Recidere il destino

di Luca Siniscalco

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Una risposta alla rubrica interna di filosofia, per estendere l’interpretazione del “morso che spezza” in rapporto al pensiero di Nietzsche, a partire da un passo emblematico dello Zarathustra. La recisione del tempo, per incidere se stessi nel crisma del nuovo, allude anche al pensiero orientale.

Mordere il cappio che costringe l’uomo, serrando i denti in una distruzione liberatoria. Recidere il nodo di Gordio, imponendo oltre ogni ostacolo una progettualità rinnovatrice. Un contributo filosofico decisivo al tema del “morso che spezza” proviene da Nietzsche, in qualità di distruttore par excellence e inauguratore di una filosofia condotta col martello. Se un’accurata analisi degli spunti nietzscheani è stata efficacemente sviluppata nell’articolo di Stefano Geatti, nel mio breve intervento vorrei soffermarmi su un’immagine tratta da Così parlò Zarathustra, estremamente emblematica, a mio avviso, non soltanto quale esemplificazione della prassi filosofica del nichilista attivo, ma anche come puntuale rilettura ermeneutica dell’esagramma 21 dell’I King.

All’inizio della terza parte di Also sprach Zarathustra si palesa la celebre immagine de La visione e l’enigma. Il tono profetico e visionario del brano lascia trasparire una scena di vivida concretezza: un giovane pastore si rotola a terra, stremato dalle convulsioni, soffocato da un nero serpente strisciato nelle sue fauci. Zarathustra tenta di aiutarlo, sforzandosi di strappare via il serpente, ma ogni sforzo è vano. All’improvviso – narra Zarathustra – «un grido mi sfuggì dalla bocca: “Mordi! Mordi! Staccagli il capo! Mordi!”» [1]. Il pastore segue le indicazioni del misterioso profeta, sputa la testa del rettile lontano da sé e risulta mirabilmente trasfigurato: «Non più pastore, non più uomo, – un trasformato, un circonfuso di luce, che rideva! Mai prima al mondo aveva riso un uomo, come lui rise!» [2].

Il giovane pastore, innalzatosi a uomo nuovo, quale Übermensch trasvalutatore di ogni valore, non è che un riflesso di Zarathustra stesso. Il serpente è un’altra epifania simbolica – questa volta ancor più tradizionale – del nano che pesa sulle spalle di Zarathustra, lo spirito di gravità, il pensiero dell’eterno ritorno quale macigno che trascina verso il basso. L’eterno ritorno è difatti consapevolezza destinale passibile di due eterogenee chiavi interpretative: da un lato, si tratta di una ripetizione ciclica degli accadimenti, eternamente ritornanti secondo una legge di reiterazione cosmica; d’altra parte, l’eterno ritorno si configura come il perenne rinnovamento di ogni scelta, che, nel momento della de-cisione, spezza un ritmo, dona forma e determina una novità capace di eternizzarsi. Zarathustra invita a recidere il capo del serpente che invoca la ripetizione dell’uguale – metastasi incapacitante rispetto ad ogni velleità trasfiguratrice, come individuato anche in ambito psicoanalitico –, abbattendo così l’ostacolo della pretesa oggettività temporale, per configurare ogni nostro attimo come frammento dell’eternità. «Il morso non è altro che l’attimo de-ciso dall’uomo che si eternizza per sempre. Infatti, il pastore che mordendo stacca la testa del serpente si trasforma […] È il riso del fanciullo eracliteo che in un attimo crea una nuova eterna configurazione del mondo» [3].

La visione nietzscheana si compone così di una pars destruens, la distruzione delle tavole di valori reificate e della folle saggezza del senso comune, e di una pars construens, una nuova Weltanschauung, una visione del mondo, cioè, che sia innanzitutto metànoia, rivolgimento interiore. La lotta fra il pastore e la serpe è uno scontro fra lo spirito rinnovatore di Dioniso e Zarathustra e l’oppressione della metafisica tradizionale. Per riconquistare la congiunzione della persona, lacerata dal dualismo teoretico e dal cartesianesimo, bisogna mordere energicamente l’ostacolo, cercando di spezzarlo.

«La serpe priva di testa è la sapienza priva di punta: “innocenza del fanciullo e oblio” è accettazione del fatum tragico, vittoria dell’amor fati sull’horror fati» [4].

La serpe, che è spleen baudelaireiano, noia del già vissuto, disperazione causata dall’iterazione senza fine della tragicità dell’esistenza, assurge, una volta recisa, a marchio aurorale di una nuova temporalità. La descrive efficacemente Franco Rella: «L’eterno ritorno sta nell’attimo, nella sospensione, nella sincope, nella cesura in cui il tempo passato e il tempo futuro “si contraddicono a vicenda”, “sbattono la testa l’un contro l’altro”, convergendo proprio in questa contesa, nella sospensione che questa contesa apre nel tempo: sospensione che rappresenta lo spiraglio da cui l’eterno entra nel divenire (l’aion entra nel chronos)» [5].

L’eterno ritorno si rivela quindi non principio d’identità fra eventi che si ripetono, bensì pensiero sintetico, in cui l’attimo permette di spiegare il passaggio temporale, il fluire fra passato e futuro tramite la mediazione del presente. Lo ha rilevato acutamente Gilles Deleuze, che in uno studio sulla filosofia nietzscheana afferma: «Nell’eterno ritorno l’identità non indica la natura di ciò che ritorna, ma, al contrario, il ritornare del differente; perciò l’eterno ritorno dev’essere pensato come sintesi: sintesi del tempo e delle sue dimensioni, sintesi del diverso e della sua riproduzione, sintesi del divenire e dell’essere che si afferma dal divenire, sintesi della doppia affermazione» [6].

Saranno le conseguenze teoriche di questa formulazione a condurre il filosofo tedesco all’elaborazione del concetto di Wille zur Macht (“Volontà di Potenza”). Sono le movenze adottate dal pensiero di Così parlò Zarathustra a riportarci all’esagramma 21 dell’I King, individuando un nesso affascinante fra un addentare che in Oriente può alludere persino all’uccisione del Buddha e un morso che Nietzsche concepisce come un re-cidere il tempo per in-cidere in esso il crisma del nuovo. Un misticismo dell’azione che può suggerire interessanti accostamenti [7].


Note:

[1]    Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, versione e appendici di M. Montinari, nota introduttiva di G. Colli, Adelphi, Milano 2010, pp. 185-186.

[2]    Ivi, p. 186.

[3]    Francesco Cardone, Lo Zarathustra di Nietzsche, in www.filosofico.net.

[4]    Massimo Canepa, Friedrich Nietzsche. L’arte della trasfigurazione, Mimesis, Milano 2012, p. 87.

[5]    Franco Rella e Susanna Mati, Nietzsche: arte e verità. Una introduzione, Mimesis, Milano 2008, p. 37.

[6]    Gilles Deleuze, Nietzsche e la filosofia, a cura e trad. it. di F. Polidori, Einaudi, Torino 2002, p. 73.

[7]    Per un possibile accostamento della filosofia nietzscheana al pensiero orientale, cfr. A. Coomaraswamy, La visione cosmopolita di Nietzsche, in La danza di Śiva, trad. it. di G. Marano, Adelphi, Milano 2011.

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Autore

  • Professore incaricato di Estetica (Università degli Studi di Milano-eCampus-UniTreEdu), collabora a varie realtà culturali e editoriali come autore, curatore ed editor. Nel tempo libero è sabotatore culturale. È nella redazione esterna de La Tigre di Carta.