Analitica e continentale: il conflitto superficiale

di Giorgio Cignarale

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È ormai passato un secolo da quando al circolo di Vienna un  gruppo di scienziati si propose di eliminare ogni sorta di metafisica dalle proprie teorie scientifiche. A quel tempo l’impianto formativo di stampo filosofico veniva messo in crisi dall’emergente mentalità scientista, coinvolgendo il panorama culturale in una battaglia senza esclusione di colpi. Oggi la situazione sembra essere ancora più grave. Se prima la battaglia era fra l’impianto filosofico e l’impianto scientista, oggi si combatte all’interno dell’ambiente filosofico.

Le parti che vengono chiamate in causa sono la filosofia continentale da un lato e la filosofia analitica dall’altro. Viene chiamata filosofia continentale un insieme di correnti filosofiche apparse all’inizio XX secolo: la fenomenologia, l’esistenzialismo, il post-modernismo, il post-strutturalismo e il decostruzionismo.

Con filosofia analitica si intende una corrente filosofica nata anch’essa agli inizi del XX secolo, grazie al lavoro di autori come Ludwig Wittgenstein, Bertrand Russell e George Edward Moore, portata avanti dal circolo di Vienna e applicata, oggi, a tutti quei pensatori che vi si rifanno a questi autori.

Possiamo subito notare che nella terminologia che divide le due scuole di pensiero ci sia un riferimento geografico. Infatti quella che viene chiamata filosofia continentale prende piede soprattutto in Francia e in Germania, mentre l’analitica appartiene tradizionalmente al mondo anglosassone, in particolare all’Inghilterra. Bisogna però precisare che il pensiero analitico riprende autori che hanno operato sul continente, fra i quali Frege, Wittgenstein, Rudolf Carnap, nonché di vari autori del circolo positivista di Vienna e dell’empirismo logico di Berlino. Di conseguenza la differenza geografica sembra non avere così tanto peso come sembra dalle denominazioni.

In cosa consiste dunque la differenza? Tradizionalmente si tende a enfatizzare la differenza di contenuti fra le due, sostenendo quindi che l’analitica ricerca la forma di ragionamento corretta, soprattutto nel rigore logico-formale del linguaggio, mentre la continentale si occupa di temi più ampi e generali, come possono essere il senso della vita, etc.

Si noti che questa distinzione è piuttosto banale e per niente esaustiva, perché non rende conto della complessità della ricerca da ambedue le parti. Se leggiamo un articolo di filosofia analitica, per esempio Epistemic Operators di Fred I. Dretske[1] – dove l’autore tenta di fondare una teoria della conoscenza in risposta agli argomenti scettici degli ultimi decenni del secolo scorso – ci rendiamo subito conto che non abbiamo a che fare solo con la ricerca di un corretto metodo di pensiero, ma con una teoria della conoscenza, un argomento molto vasto che investe tutta la sfera dell’agire umano.

Quindi possiamo concludere che la differenza è piuttosto nel metodo con cui si affrontano i problemi, nonostante le domande a cui si cerca una risposta siano le medesime.

Ora veniamo alle questioni più pratiche: esiste una scuola di pensiero favorita e una sfavorita? Penso che molto spesso la differenza sia stata volutamente ingigantita perché le due si ponessero in una situazione di scontro e non di incontro. La differenza di metodo non è una cosa da poco, poiché cambia totalmente la mentalità di approccio, ma ritengo insensato supporre che una debba per forza prevaricare sull’altra. Penso che il problema odierno, soprattutto nell’ambiente milanese, sia proprio questo: il pensiero analitico si sta imponendo come l’unica forma di pensiero ritenuta valida.

Mi è capitato di assistere a una lezione tenuta da un eminente professore (di filosofia “analitica”) esterno all’Università Statale di Milano. Dopo che ebbe esposto la sua tesi, a uno studente che gli chiese un confronto tra le sue idee e il pensiero di Kierkegaard, il professore rispose che quel genere di questioni le aveva studiate al liceo e che non le riteneva vera filosofia, ma inutile speculazione. Una tale modo di approcciarsi ai problemi, che porta una o più scuole a ritenersi detentrice dell’autentica e unica filosofia, sarebbe sempre da evitare.

La pretesa della filosofia analitica di essere l’unica valida è scorretta anche per ragioni interne all’ambito analitico. Infatti fu proprio Wittgenstein a ritenere che i problemi filosofici sono insolubili, e che è sufficiente porre in modo esaustivo il problema. Il punto è che per porre un problema in modo esaustivo non basta la coerenza linguistico-logico-formale, ma bisogna confrontarsi con tutte le scuole di pensiero che hanno riflettuto sul medesimo problema anche in termini meno rigorosi, poiché, per esempio, il problema della conoscenza che sopra ho citato è stato affrontato in maniera molto approfondita dal confronto fra la scuola stoica e l’Accademia scettica in epoca ellenistica, anche senza l’utilizzo rigoroso e sistematico del linguaggio che caratterizza la ricerca odierna. In altre parole, per poter affrontare un problema non basta la coerenza interna al linguaggio, ma bisogna anche tentare di comprendere il problema sotto vari punti di vista; solo così possiamo dire che la domanda è stata compresa ed esposta in modo adeguato.

Un altro punto cardinale contro le pretese dell’analitica ce lo offre Kant, il quale riteneva esistesse una forte connessione fra etica e metafisica, per cui tutti i problemi filosofici hanno anche un’idea valoriale (indipendentemente dal fatto che siano valori etici o epistemici). Questa tesi, ripresa parzialmente da Karl Popper, enfatizza il fatto che anche una mentalità “scientista” non è esente da valori; pertanto quando si sceglie un certo tipo di approccio a un problema, ciò avviene assumendo come certi alcuni valori (ad esempio che un linguaggio logico sia meglio di uno non logico). Ma anche questo è indicativo del fatto che, per comprendere appieno un problema, esso andrebbe affrontato sotto molti punti di vista e non da uno soltanto.

Questo perché la filosofia investe completamente la sfera umana, sia quella teorica che quella pratica e per questo non possiamo ridurre il contenuto della filosofia a un solo punto di vista.

Ora cerchiamo di capire perché la filosofia continentale non dovrebbe essere scartata da un corso di filosofia. Come abbiamo potuto osservare il metodo d’indagine analitico è molto vicino al metodo scientifico, per cui si scelgono una serie di criteri e si analizza la realtà seguendo determinate regole. Il vantaggio della filosofia continentale consiste nel fatto che non ha un solo metodo d’indagine, ma ne propone di diversissimi, ciascuno con i propri assunti e con le proprie conseguenze. Per questo ritengo che la filosofia continentale non possa essere esclusa da uno studio filosofico, perché la peculiarità di un corso di filosofia è che non propone un unico metodo con cui affrontare i problemi, ma ne indaga molteplici e offre a ciascuno la possibilità di scegliere il metodo che si avvicina di più al proprio modo di pensare. Questo è quello che rende un corso di filosofia così formativo rispetto a un qualsiasi altro corso, e proprio in virtù di ciò è fondamentale mantenere un’impostazione di insegnamento che racchiuda quanti più modi di pensare possibile e non esclusivamente di tipo analitico come si vorrebbe.

In questa particolare visione, la filosofia analitica non viene totalmente esclusa poiché non possiamo fare a meno delle recenti scoperte scientifiche nella sfera del conoscere, ma non ha senso affermare che esiste un solo metodo in grado di rendere conto di tutti i problemi a cui solo un’analisi filosofica completa può metterci di fronte.

Note

[1] F. I. Dretske, “Epistemic Operators”, in The Journal of Philosophy, vol. 67, n. 24, 24 dicembre 1970.

 

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Autore

  • Studente di filosofia a Milano con un concentrato di energie che, unite alla curiosità, lo spingono a interessarsi di moltissimi temi. Anche se apparentemente "contenuto" è mosso da forti passioni ed è sufficientemente versatile da non soffermarsi mai troppo su un solo punto.