosse abbastanza anticonvenzionale, ma Onesicrito giunse alla conclusione che fossero vicini al suo cinismo. È evidente che sfruttò il fascino dell’esotico per affermare la propria ideologia, sia nel descrivere questo incontro, sia nel descrivere l’utopica regione di Musicano. Fu tra l’altro il primo autore occidentale a citare lo Sri Lanka, chiamandolo Isola di Taprobane. Anche gli altri autori che parteciparono alla spedizione, come Carete di Mitilene, hanno lasciato frammenti colmi di mistificazioni e fantasie. Gli scrittori più realisti, come Tolomeo, non hanno invece lasciato quasi nulla sull’India. Si tratta, al più, di nozioni naturalistiche, come nel caso di Aristobulo di Cassandreia.

La mia scelta di parlare di questa spedizione per trattare la capacità di essere seguiti può apparire inappropriata, perché più volte si è sottolineato che gli uomini del re macedone, davanti al suo desiderio di raggiungere il Gange, votarono nel 325, presso il fiume Ifasi (Beas), di rimpatriare. Tale voto pose fine nel giro di un anno a ogni nuova esplorazione e conquista. Bisogna però capire che questo non dipendeva tanto dal loro essere così lontani da casa, quanto dall’avere già combattuto per una decade intera e dal fatto di sapere che c’erano già fin troppe terre da governare per pervenire a un consolidamento efficace. Inoltre il Regno Magadha stava approntando un esercito molto potente contro l’invasore e vincerlo avrebbe comportato perlomeno molti altri anni di lotte tra monsoni, malaria e una guerriglia che quasi costò la vita allo stesso Alessandro, ferito da una freccia presso Aorno (Pir Sar). Nessuno può essere seguito per sempre, ma nessuno è stato seguito più di questo brillante stratega macedone, capace di far superare a un’intera generazione e a popoli diversi ogni paura razionale e irrazionale, sino a portare il proprio nome e la propria conoscenza del mondo verso una gloria che davvero imperitura.

Note

[1] Klaus Juhani Karttunen, “India in Early Greek Literature”, in Studia Orientalia, 65, 1989, Helsinki, Finnish Oriental Society.

[2] Cfr. Supplici e Antigone.

di Ivan Ferrari

Autore

  • Laureato in filosofia, redattore della Rivista e socio collaboratore dell'Associazione culturale La Taiga dai giorni della loro fondazione, ha interessi soprattutto storici e letterari.