XXI secolo: filosofia o (e) scienza?

di Jacopo Scionti

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Un interessante spunto di riflessione a partire dal quale rivolgere lo sguardo alla condizione della filosofia nel XXI secolo e al suo rapporto con le scienze moderne: crudele sopraffazione o nascita di una nuova metafisica? Il recente dibattito sulla questione per una filosofia scientifica, nato in seno al Dipartimento di Filosofia dell’Università Statale di Milano, ha da una parte suscitato preoccupazioni e timori in molti studenti e professori, dell’Ateneo e non, e dall’altra ha prodotto in me un sollievo senza pari, in quanto con esso ho notato che la possibilità di fare ancora un’attiva filosofia non è caduta in declino come lo sono invece la possibilità di predicare spiritualmente o di fare religione (le quali nel XXI secolo si sono ormai ridotte a una sterile superstizione, in cui uno vuole e può credere e un altro no). Il dibattito filosofico al contrario è ancora vivo, poiché trova sempre nuovo materiale su cui lavorare e da cui trarre nuove ispirazioni. E come «la buona conoscenza nasce dall’intuizione, procede col pensiero ed approda alle idee», così la buona intuizione nasce dall’ispirazione in cui, ogni tanto, capita di imbattersi, grazie anche agli stimoli forniti da queste ”turbolenze culturali”, sorte nel cuore dell’università. Per affrontare al meglio la questione vorrei riproporre una frase di Karl Popper, citata anche dal prof. Giulio Giorello nell’articolo di Luca de Vito, pubblicato per il quotidiano la Repubblica: «Noi non siamo studiosi di discipline, ma siamo studiosi di problemi». Affermando il vero spirito della filosofia, questa frase manifesta un’evidente necessità di distinguere la disciplina dal problema che essa vuole risolvere, alla stessa stregua di come Kant fece nel distinguere l’a-priori dall’a-posteriori. Ogni forma di sapere infatti nasce dall’esperienza, beninteso non da quella semplicisticamente vissuta (ossia quella quotidiana che ”percepisce”, ma non osserva) ma da quella che, in un certo modo, diviene problematica non appena smettiamo di percepirla (potremmo dire ”di viverla”) e iniziamo a osservarla. Difatti solo tramite l’osservazione possiamo far emergere la caratteristica problematicità che si accompagna a ogni esperienza, in virtù della quale formuliamo uno specifico insieme di saperi (cioè, per l’appunto, una disciplina) volto a risolverla. In altre parole, il problema è a priori, la disciplina nasce a posteriori e in mezzo si trova l’uomo osservante che, captato il problema osservando l’esperienza, formula delle dottrine atte a risolverlo. Così la filosofia (per limitarci a essa), nasce da quell’analisi che nota qualcosa di problematico (ossia di meraviglioso e di così poco comprensibile da generare stupore) non appena si rivolge a un certo dato di fatto nella realtà e risponde poi all’esigenza di fare emergere una certa razionalità in questo che, apparentemente, non ne mostra.

Così dunque essa si può congiungere alle altre scienze, dalla biologia alla fisica, dalla neuroscienza alla psicologia: tutte infatti condividono il presupposto, cioè il problema da risolvere all’origine nato dall’esperienza, mentre invece differiscono nell’esito, poiché prendono il nome di discipline diverse, che a loro volta formulano diverse (e talora anche contraddittorie) leggi teoriche e applicazioni pratiche.

Per comprendere meglio la questione, occorre impostare genealogicamente lo sguardo e svelare l’origine di quelle grandi discipline che, nel corso della storia umana, hanno cercato di fornire agli uomini le risposte di cui essi necessitavano. Molto genericamente, dal VIII-VII secolo a.C. fino all’epoca contemporanea, esse sono annoverabili nel numero di tre: religione (a partire da quella greco-orientale), filosofia e scienza. Anche l’ordine, che rimanda alle tre età comtiane della storia dell’uomo occidentale, non è casuale, poiché la prima fu il tentativo più spirituale e superstizioso di comprendere la realtà, la seconda fu quello più razionale (e reale, come Hegel sarebbe contento di farci notare) collegato al pensiero ragionato e la terza quello più concreto e deterministico, frutto del progresso tecnologico, medico ed industriale e basato sull’uso di leggi empiriche. La filosofia, dopo un breve peregrinare in autonomia, favorita nella diffusione di idee e pensieri dall’isegoria e isonomia greche, incontrò la religione e ne uscì tanto influenzata da dover generare una specifica riflessione a cui diede il nome di metafisica teologica o, più semplicemente, di teologia; essa venne definita come spiegazione filosofica, e quindi riflessiva, rivolta a quel mondo non fisico (o meglio al di là della fisicità), che la credenza nell’esistenza degli dei e delle anime, istigata nel cuore dell’uomo dalle stesse religione e superstizione, necessariamente spingeva a postulare. Successivamente, in età medioevale, ne venne completamente stregata al punto di diventare teologia. Solo a partire da Galileo Galilei e da Spinoza si ebbero i primi distacchi della filosofia dalla dimensione puramente religiosa, ma solo per rigettarsi nella più genuina metafisica classica di matrice aristotelica. Quindi, durante l’età medioevale e Scolastica la filosofia dovette sicuramente sperimentare una certa riverenza e inferiorità nei confronti della religione, tanto che a un certo punto “scomparve” in essa, divenendo un unico sotto il nome di teologia: ma solo per dimostrare poi di averla attraversata, elaborata, capita e infine essersene affrancata. Ora, mi sembra che la scienza sia una ”nuova religione” e che, nel XX secolo (e cosa ancora più evidente in questo appena iniziato), essa si ponga dinnanzi alla filosofia con la medesima autorità di come fece la religione un tempo. E la filosofia, a sua volta, si sta comportando verso di essa esattamente come si comportò anche verso la religione: cioè con un senso di timore e riverenza assieme, di preoccupazione per il proprio futuro e per la propria indipendenza ma, allo stesso tempo, col profondo desiderio di avvicinarla, di studiarla, di venerarla e, insomma, di comprenderla razionalmente. Stessa cosa insomma che cercò di fare verso la religione. Tutta questa preoccupazione, dunque, mi sembra largamente insensata: caratteristica della filosofia è di trovare e risolvere i problemi dell’esperienza umana che esulano dalla comprensibilità intuitiva. Essa nasce dall’osservazione di un problema su cui si inizia a riflettere ed è cosa ovvia e naturale il fatto che la scienza, esattamente come la religione, metta in luce un gran numero di nuovi problemi a cui la filosofia non può non rivolgersi se vuole continuare a svolgere il suo compito. Solo per fare un esempio, la felicità pensata nel passato come un moto dell’anima (toccando questa interpretazione metafisico-medioevale è impossibile non accorgersi dell’influenza religiosa nei confronti di tale pensiero, per cui è felice quell’anima mossa o sfiorata da Dio – dove tutto è posto su piano spirituale e metafisico), altro non è che l’attività frenetica di una molecola di miosina che, con estrema fatica e sicuramente poca felicità, trascina letteralmente una palla di endorfina lungo un filamento attivo della corteccia parietale del cervello. Ciò produce le sensazioni di felicità che tanto amiamo provare, e, come è evidente, il tutto avviene su un piano unicamente biologico, senza dover chiamare in causa interventi divini o provvidenziali di qualsiasi sorta. È quindi assolutamente evidente che la riflessione filosofica debba abbandonare la vecchia metafisica, costruita sotto la diretta influenza della religione proprio in quanto tentativo di fornire ad essa una spiegazione razionale o un’interpretazione laica, e dedicarsi ora alla scienza fondando una ”nuova metafisica”, ossia una nuova indagine non più diretta verso un mondo ”diverso” o ”idealmente perfetto” creato dall’immaginazione umana come frutto della sua incompletezza naturale (per cui la coerenza e la razionalità vengono immaginate come aliene a noi stessi e al nostro mondo e quindi vengono ricercate in un altro), ma verso un mondo interiore, quello dell’infinitesimamente piccolo, quello che a buon diritto dovrebbe essere chiamato ”meta-fisico”, in quanto contiene realmente ciò che sta davvero oltre la fisica (ossia oltre la struttura fisica del mondo quotidiano di cui abbiamo esperienza). Esso non è altro che quella micro-struttura che compone la realtà ma che non ci è direttamente accessibile attraverso l’esperienza, proprio come non lo era il mondo ideale della metafisica classica ma che, diversamente da quest’ultimo, mostra immediatamente e di per sé coerenza e razionalità. E anzi esso ci mostra, senza ricorrere a inutili invenzioni o costrutti metafisici, che l’apparente caos del mondo fisico in cui viviamo è perfettamente ordinato alla sua base, nel modo migliore possibile.

Ci svela una possibile lettura della deduzione leibniziana secondo cui noi viviamo nel mondo migliore possibile: non per noi, beninteso, ma per il mondo stesso. Con questo ragionamento si può infatti sostenere che uno tsunami oggi eviti qualcosa di ben peggio in futuro. Sarebbe dunque estremamente interessante e stimolante studiare dal punto di vista autenticamente filosofico questa relazione tra sistemi micro- e macro- (esattamente come avviene in informatica) e notare quali tipi di variazioni dei primi determinano effetti migliori o peggiori nei secondi. Dunque, per non divagare e tornare rapidamente alla questione principale, è comprensibile il fatto che molti professori si siano spaventati di fronte alla volontà di permettere ufficialmente una scientificizzazione della filosofia e mi sento di condividere le ragioni del professor Trabattoni, quando afferma che occorre arginare la macabra tendenza che mira a trasformare la filosofia in una scienza (come se ciò che non è scienza non meritasse considerazione, un po’ come accadde un tempo verso ciò che non era “religioso”), proprio per difenderne la specificità e l’autenticità nel suo esclusivo campo di ricerca, che può sicuramente comprendere la scienza ma che non deve assolutamente diventarlo in tutto e per tutto. Ritengo che le preoccupazioni del prof. Trabattoni siano giustificate anche da un punto di vista storico: la filosofia divenne religione in età medioevale, per poi affrancarsene a fatica e non prima di aver tentato in tutti i modi di giustificarsi. Ora il professore vuole forse solo evitare che la filosofia diventi scienza, affinché essa non ripiombi in quella servitù che ebbe da patire divenendo teologia. E tuttavia si deve anche sottolineare che la filosofia, entrando e uscendo dalla religione, ne fu accresciuta, poté maturare e, in una sola parola, riuscì a evolvere. Non ci sono quindi buone ragioni per credere che ciò non possa accadere anche nei confronti della scienza, tanto più se la penetrazione filosofica viene accudita e tenuta sotto controllo dai nostri grandi professori, i quali, invece di litigare e separarsi, dovrebbero mettersi all’opera più uniti che mai, tanto per salvaguardare e venerare la tradizione (poiché senza ciò che ci ”trasciniamo dietro” non possiamo porre nulla di nuovo in avanti), quanto per cavalcare l’onda del progresso umano, affinché la filosofia non divenga una sterile riflessione fine a se stessa sui problemi del passato, ma continui a essere anche un’attività di ricerca rivolta alle questioni scientifiche del futuro che sempre di più premono per essere razionalmente organizzate, studiate e filosoficamente categorizzate. E, in conclusione, non dovremmo mai dimenticare come nasce la vera Filosofia. L’Amore per il sapere. In tutte le sue forme. Pensare alle scienze moderne come un qualcosa che non si debba far rientrare nel campo della filosofia è errato, tanto quanto credere che il termine filosofia sia anacronistico per definirle tutte, al di là dei loro contenuti: essa infatti rappresenta l’essenza e l’unità più intima dell’umanità europea e scomparirà solo quando anche quest’ultima avrà fine. La filosofia è lo spirito dell’Europa, è la sua anima, presente, passata e futura. Le scienze, semplicemente, altro non sono che una specifica filosofia applicata o, se si preferisce, una filosofia sperimentale: incarnano infatti quell’amore per la scoperta, quella voglia di conoscere con curiosità indomabile che, di matrice filosofica, provando e mai arrendendosi in ogni campo, ha conseguito risultati così strabilianti da non poter più essere annoverati sotto uno stesso titolo e, per forza di cose, da dover essere catalogati e gerarchizzati coi nomi delle varie scienze. Tutto il sapere, di qualsiasi natura esso sia, nasce da un profondo amore dell’uomo per l’uomo e, soprattutto, per la complessità che esso cela dentro e fuori di sé: essa infatti non smette mai di suscitare stupore nel nostro cuore e domande nella nostra mente a cui, tentennando e arrischiando, cerchiamo infinitamente di dare risposta.

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