L’esercito in Agostino

di Stefano Simonetta

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In Agostino l’individuazione di un sentiero stretto percorrendo il quale sia possibile conciliare la morale evangelica con l’esigenza storica della guerra passa attraverso un utilizzo della figura dell’esercito in quanto metafora e – a un tempo – esempio di ciò che contribuisce all’ordine e alla bellezza, pur apparendo negativo in sé.

Nel mare sconfinato (e – si è tentati di aggiungere – per lo più «amaro»[1]) della testualità agostiniana l’immagine e il tema dell’esercito figurano in numerose pagine, come appare naturale a chi consideri l’entità assunta dai fenomeni bellici e, più in generale, da tensioni e conflitti in quell’autentica età dell’angoscia che fa da sfondo agli scritti di Agostino.

In particolare, in uno dei suoi dialoghi filosofici la cui stesura iniziale risale agli anni del soggiorno milanese, l’esercito, in quanto formazione militare schierata in campo aperto, funge da efficace metafora dell’estrema difficoltà che gli esseri umani incontrano nel cogliere la bellezza, l’ordine e l’armonia che contraddistinguono il mondo, spingendosi con lo sguardo oltre l’apparente caos che sembra dominare la loro vita e quella dell’intero universo; «analogamente – scrive Agostino – un soldato in una schiera non è in grado di valutare con la dovuta ammirazione l’ordinamento complessivo dell’esercito»[2]. Solo chi, grazie alla capacità di elevare gli occhi della propria mente, acquisisca una visuale migliore – come il comandante che rimiri compiaciuto da un’altura l’abilità con cui ha disposto sul terreno le forze ai suoi ordini – può prendere in considerazione la totalità delle cose e, da buon «soldato della filosofia»[3], scorgere nell’insieme ordinato del cosmo, nel fatto che ogni sua porzione (incluse quelle apparentemente più sgradevoli) sia collocata al suo posto, le tracce della presenza di un Dio che è all’origine di quell’ordine, «misura suprema del tutto».

Altrove, tuttavia, l’esercito, inteso come corpo di coloro la cui professione prevede l’uccisione di altri esseri umani, rientra fra gli esempi di cose che, a dispetto della loro natura «tetra»[4], concorrono al disegno stabilito da Dio. In quello straordinario trattato di teologia della storia che è La città di Dio le guerre che i militari sono chiamati a combattere risultano il mezzo attraverso il quale la provvidenza divina «normalmente riscatta e demolisce i costumi corrotti degli uomini malvagi e, nel contempo, educa la vita giusta e lodevole degli altri, per farla giungere, così provata, a una condizione migliore»[5]. Nella visione agostiniana, Dio permette o, talora, ordina un conflitto (come pure l’instaurarsi di un regime tirannico) con l’obiettivo di «ripagare ciascuno secondo i propri meriti e intimorire i degni»[6]: i soldati impegnati in questo genere di operazioni militari approvate da Dio non trasgrediscono il quinto comandamento, poiché «non si può dire che uccida chi è semplice esecutore di un ordine, così come la spada è soltanto uno strumento in mano a chi la usa»[7]. Nel suo epistolario, del resto, Agostino rileva più volte come il Vangelo non contenga una condanna inequivocabile della guerra e non comporti quindi necessariamente un pacifismo radicale: «Se la dottrina cristiana condannasse ogni specie di guerra, ai soldati che nel Vangelo chiedono il consiglio per salvarsi, prescriverebbe di gettar via le armi… Invece è stato detto loro: … siate contenti della vostra paga»[8].

La soluzione proposta da Agostino per conciliare la morale evangelica e la partecipazione ad azioni militari si regge sulla distinzione fra stato d’animo e comportamento esteriore: un buon cristiano che si trovi a prestare servizio nell’esercito imperiale (o in un altro) può combattere, quando ve ne sia la dolorosa necessità, purché lo faccia per amore, anziché per desiderio di nuocere agli altri o per brama di dominarli. Ed ecco allora l’invito – a prima vista (solo a prima?) paradossale – a «essere pacifico anche nel fare la guerra»[9], ad attenersi ai precetti evangelici «nel segreto del cuore»[10], laddove sussistono invece casi in cui sul piano dell’azione esteriore deve risultare manifesta un’asprezza volta al bene di coloro che ne sono fatti oggetto, ai quali si fa violenza per privarli della possibilità di compiere il male.

Note

  1. Cfr. Aurelio Agostino, Enarrationes in Psalmos, LXIV, 9, in Commento ai Salmi, a cura di M. Simonetti, Mondadori, Milano 1988, p. 209.
  2. Agostino, De Musica, VI, xi, 30, in Tutti i dialoghi, a cura di G. Catapano, Bompiani, Milano 2006, p. 1591.
  3. «Vel etiam dux»: Agostino, De Ordine, II, iv,12, in Tutti i dialoghi, cit., p. 387.
  4. Si confronti De Ordine, II, v, 14, cit., p. 383: «Che cosa vi è di più lugubre di un carnefice? Eppure è inserito nell’ordine di una città».
  5. Agostino, De civitate Dei, I, 1, in La città di Dio, a cura di L. Alici, Rusconi, Milano 1990, p. 83.
  6. Agostino, Contra Faustum Manichaeum, XXII, 74, in Contro Fausto Manicheo, a cura di U. Piazzani et al., Città Nuova, Roma 2004, p. 575.
  7. De civitate Dei, I, 21, cit., p. 111.
  8. Agostino, Ep. 138, 2, 15, in Lettere, vol. 2, a cura di L. Carrozzi, Città Nuova, Roma 1971, p.187.
  9. Agostino, Ep. 189, 6, in Lettere, vol. 3, a cura di L. Carrozzi, Città Nuova, Roma 1974, p. 199.
  10. Ep. 138, 2, 13, cit., p. 185.

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Autore

  • Professore associato di Storia della filosofia medievale presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università degli Studi di Milano. Nell’anno accademico 2014-2015 tiene un corso monografico dal titolo Uccidere senza mai perdere la tenerezza: il tema della guerra giusta nella riflessione medievale.