Italian Gangsters – L’opera da tre calibri

di Amedeo Liberti

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Il lato oscuro della forza dominatrice piccola: le bande criminali. Come mostra il film Italian Gangsters, nascono da piccole unioni virili, convinte di poter lottare contro grandi nemici quali lo Stato e le leggi, a volte per un ideale di libertà, in altri casi per la mera passione del denaro.

Brecht diceva che è più criminale fondare una banca che rapinarla e in fondo io sono d’accordo.

 Horst Fantazzini

[… ] era questa la nostra guerrilla!

 Pietro Cavallero

[…] Farris era il vero ufficiale delle SS

 Paolo Casaroli

A guardare oggi la zona del quartiere Isola, con i suoi “rubacielo” di vetrocemento e quell’aria da downtown americana che offre al profilo estetico contemporaneo di Milano la normalizzazione metropolitana cui aspirava (ma che anche la condanna alla banalità delle megalopoli mondiali), ora che sono stati consegnati all’archeologia i vetusti ma affascinanti tratti della sua civiltà del vapore, mai si direbbe che lì, un tempo, ribollisse il brodo del crimine. O forse la realtà è diversa: i più disincantati e informati (magari con istinti anarcoidi come Horst Fantazzini) direbbero che di fatto il luogo ha solamente registrato un’evoluzione significativa, passando dai covi e dai bar fumosi della microcriminalità diffusa e spicciola del sottoproletariato urbano, ai giganti balugini di specchio, adeguati all’ospitalità della “legalcleptocrazia” globale: quella dei grandi istituti bancari e dei centri del potere finanziario e petrolifero.

Screenshot del film di De Maria

Italian  Gangsters Screenshot del film di De Maria

Italian Gangsters di Renato De Maria (già autore de La prima linea e Paz!) in fondo registra questo scartamento semiotico che non riguarda solo Milano ma un po’ tutta l’Italia (e forse tutto il mondo). Il film ci restituisce la storia e la psicologia di alcuni banditi che nell’arco di un trentennio, dai primi anni del secondo dopoguerra ai primi anni Sessanta, hanno fatto la storia (nefasta) non solo della Ligera (la mala milanese) ma di mezza Italia, occupando le pagine della cronaca nera, ben prima che a farlo fossero le striscianti e maggioritarie forze dominanti del crimine, quelle delle ‘ndrine, della mafia o delle forze corrotte di alcuni “colletti bianchi” della finanza. Si potrebbe dire che come un paesaggista registrerebbe l’evoluzione e la scomparsa dei landmarks (i segni del territorio), questo film registra l’evoluzione antropologica attraverso la narrazione di un certo tipo umano: il giovane criminale.

Quando le sirene del boom economico italiano erano ancora a venire (o albeggiavano appena) una manciata di giovani italiani, refrattari a ogni inquadramento nel nuovo ordine politico-economico, con ancora negli occhi le ingiustizie covate sotto i bombardamenti (e la rabbia allenata tra le fila dei partigiani e dei repubblichini durante la cosiddetta guerra civile), presero una strada differente da quella della maggioranza dei loro coetanei: la via del crimine. De Maria sceglie di farli emergere dal buio per farli parlare e farli presentare in prima persona: Ezio Barbieri, Paolo Casaroli, Pietro Cavallero, Luciano De Maria, Horst Fantazzini, Luciano Lutring; questi i loro nomi.

La Banda Casoroli, screenshot dal film di Vancini

La Banda Casaroli, screenshot dal film di Vancini

Italian Gangsters si pone a metà tra l’opera teatrale e il documentario, cosa che consente a De Maria non solo una certa fluidità in fase di montaggio, ma anche il lusso (di questi tempi) d’un certo approfondimento psicologico dei personaggi. In questo caso l’uso del termine non è generico. Infatti il regista, invece di mettere in sequenza una serie di filmati di repertorio, cosa anche piuttosto costosa dal punto di vista del copyright, ha preferito far impersonare agli attori il racconto delle gesta dei protagonisti. Da questa scelta il film guadagna non solo freschezza, ma anche una certa intensità, dato che lo spettatore, grazie al grande lavoro sugli (e degli) attori, vive la sensazione paradossale di ascoltare la confessione di una persona vera (invece che assistere alla rappresentazione di un personaggio). L’intensità è data anche dal fatto che i protagonisti, come si è detto, emergono dal buio per venire incontro alla luce (spiovente o di taglio) quasi si trattasse di figure caravaggesche (scelta più che appropriata visto che a parlare sono criminali), che narrano le loro peripezie guardandoci dritto negli occhi. Infine l’impianto filmico fa anche acquisire un corollario filosofico all’impianto documentaristico: De Maria fa parlare (e ci fa vedere) i morti (solo pochi di quei protagonisti sono ancora in vita) alla stregua di Platone, che nel suo “teatro filosofico”, ossia nei suoi dialoghi, mette in scena protagonisti della vita ateniese scomparsi (e il nome di Socrate valga per tutti).

Attraverso l’uso di filmati d’epoca, di gangster movies e di commedie all’italiana (Banditi a Milano, La Banda Casaroli, La classe operaia va in paradiso) il film di De Maria ci restituisce non solo la voce dei personaggi, ma anche una certa atmosfera e con essa le motivazioni (desunte dai processi o da interviste) di queste forze giovani che, seppure piccole o marginali, decisero di confrontarsi follemente con le forze maggioritarie dell’epoca, dominati da un totale sprezzo delle regole.

Italian Gangster inquadra personaggi che hanno a loro modo espresso un radicale rifiuto nei confronti del sistema di potere dell’epoca e delle forze di massa molare che l’incarnavano (l’industria, le banche e la triade repressiva polizia-magistratura-carcere) senza giudicare e senza cedere a facili spiegazioni sociologiche. Dalle parole dei protagonisti non emerge infatti la mancanza di alternative o l’idea del crimine come scelta obbligata dall’ambiente sociale; certo, anche questo fattore va messo in conto, come Barbieri e Cavallero spiegano nel momento in cui ricordano la vita che si conduceva all’Isola o alla Barriera di Milano («se Torino era la città più proletaria d’Italia la Barriera era il quartiere più proletario di Torino», dichiara Cavallero), ma è anche chiaro che, per quasi tutti loro, le cose avrebbero potuto andare in modo diverso. Alcuni avevano mostrato un certo talento negli sport (Barbieri, Fantazzini) o avevano ricevuto un’educazione musicale (Lutring), intellettuale (Casaroli) o anche avevano mostrato una certa attitudine alla politica (Cavallero). La scelta di vivere da banditi per molti di loro avvenne sulla spinta di altri fattori. Forse psicologici oppure, se un certo atteggiamento nei confronti della vita può essere definito così, persino sulla scorta di un certo “spirito vitale”; per alcuni di loro non mancavano poi motivi ideologici (Cavallero) e uno decise di affidarsi al caso (Casaroli).

A legare tutte le storie, il valore dell’amicizia (in alcuni casi quasi un viril amore) e la passione per il danaro, le auto di lusso e le belle donne. Insomma, un’unica forza domatrice, l’amore per la bella vita, veniva declinata in grande da notabili e banchieri e in piccolo dai banditi che li derubavano.

Un appunto: Italian Gangster è un film ossessivamente attento al politicamente corretto[1]. Luciano De Maria fu un bandito di grande charme, ma concentrarsi su di lui senza sottolineare l’appartenenza dei suoi compari di via Osoppo alle bande partigiane tradisce nel regista la preoccupazione di mantenere l’equilibrio tra la linea di “sinistra” (Cavallero) e quella di “destra” (Casiroli) del banditismo. Le loro storie sono ben delineate nel film, quanto quelle dei criminali  avulsi da ogni intento politico come Barbieri e Lutring, ma in questo gioco di pesi e contrappesi la storia (degna dei romanzi di Maurice Leblanc) dell’anarchico Horst Fantazzini ne fa però le spese. Nel film si parla esplicitamente di torture e di interrogatori al limite della legge a cui sono stati sottoposti un po’ tutti. Il caso di Horst sarebbe stato esemplare per sviluppare questa linea all’interno del film e avrebbe forse meritato qualche minuto in più. Per onorare un uomo, la cui unica piccola forza domatrice è stata l’aspirazione a una vita libera, anche a dispetto delle forze dominanti e maggioritarie della repressione, i suoi trent’anni passati in carcere tra torture varie e un numero di tentativi d’evasione paragonabili solo a quelli di Henri Charrière, forse sarebbe servito un film a sé.

Note:

[1] Cosa più che comprensibile dopo il polverone sollevato da La Prima Linea, accusato di accondiscendenza verso i terroristi.

 

Autore

  • È redattore de La Tigre di Carta. Dopo gli studi di Filosofia e in Analisi e Gestione dell'Ambiente e del Paesaggio, si dedica alla sua terza grande passione assieme a Pensiero Teoretico ed Ecologia, fare il videomaker. Un suo corto "La Banalità Del Mare" è stato accettato al XIII Siena Short Film Festival. Oggi lavora come proiezionista per la Fondazione Cineteca Italiana. In pratica è sempre al cinema.