La diaspora della filosofia

di Alessandro Vigorelli Porro

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Le recenti vicende che coinvolgono il Dipartimento di Filosofia dell’Università degli Studi di Milano interrogano e inquietano tanto gli studenti quanto la compagine culturale che nell’università trova il proprio epicentro. Non sono solo gli studenti universitari a essere interpellati da questo rivolgimento, ma in un certo senso è la concezione stessa di “università” a venirne scossa, non foss’altro che per la storica importanza della filosofia all’interno dell’istituto universitario.

Per prima cosa – Polibio parlerebbe di profasis – questi eventi impongono una riflessione a noi studenti, ex studenti, aspiranti dottorandi e accademici (ma in maniera non dissimile questa riflessione si impone a ogni appassionato di filosofia): occorre interrogarsi a fondo sul ruolo della filosofia in università, pensarne i limiti e problematizzarne le prospettive future.

Tanto vale formulare il mio dubbio esplicitamente e non nascondermi dietro le coltri dell’allusione: la filosofia continentale, cioè quella disciplina che si considera erede dell’ininterrotta tradizione vecchia di 2500 anni e nota al mondo come “filosofia”, è ancora “di casa” in università? Ossia, quella parte della filosofia che pone al centro del proprio operare il dialogo con la tradizione non potrebbe trarre vantaggio da un’eventuale uscita – un “divorzio”, per così dire – dall’università?

Se le tristi vicende del nostro dipartimento rappresentano la profasis (l’evento scatenante e, talvolta, il pretesto), il generalizzato stato di disfacimento della tradizione continentale in tutta Europa rappresenta l’aitia (cioè, sempre con Polibio, la causa profonda) di questa domanda. Basta avere gettato un occhio agli atenei europei, per non parlare di quelli d’oltremanica o d’oltreoceano, per accorgersi che la tradizione continentale è in rotta, tanto istituzionalmente (come attesta la riduzione di fondi e cattedre) quanto concettualmente.

D’altronde ogni studente e appassionato di filosofia si chiede dove siano i grandi animatori del dibattito filosofico della nostra generazione (quelli che per le generazioni precedenti erano gli Husserl, Heidegger, Derrida, Foucault etc.). Dove sono finiti i maestri? Questa domanda non vuole insinuare che la filosofia sia morta – come se il dibattito filosofico si fosse semplicemente spento da un giorno con l’altro – ma rappresenta e descrive lo spaesamento presente nel panorama filosofico e fatto proprio dagli studenti, i quali non riescono più a rintracciare i punti focali attorno ai quali si orienta la discussione. Sarebbe ingiusto accusare i diversi Sloterdijk, Badiou, Žižek (giusto per citare i primi nomi di filosofi attuali che mi vengono in mente e senza contare i grandi pensatori italiani) di essere poco originali o improduttivi ma, d’altra parte, proprio il fatto che queste figure non abbiano generato intorno a sé una “scuola” è indice del fatto che siamo davanti a un cambiamento enorme nel rapporto tra la filosofia e il luogo in cui la filosofia ha originato le proprie scuole negli ultimi tre secoli, ossia l’università.

Da questo interrogativo sul ruolo del maestro – e quindi sul ruolo del filosofo in rapporto al luogo dove si esercita la filosofia – muove la domanda sul futuro della filosofia, o quantomeno della corrente “continentale”, nell’università. Il resto: bagarre, lotte per il potere, liti, riduzioni di fondi, non sono che eventi scatenanti che danno l’occasione di interrogarsi sulla questione. La filosofia è ancora di casa in università? Con una provocazione, che poi non è solo tale, azzarderei un “no”. La direzione verso cui mi sforzo di pensare – e ammetto che questa riflessione per il sottoscritto assume una decisa portata esistenziale, dato che sono orientato verso il dottorato e da esso dipendono le mie personali scelte di vita – è che questo “no” non sia un naufragio per l’attività filosofica, ma che al contrario possa essere un’occasione per superare quei limiti che la presente e incancrenita situazione universitaria ha posto in evidenza.

Le svariate cause di questo scollamento – se non, addirittura, “divorzio” – sono moltissime e non ha senso elencarle in questa sede. Vorrei, però, mettere a fuoco alcune di queste cause perché possono aiutare a gettare luce sia sulla presunta divisione fra “continentali” e “analitici”, sia sul possibile futuro della filosofia fuori dall’università. Una delle ragioni della divergenza tra filosofia e università è che quest’ultima è diventata sempre più da un lato una sorta di scuola professionale, dove la forza lavoro apprende un mestiere che andrà poi esercitando nel resto della vita, e dall’altro il luogo dove si produce conoscenza secondo il ben collaudato e funzionale metodo scientifico. Anche per questo motivo un punto di scontro fondamentale fra cosiddetti “analitici” e “continentali” è rappresentato dalla posizione della filosofia nei confronti della scienza, e più in generale nei confronti del metodo di produzione del sapere che è proprio del metodo scientifico.

È difficile negare che il paradigma scientifico rappresenti il modello più funzionale (si potrebbe quasi dire “vincente”) di produzione del sapere all’interno del panorama accademico. Questo paradigma, che enfatizza l’importanza del dato e l’accumulo seriale di conoscenze volte all’edificazione di un sistema coerente, è efficiente proprio perché nel creare una struttura organizzata permette la fungibilità del sapere allo scopo di produrre nuove conoscenze su cui continuare a edificare. È un circolo efficace, nel senso che come risultante di questo moto circolare del sapere si producono effetti che sono sotto gli occhi di tutti, ma cionondimeno è un modello estraneo alla filosofia continentale, per la quale non a caso è una fatica adattarvisi. O non si adegua o, quando lo fa, tende a chiudersi nella specializzazione, nella protetta area del dibattito fra tecnici, nella particolarizzazione di un sapere storico-critico sconnesso tanto dalle istanze dell’attualità quanto dal sostrato profondo della speculazione filosofica. Il modello che si adatta così bene alle esigenze proprie dell’istituto universitario appare inadeguato alla filosofia continentale, o forse sono semplicemente incompatibili, e proporre di adattare la filosofia continentale al “modello scientifico” vigente suona assurdo quasi quanto proporre un modello di “fisica postmoderna” o “chimica dialettica”.

In questo quadretto che ho tratteggiato, le rivendicazioni dei continentali “fedeli alla linea” della centralità della filosofia in università, quando non sono dei semplici anacronismi, appaiono come gesti arroganti, che non tengono conto né di che cosa sia l’università del XXI secolo, né di cosa possa veramente fare la filosofia all’interno di essa. È la stessa arroganza di chi liquida frettolosamente la corrente analitica derubricandola a non-filosofia, un atteggiamento infantile che, il più delle volte, appare motivato da invidia per il crescente prestigio della filosofia analitica nei dipartimenti europei, più che da un vero e proprio antagonismo accademico. A guardare la situazione con lo sguardo libero dalla nostalgia dei bei tempi andati, appare evidente che la filosofia analitica riesca molto meglio ad adattarsi alle esigenze produttive richieste dall’università rispetto alla corrente continentale, ed è probabilmente questa causa in primis a determinare un maggior successo degli analitici negli atenei europei. Questo significa che dobbiamo diventare tutti analitici? A mio avviso, no. Per chi, come il sottoscritto, è innamorato della nostra tradizione e pensa che essa abbia ancora moltissimo da dire “al” e “con” il mondo di oggi, questa strada è impercorribile. Ma ancor più insostenibile è la posizione dell’austero filosofo che pretende di spiegare al mondo come dovrebbero andare le cose e, davanti agli enormi cambiamenti che interessano il tessuto socio-culturale (università per prima), rivendica l’astratta superiorità di modelli passati, inefficaci, nostalgici, o peggio ancora li ripropone come attuali.

Dunque, quale strada si apre effettivamente davanti a noi studenti, appassionati e magari aspiranti dottorandi o filosofi “de facto” (scrivere “di professione” rischierebbe di sembrare una battuta dopo quanto scritto)? Un’eventualità su cui vale la pena di riflettere a fondo è, come ho già anticipato, la possibilità di un “divorzio” tra quella parte della filosofia che si considera erede e continuatrice della tradizione e l’università. Tale inedito – o quantomeno impopolare – dibattito ci si impone in questo preciso momento storico per un motivo e, prescindendo dalla posizione individuale di ciascuno, non può che essere un bene per la filosofia sia analitica che continentale. Guardare in faccia la concreta possibilità che nel giro di un trentennio la filosofia continentale possa essere estraniata dall’università – in esilio volontario oppure marginalizzata fino all’annichilimento – è un’incredibile opportunità per il pensiero, perché ci dà l’occasione e il distacco critico per ragionare sulle storture che coinvolgono il nostro modo di fare, parlare e scrivere di filosofia.

Per non lasciare questa “occasione” oscura e indeterminata come un presentimento oracolare vorrei chiudere con un esempio. Una “stortura” che salta all’occhio guardando il panorama filosofico attuale all’interno dell’università è un certo ripiegamento storico-critico che comporta un’assoluta predominanza dei testi di critica ad autori del passato rispetto alla produzione di nuove opere filosofiche e all’apertura di inediti spazi di confronto con la tradizione. L’antica metafora dei «nani sulle spalle dei giganti» appare ribaltata e oggi ci ritroviamo nella scomoda posizione del nano schiacciato dall’enorme peso del gigante. L’eventualità di un divorzio tra filosofia e università ci permetterebbe di uscire dalla prospettiva della filosofia come disciplina (con tutto il peso che la tradizione assume all’interno delle discipline) e di pensare nuovamente la filosofia come attività, come l’atto del dialogare (e porsi in ascolto) con il mondo per mezzo della tradizione e con la tradizione tramite il mondo.

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Autore

  • Studente di filosofia laureatosi al corso triennale con una tesi focalizzata sull'hegelismo e, dopo un'esperienza di studio a Venezia, al corso magistrale dell'università milanese, presso la cattedra di Storia della filosofia ebraica. Attualmente, è intenzionato a svolgere un dottorato, sempre sul solco del pensiero ebraico.