Come in True Detective

Truth word newspaper, Perana Jangam

Truth word newspaper, Perana Jangam

di Gianluca De Rosa

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I casi di cronaca ispirano e superano quelli inventati per la televisione e il cinema. Purtroppo televisione, telegiornali e stampa possono a loro volta influenzare il corso della giustizia.

Quest’estate, complici il caldo terrificante e la necessità di stare in casa abbarbicato al condizionatore, ho avuto modo di guardare True Detective, serie televisiva americana di cui – se non siete degli eremiti – avete certamente sentito parlare. Quel meraviglioso prodotto da piccolo schermo vede due poliziotti investigare su una serie di omicidi; la trama ha preso spunto da alcune vicende realmente accadute, una delle quali è quella che mi accingo a raccontare.

Non so quanti conoscano West Memphis, una cittadina dell’Arkansas vicina alle sponde del Mississippi, che conta ventiseimila anime e vanta primati solo nel bere whisky e nel bigottismo religioso; io stesso ne ignoravo l’esistenza fino a poco fa e me la immagino immersa nel Bayou cantato dai Creedence Clearwater Revival.

La sera del 5 maggio 1993 la stazione di polizia competente ricevette una telefonata: si erano perse le tracce di tre bambini di otto anni. I piccoli cadaveri vennero ritrovati il giorno dopo sul fondale limaccioso di un torrente che senza fantasia confluiva nel Mississippi. Le vittime erano state seviziate brutalmente, tanto che si pensava a un rituale satanico.

Il sangue ha sempre saputo farsi parecchia pubblicità: i piccoli uffici del comando non erano capaci di sostenere il peso mediatico della faccenda e versavano nella ricerca disperata di un colpevole. Gli inquirenti, probabilmente corroborati dal fanatismo e dal perbenismo imperversante da quelle parti, trovarono subito tre possibili responsabili: si trattava di ragazzi adolescenti che portavano giubbotti di pelle, ascoltavano heavy metal e si interessavano di occultismo, assurti agli orrori di cronaca col nome di “West Memphis Three”. Uno dei tre, tale Damien Echols, era già noto alla polizia come persona violenta, con qualche guaio giudiziario alle spalle; in più, tutti e tre avevano problemi intellettivi o psichiatrici e nessuno poteva fornire un alibi per quella notte.

Where the body fell, anatomy of a murder, D. Wiberg

Where the body fell, anatomy of a murderer, D. Wiberg

Le indagini svolte hanno seguito passo passo il “manuale delle cose sbagliate”: già la scena del crimine non era stata sigillata ed era stata ispezionata male troppo tempo dopo; nel corso della raccolta di informazioni non sono mancate confessioni estorte a indagati minorenni mentalmente deboli e testimonianze fallaci, rilasciate da persone in cerca di fama, prese a fondamento di ipotesi fantasiose.

Il primo grado del processo si concludeva in tempi record (la sentenza veniva emessa il 19 marzo 1994, a meno di un anno dai fatti) con la condanna all’iniezione letale per Echols, la mente del gruppo, e con le pene all’ergastolo, di cui uno “rinforzato” da quarant’anni di carcere, per i due complici.

Gli americani hanno il talento di rendere tutto un immenso spot pubblicitario: la vicenda, oltre a interessare stampa e telegiornali, ha ispirato centinaia di libri (comprese alcune biografie o autobiografie dei tre condannati) ma anche film, documentari e speciali televisivi; i tre giovani, spesso a contatto col jet set hollywoodiano, erano oramai diventati delle vere e proprie star.

Giudizialmente, i proverbiali nodi vennero al pettine molto tempo dopo. La Corte Suprema dell’Arkansas nel 2010 ordinò di ricominciare il processo; per uno di quegli strani meccanismi della giustizia americana, i tre, oramai ultratrentenni e sempre proclamatisi innocenti, venivano rilasciati nel 2011 a condizione che confessassero, così rimanendo formalmente condannati per il triplice omicidio: il secondo giudice aveva statuito che la pena già scontata (circa diciotto anni) fosse sufficiente. C’è chi ipotizza che questo sia stato un accorgimento architettato per fare in modo che gli Stati Uniti non dovessero risarcire i tre condannati per una detenzione ingiusta quasi ventennale.

Alla scarcerazione seguivano ancora interviste, copertine, titoloni a lettere cubitali e altri prodotti di consumo; Peter Jackson, proprio il regista di trilogie fantasy sempre più discutibili, nel 2012 ha diretto un altro dei molti documentari del tutto apologetici su Echols, il quale nel frattempo stringeva amicizia con Johnny Depp; i due condividono lo stesso tatuaggio (combinazione!): esattamente l’esagramma n. 9 dell’I Ching, la Forza domatrice piccola.

Interrogato sul perché avesse scelto di iniettarsi dell’inchiostro per effigiare sulla pelle proprio quel simbolo, Echols ha spiegato che in carcere ha avuto modo di approfondire il pensiero buddhista e Zen, di leggere l’I Ching e di aver voluto così valorizzare il senso dell’esagramma n. 9, ossia la perseveranza, necessaria a prevalere su ogni avversità. In un’intervista, disse: «Quando hai di fronte dei grandi ostacoli, non devi focalizzarti sulla loro grandezza, altrimenti perderai il coraggio e verrai sconfitto. Devi invece focalizzarti sul mettere un passo dietro l’altro, un po’ alla volta. Ho scritto questa cosa nel mio diario mentre ero in carcere. Be’, hanno fatto un grande concerto per cercare di farmi uscire e di portare un po’ di consapevolezza sul mio caso e una delle cose che è successa è che Johnny [Depp] è salito sul palco e ha letto un po’ delle pagine del mio diario, tra cui questa. Abbiamo scelto di condividere lo stesso tatuaggio perché ci legava»[1].

Ora, non so se i West Memphis Three siano davvero innocenti e per fortuna non è affar mio accertarlo. La maggior parte degli scritti che ho trovato a riguardo sono strenue difese nei loro confronti, mentre è difficile avere accesso al materiale accusatorio su cui sono di fatto basate due diverse sentenze di condanna. Rimane sullo sfondo qualcosa che non torna: i tre, oltre a non avere mai fornito un alibi, hanno accusato altre persone poi risultate del tutto estranee, hanno detto delle palesi bugie durante gli interrogatori e si sono contraddetti molte volte, né sono stati trovati altri possibili colpevoli.

L’unica cosa che emerge da questa faccenda è l’immenso potere dell’opinione pubblica, capace di influenzare i processi più di quanto sarebbe opportuno. In principio, i tre ragazzi sono stati indagati e accusati anche per via del contesto in cui erano inseriti: come già detto, gli Stati americani del sud sono primi esportatori di chiusura mentale e giudizi facili per le persone un minimo “diverse”. Certamente questa distorsione iniziale ha deviato il corso dell’inchiesta e ha reso del tutto inservibili parti rilevanti delle prove fornite dall’accusa, ma non può dirsi sempre e comunque infondata, ricordando le pregresse violenze e i problemi psichiatrici dei tre.

D’un tratto, dopo la sentenza di condanna e l’interesse per la vicenda, le vittime sono diventate i tre ragazzi – visti come vessati dall’intransigenza religiosa solo perché un po’ freak – e non i tre bambini. La stessa opinione pubblica che ha creato un iniziale clima di sfavore si è ampliata, diventando l’America intera. Abilmente condotta dai media e da Hollywood, ha completamente rovesciato la posizione iniziale, facendo assurgere al ruolo di martiri quelli che prima erano stati considerati dei barbari assassini satanisti.

Anche pensando ai casi di cronaca nera italiani, chi cerca di mantenere una mente aperta e di tralasciare ogni partigianeria si trova di fronte a granitiche incertezze: alle più ovvie, sull’effettiva responsabilità degli imputati, si aggiungono quelle sugli interessi privati dei rappresentanti dell’accusa e della difesa (a volte addirittura dei giudici), spesso intenzionati a farsi pubblicità per ampliare la clientela, godere delle luci della ribalta o lanciarsi in qualche stramba carriera politica; fino ad arrivare a quelle che concernono ogni sistema giudiziario, a volte incapace di fornire le dovute risposte a chi cerca giustizia; e sul ruolo dei media, spesso capaci di tralasciare o mascherare le vere informazioni utili ad affrontare i casi con maggiore efficacia e di creare invece forti attenzioni per dei brevi periodi su un certo argomento, poi fatto dimenticare nel giro di qualche settimana.

A questo mare di insicurezze, si aggiunga un altro dubbio: forse sarebbe il caso che le illazioni giudiziarie, a pari del badminton o del beach volley, diventino a tutti gli effetti discipline olimpiche.

Note:

[1] Traduzione mia, il testo originale dell’intervista può essere trovato qui.

Autore

  • Laureato in giurisprudenza – mio malgrado –, al momento tirocinante presso un giudice penale del Tribunale di Milano. Giacché è giusto definirsi con le cose che si amano e null'altro, posso inanellare alcune passioni, tra cui Milano, i ristoranti etnici e tipici, la birra, la scrittura, la musica (addirittura strimpellata), nonché i videogiochi, i giochi di carte e tutte le altre attività che escludono a priori una qualche retribuzione o il fare bella figura.