Breivik e Abdeslam: il bivio europeo

Derivative work from 'Sketch of Breivik' by Lukepryke, CC BY-SA

di Gianluca De Rosa

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L’orrore delle stragi e del terrorismo crea un clima teso: si inizia a considerare i colpevoli alla stregua di mostri. È necessario, tuttavia, fare un passo indietro rispetto all’accanimento e ritirare la pretesa di sorpassare i diritti umani.

Sven Mary assomiglia a una tartaruga sgusciata, ha quarantatré anni e di mestiere fa l’avvocato in Belgio. A dirla tutta è un principe del Foro, il legale più famoso del suo Paese e uno dei penalisti più rispettati in Europa.

Nella sua vita ha difeso gente del calibro di Fouad Belkacem, capo dell’organizzazione Sharia4Belgium, condannato a dodici anni di carcere perché aveva reclutato alcuni jihadisti da mandare in Siria, oppure Michel Lelièvre, che di anni se ne è presi venticinque perché complice del pedofilo e serial killer Marc Dutroux.

Non stupisce che Mary venga chiamato avocat des crapules, “l’avvocato dei cattivi”; nemmeno ha destato particolare scalpore una frase da lui pronunciata il dicembre appena passato, quando ha detto che se Salah Abdeslam, l’unico attentatore degli attacchi di Parigi del 13 novembre scorso sopravvissuto, si fosse rivolto a lui per l’assistenza legale, lo avrebbe accolto a braccia aperte nella sua cerchia di assistiti.

ECHR European Convention on Human Rights | Youtube upload 2012L’avvocato belga è la prova di come le aspirazioni abbiano una capacità tutta particolare di rovinare la vita alla gente: Abdeslam, una volta catturato dall’intelligence belga, si è proprio rivolto al nostro tartarugone preferito; da quel momento la vita dell’eccelso giurista è diventata un vero inferno. L’opinione pubblica belga, vicina a quella francese, non ha preso la notizia proprio benissimo: varie volte degli sconosciuti lo hanno aspettato sotto il suo studio per malmenarlo; per dei mesi sua figlia è stata accompagnata a scuola dalla polizia al solo scopo di proteggerla da attacchi dello stesso genere. Nonostante la sua lunga carriera e la sua fama, evidentemente difendere un terrorista di quel calibro a distanza di pochi mesi dalla strage è stato considerato troppo anche da un pubblico abituato a vederlo a fianco dei peggiori scarti della società.

In aprile Salah è stato estradato in Francia e da quel momento è seguito anche da un avvocatone francese, Frank Berton, il quale ha subito ricordato a tutti una cosa ovvia, ossia che anche i terroristi hanno il diritto di essere difesi.

Dall’altra parte del ring rispetto ad Abdeslam abbiamo Anders Breivik, un’altra star della strage organizzata che in un attacco avvenuto nel 2011, un po’ sull’isola di Utoya e un po’ nella città di Oslo, aveva ucciso settantasette persone e ne aveva ferite più di duecento.

Il signor Breivik ha concluso le sue vicende giudiziarie già da cinque anni: è stato condannato a ventun anni di galera, la pena più alta prevista dalla Norvegia, Paese che da tempo disconosce l’ergastolo. Detto ciò, ha fatto causa allo Stato per lamentare le proprie condizioni  patite durante la carcerazione.

Dall’alto della nostra esperienza con le prigioni italiane, possiamo effettivamente stupirci della sentenza della Corte norvegese nel dargli ragione: Breivik è detenuto presso il carcere di Skien, a due ore da Oslo, in un trilocale di 31 metri quadrati che offre una camera da letto, una palestra e una stanza lavoro dotata di scrivania, televisore, playstation e computer (senza connessione a Internet); in più ha una cucina e un bagno privato. A voler fare una stima, credo che un’ottima parte della gente che conosco – me compreso – vorrebbe passarci circa una o due settimane all’anno, solo per leggere e dormire in santa pace.

Eppure i giudici hanno accolto i suoi reclami, accordandogli un risarcimento di circa 35.000 euro: lamentava, infatti, che il suo completo isolamento, unito a perquisizioni anche notturne e al frequente obbligo di portare le manette, costituissero un «trattamento inumano o degradante», vietato dalla Carta Europea dei Diritti dell’Uomo (nello specifico, al suo articolo 3).

Non che Breivik nel frattempo sia cambiato granché, anzi sembra peggiorato: ancora si prodiga in saluti romani appena può, lo ha fatto anche nell’aula di udienza in cui si teneva questo processo recentissimo, celebrato nel suo interesse; qualche tempo fa ha chiesto «perdono ai militanti nazionalisti per non aver ucciso più persone».

Bene, so di avere appena giocato sporco, paragonando da un lato il comportamento di alcuni cittadini belgi che vogliono addirittura negare il diritto di difesa a un odiosissimo attentatore poco dopo le violenze e dall’altro la freddezza di un Tribunale norvegese, pronto ad accogliere le doglianze di un detenuto altrettanto mostruoso, a distanza di cinque anni da una (non meno odiosa né meno terroristica) strage. Non ci si può aspettare che la gente qualunque ragioni come le Corti penali, anestetizzate da anni di studi e da una certa esposizione a delitti anche molto crudeli; in più il tempo, essendo galantuomo, attutisce i dolori anche acuti.

Questo stratagemma, d’altro canto, mi serve a valorizzare un ragionamento già esposto, con grande intelligenza e acutezza, su la Repubblica da Giancarlo De Cataldo (che, bontà sua, è un magistrato rispettatissimo e uno dei migliori autori di gialli e noir che abbiamo in Italia).

Il punto è questo: Breivik è uno dei peggiori assassini che siano mai esistiti; mai toccato da alcun segno di ripensamento o resipiscenza. Prima degli attacchi ha scritto un manifesto ideologico di circa mille e cinquecento pagine (in un inglese curiosamente perfetto), un po’ autoassolvendosi dalle violenze che stava pianificando e un po’ cercando di ispirare altri «militanti». Quasi ottanta famiglie norvegesi non hanno potuto più abbracciare i loro cari, molti dei quali minorenni o molto giovani. Ciononostante, essendo anche Breivik un essere umano – per quanto deviato, odioso, depravato – è destinatario di tutte le garanzie che ogni paese europeo deve accordare; i giudici norvegesi (mi verrebbe quasi da chiamarli “gli Ermellini di Oslo”, la cui pelliccia calza a pennello per via del clima) hanno dimostrato una grande eleganza proprio nell’accorgersi di questo dato fondamentale e nell’agire di conseguenza.

Habeas Corpus è un diritto, sancito dalla Magna Charta Libertatum del 1215, nato per tutelare l'individuo da arresto e detenzione arbitrari.

Habeas Corpus è un diritto, sancito dalla Magna Charta Libertatum del 1215, nato per tutelare l’individuo da arresto e detenzione arbitrari.

L’Unione Europea ha recepito la Convenzione dei diritti dell’uomo, aggiungendole un primo articolo, che trovo bellissimo e quasi riassuntivo di tutti gli altri: «La dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e tutelata»; gli altri principi che seguono il primo ne sono quasi un dettaglio. Si dice, ad esempio, che «ogni persona ha diritto alla vita» e che la pena di morte è vietata; si dice anche che «nessuno» – neanche Breivik, neanche Abdeslam – «può essere sottoposto a tortura, né a pene o trattamenti inumani o degradanti».

Bene, senza guardare a quello che ha fatto Breivik, ma solo considerandolo come uomo, è chiaro che ha motivo di lamentarsi, se è costretto a cinque anni di completo isolamento. Un periodo così lungo sarebbe capace di far uscire di testa anche il più sano dei cervelli e in questo caso non stiamo proprio parlando di uno tutto a posto.

Ma i diritti dell’uomo coprono anche Abdeslam e il suo giusto processo: in un articolo ancora successivo si legge che «ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata […] equamente da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale sia chiamato a pronunciarsi […] sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti».

Ci sono voluti secoli per distillare questi principi. Secoli di soprusi e sofferenze delle peggiori, perché causate dall’autorità chiamata a reprimerle ed evitarle. Per ogni Breivik che, sbeffeggiando tutto e tutti, solleva il braccio destro ritto durante una pubblica udienza nella quale chiede dei soldi per cose che in ultima analisi meriterebbe, ci sono state centinaia di persone che hanno perso la vita, la dignità, la libertà, le proprie sostanze perché questi stessi diritti, da noi oggi visti come un lusso non necessario, non sono stati loro riconosciuti.

Questa è la forza di una bella frase che leggo nell’introduzione di questo numero: questa ritirata, questo passo indietro rispetto all’accanimento nei confronti di questi individui che hanno commesso atti disumani, lungi dall’essere una fuga, è indizio di forza: è la forza di un sistema penale vivo, sano e che si impegna a essere giusto, così conoscendo i propri errori e i propri limiti.

Autore

  • Laureato in giurisprudenza – mio malgrado –, al momento tirocinante presso un giudice penale del Tribunale di Milano. Giacché è giusto definirsi con le cose che si amano e null'altro, posso inanellare alcune passioni, tra cui Milano, i ristoranti etnici e tipici, la birra, la scrittura, la musica (addirittura strimpellata), nonché i videogiochi, i giochi di carte e tutte le altre attività che escludono a priori una qualche retribuzione o il fare bella figura.