Galeotto fu il libro o chi lo scrisse?

Sul sadomaso come simbolo della letteratura

Klaus Kinski in Marquis de Sade’s Justine (1969)

Comincerei dal 1814, anno del Congresso di Vienna, fine di un’epoca rivoluzionaria contrassegnata dalla morte di uno dei suoi più controversi propugnatori, il Marchese De Sade. Sulla sua lapide, il divieto di inciderne il nome per damnatio memoriae contro la sua improbità.

La memoria è il punto chiave. Perché il barone Gilles De Rais, stupratore e serial killer del XV secolo, che non fece niente di meno del nostro marchese, non può sperare di eguagliarlo nella fama? Perché non lasciò nulla di scritto. Come mai gli svariati seduttori della storia non sono mai riusciti a far del loro nome epiteto delle arti veneree come riuscì, invece, a Casanova? Perché Casanova si rese immortale scrivendo le sue lunghe Memorie, non scordando in esse nemmeno un singolo particolare delle sue innumerevoli conquiste.

Torniamo al periodo proto-rivoluzionario, alla detenzione di De Sade nelle carceri della Bastiglia – dove verrà in contatto coi sanculotti – e dove, impossibilitato a mettere in atto i suoi eccessi, trova sfogo letterario nelle pagine dando alla luce la fiumana di inchiostro e umori che diverranno le 120 giornate di Sodoma, La nouvelle Justine e le sue altre opere principali. Soffermiamoci sulla necessità di quest’orgasmo letterario. Cogliamo l’invito di Deleuze quando dice: «Bisogna ricominciare tutto, e ricominciare dalla lettura di Sade e di Masoch. Poiché il giudizio clinico è pieno di pregiudizi, bisogna ricominciare tutto da un punto di vista situato al di fuori della clinica, dal punto letterario,che diede il nome alle perversioni». Questo breve articolo è dunque un tentativo di analisi letteraria della produzione sadiana, nella convinzione di Deleuze per il quale Sade e Masoch sono due esempi di efficacia letteraria, al punto che se il più delle sindromi e delle malattie prende il nome da coloro che le hanno scoperte (Parkinson, Asperger, etc.), in questo caso devono il loro battesimo a coloro che ne furono affetti e lo seppero esprimere in forma letteraria. Se, come dice ancora Deleuze, l’eziologia spetta alla parte medica, la sintomatologia è compito letterario ed essi si completano a vicenda. Un po’ come il tanto atteso e poi coronato incontro viennese tra Freud e Schnitzler, nel reciproco riconoscimento di analizzare entrambi il medesimo ambito d’indagine nei rispettivi campi: lo studio medico espresso con prosa ispirata, da parte dello psicanalista, l’opera letteraria carica di simbolismo psicologico, da parte dell’autore di Doppio sogno e molti altri capolavori.

Una scena del film Marat/Sade di Peter Brook (1966)
  1.  

Cominciamo dall’appartenenza a un presunto genere letterario.

L’incipit della Filosofia nel boudoir, edito nel 1795, si indirizza così “Ai libertini”:

Amanti del piacere d’ogni età e d’ogni sesso, è a voi soli che dedico la mia opera: nutritevi dei suoi principi, essi favoriscono le vostre passioni, e queste passioni, che i freddi e piatti moralisti vi dipingono come spaventose, altro non sono che i mezzi di cui la natura si serve per condurre l’uomo a realizzare i disegni che essa stessa ha su di lui; non ascoltate dunque che queste passioni deliziose; esse sono il solo strumento che deve portarvi alla felicità.

Sottolineiamo l’espressione: «È a voi soli che dedico la mia opera», per far notare l’anti-letterarietà di un’opera che né si indirizza al largo pubblico, né si propone edificante, in un’epoca in cui imperava la Nuova Eloisa di Rousseau, l’Emilia Galotti di Lessing fino ai primi romanzi di Goethe. Anche leggendo l’ouverture di Justine, si ha l’impressione di un Bildungsroman alla rovescia:

Il disegno di questo romanzo (non così “romanzo” come si potrebbe credere) è certamente nuovo; la vittoria della Virtù sul Vizio, il bene ricompensato, il male punito: ecco lo svolgimento consueto di simili opere; come si potrebbe non esserne sazi?

Anche qui, l’accento va su: «Non così “romanzo” come si potrebbe credere».

Ne risultano, al posto degli ingenui protagonisti alla Werther e Ortis, che si fanno largo nelle disavventure per rilanciare la parabola della propria maturazione, eroine al femminile che o vengono (dis)educate alla lascivia da assetati Pigmalioni, come la Eugénie del boudoir, oppure donne spudorate disposte a tutto per garantirsi il diletto, come la signora di Saint-Ange che, vantando di aver accolto nel suo letto fino a dodicimila uomini e aver trascorso una notte con quindici amanti ed essere stata posseduta ben novanta volte in ventiquattro ore, dimostra di sublimare nel sesso quella sete di conoscenza che appartiene al recluso De Sade, cui tocca esorcizzare l’impulso sulle pagine.

L’ottusità del marchese verso il femminile, nel reputarlo semplice oggetto della lubricità maschile, insieme all’ignoranza che gli fa qualificare il dolore provato dalla donna mero come viatico al piacere, al punto che la quindicenne e vergine Eugénie può farsi penetrare da un fallo di più di tredici pollici e, una volta stretti i denti per la rottura dell’imene, sentirsi già predisposta a goderne, non sviino dal messaggio rivoltoci fra le righe dall’autore. Le sensazioni morali sono ingannevoli, scrive nel Justine, quelle fisiche soltanto paiono veridiche, e in esse il piacere può venire teatralizzato dalla donna, mentre il dolore no, quello è autentico per forza.

Se è vero, infatti, che la stessa Saint-Ange insegna meschinamente a Eugénie che la donna non deve avere altro desiderio che «farsi fottere dal mattino alla sera», è anche vero ch’ella è perciò autorizzata a liberarsi al più presto del marito, il che per un’epoca stretta dal giogo religioso, familiare e matrimoniale è assai rivoluzionario. De Sade, insomma, mette a segno un pamphlet, e per farlo si ispira a gente come Hobbes, come Mandeville, come Smith, e prelude all’Elogio del crimine marxiano, facendo dell’illecito, del libertinaggio e dell’assassinio il diritto delle classi subalterne. Tanto, come dice lui stesso, vizi e virtù si confonderanno tutte nella bara.

La figura centrale del Cavaliere, nel Boudoir, si farà quindi portavoce di grandi idee per il progresso dei lumi, insistendo sull’immoralità che, a dispetto della pace morale, può scatenare moti rivoluzionari.

Potremmo definire quelli di De Sade libelli e anti-romanzi di formazione, indirizzati alla nuova classe borghese, che trae dalla lettura prurito e piacere intellettuale, nell’intuizione tutta sadiana che la Ragione è la nuova forma di passione. Questo farebbe di De Sade un trade d’union fra Illuminismo e Romanticismo, nella scoperta che, per dirla con Bataille, l’erotismo è la sessualità di un essere cosciente. Che la sessualità sta all’erotismo come il cervello sta al pensiero.

Egon Schiele, The lovers (1917)

2.

Per rivolgerci allo stile, osserviamo Eugénie soddisfare le proprie morbose curiosità attraverso domande spregiudicate. Il modello è quello delle brachilogie socratiche, filtrate dal revival del dialogo filosofico di Voltaire e Diderot.

E qui va notato che la particolarità di De Sade, nonostante la fama attirata dalla scabrosità dei suoi contenuti, non sta nella perversione, bensì nella predisposizione filosofica. Che ne è stato, ancora una volta, di tutti i depravati della storia incapaci di restituire e universalizzare le loro foie in forma intelligibile? Similmente alla querelle sui ciechi, che fra Sei e Settecento coinvolse autori che vanno da Locke, a Berkeley fino a Molyneaux, nel chiedersi cosa sarebbe delle loro cognizioni se potessero riappropriarsi della vista, finché Diderot espose il caso di Sutherland, fine pensatore cieco che, riacquisita parzialmente la vista, seppe esprimere i propri risultati in chiave filosofica grazie alle proprie conoscenze. Della serie, anziché insegnare filosofia a un cieco, ridoniamo la vista a un filosofo. Questo azzardato paragone, per dire che la forza espositiva di De Sade trova nella turpitudine solo la benzina, ma il motore sta nella sua intima vocazione letteraria e filosofica.

Il risultato stilistico è quello di un dialogo anfibio, che non può giovare né della descrittività del discorso indiretto, né dell’immediatezza della rappresentazione. Sono dialoghi che alludono a una teatralità ma, per scabrosità, escludono la mise-en-scène e rabberciano il realismo delle improbabili digressioni con scarni e spassosi a-parte tipo: “Si tenga conto che le masturbazioni proseguono durante tutto il dialogo”.

Dialoghi ai limiti dell’assurdo, a volte, come quelli emblematizzati dal calembour riferitoci da Deleuze del masochista che, incontrando il sadico, gli dice: “Fammi male”, ma gli viene risposto: “No”. Fa bene Blanchot a puntare la freccia verso Lautréamont, eletto da Breton antesignano del surrealismo, poiché a volte leggendo De Sade si profila lontana l’ombra di Beckett.

Sono dialoghi, quindi, combattuti fra due esigenze. Da una parte l’esigenza dell’ecfrasi, cioè della restituzione didascalica dei particolari pornografici per bocca dei personaggi, come quando la signora di Saint-Ange, per introdurre Eugénie, dice che è inutile tentare di descriverne le stupende fattezze, poiché quanto a bellezza è al di sopra del suo pennello, al che il Cavaliere la prega:

Ma datemene almeno uno schizzo, se non vuoi farne il ritratto, in modo che, sapendo almeno vagamente con che cosa sto per avere a che fare, mi riempia meglio l’immaginazione dell’idolo al quale devo sacrificare.

Dall’altra parte, appunto, l’impossibilità di colmare nelle parole questa sete di realismo, come quando Eugénie prega Dolmancé di farsi raccontare i particolari delle loro avventure erotiche, e si sente rispondere:

Bella Eugénie, preferirei cento volte vedervi provare quello che farei, piuttosto che raccontarvi quello che ho fatto. In critica letteraria si direbbe che qui lo showing prevale sul telling ma, allo stesso tempo, ne ha bisogno euristicamente per incapacità dell’ipotiposi. Ancora Blanchot centra il punto, quindi, quando ravvisa la fusione fra opera letteraria e suo commento, come tradizionalmente avviene negli scolii, dicendo che la critica letteraria non è più esterna, bensì «inseparabile dall’intimità dell’opera», poiché lo stesso avviene ai personaggi sadiani, perennemente situati in posizione sia intra- che extra-diegetica.

Una scena del film Salò o le 120 giornate di Sodoma (1976)

3.

Arriviamo quindi al rapporto fra autore, personaggi e lettore.

Klossowski, proponendosi di analizzare l’esperienza di Sade tradotta nella scrittura, si chiede: «Cosa significa per Sade il fatto di pensare e di scrivere, rispetto a quello di sentire o di agire?»

Significa che è l’autore il primo ad assumere una postura in bilico fra il narrativo e il meta-narrativo, preludendo così alla caratura dell’artista decadente che, come Wilde, fa opera di sé stesso, poi innalzata a totem dall’arte contemporanea. Se, dunque, sia il personaggio che l’autore metamorfizzano l’uno nell’altro grazie alla capacità di sperimentare l’alterità del corpo estraneo come fosse il proprio – nucleo fondante dell’istanza perversa e del tema dell’empatia, – ciò finisce per contagiare anche il lettore, favorendo l’immedesimazione fra personaggio e lettore. Quest’ultimo godendo per procura grazie al primo, in contumacia. Certo il rischio, direbbe Lacan, è che – come avviene nella pornografia – chi scopa non gode e chi gode non scopa. Rischio che si gioca nel rapporto, appunto, fra attività e passività. Gli estremi letterari sono quelli della prosa satura di parole e legende che si riversa su un lettore passivo, mentre la poesia richiede che il lettore colmi del proprio vissuto le metafore offerte.

Il rapporto comincia così a ricalcare quello dei ruoli nel gioco del sadomaso. Quando lo scrittore russo Vasilij Andreevič Žukovskij disse che solo ciò che è stato scritto con fatica può essere letto con facilità, ci racconta qualcosa di questo gioco, simbolizzato dall’idea sadiana che infiniti dolori inferti alla vittima valgono il singolo piacere che fruttano in cambio all’edonista, autentico fruitore della sua stessa opera.

E quindi, a cascata, il binomio comincia a cucirsi. Il patto fra il masochista e la donna amata, redatto da Sacher-Masoch e posto a fondamento del suo impeto, è analogo al patto implicito fra lo scrittore e il lettore di lasciarsi “convincere” dal verosimile elargitogli dall’opera.

Il rapporto che consegue a questo patto, cioè la dialettica divieto-trasgressione, come riconosce anche Bataille, ha a che fare a sua volta col dominio del linguaggio. Basti pensare che prima dell’insorgere del romanzo moderno, sempre la produzione letteraria era compromesso fra adeguamento alle regole liriche ed eversione dalle stesse. Innovazione nella continuità, così nello stilnovismo come nella poesia araba e persiana.

E, infine, il concetto di sospensione che proviene dall’istanza sadomasochista e che dipende dalla messa in essere di questo patto vizioso, in attesa di un suo scardinamento, è parente stretta della celebre “sospensione d’incredulità” che, a detta di Coleridge, fa da conditio sine qua non all’esperienza letteraria.

Toulouse-Lautrec, The woman lying on her back (1896)

4.

Affinché avvenga questa magia, occorre affilare a dovere il registro linguistico e conferire potere alla parola. Diamo parola, appunto, alla signora di Saint-Ange:

Ah! Fottiamo! Fottiamo!… non posso più trattenermi; su questi discorsi ci torneremo sopra, Dolmancé, ma per aggiungere verosimiglianza alle vostre confessioni, non voglio ascoltare che a mente fredda. Quando siete eccitato, vi piace dire cose orrende, e sareste capace di farci passare per verità le fantasticherie libertine della vostra immaginazione eccitata.

L’immaginazione, per dirompere, va tenuta sotto controllo. Occorre che qualcuno degli interpreti si incarichi di dirigere la scena, di porre la mente al servizio delle gonadi per meglio distillarle. Di qui l’anfiteatro della voluttà come luogo deputato a contenerla, un po’ per catarsi un po’ per ostracismo.

Mettiamo, vi prego, un po’ di ordine in queste orge, ci vuole, anche nel delirio e nell’infamia.

Dice Saint-Ange, quasi scimmiottando l’amletica follia con metodo, finché Dolmancé ribatte:

Niente di più semplice: la cosa più importante, direi, è che io possa eiaculare dando a questa incantevole ragazzina il maggior piacere possibile. Le metterò la mia verga nel culo, e voi, tenendola china tra le vostre braccia, la masturberete come meglio saprete; vi sistemerò in una posizione tale che lei possa fare altrettanto con voi: vi bacerete l’un l’altra. Dopo qualche escursione nel culo di questa bambina, cambieremo quadro.

Trattasi di “quadro”, appunto, di tableau, in tutta la fredda cornice che gli fa da contesto. Quando Dolmancé orchestra l’azione, sembra di sentire il taglio del nastro di un film a luci rosse, durante il quale gli attori cambiano macchinalmente posizione.

La scena in cui Eugénie si vede circondata di specchi e rimane metà perplessa metà sedotta dall’auto-voyeurismo, basti da sola a significare questo schema. Ricorda la scena di American Psycho in cui Patrick Bateman consuma un ménage-à-trois guardando soltanto sé stesso riflesso allo specchio e gloriandosi del proprio esercizio pelvico.

L’immaginazione e la parola, come anticipato, sono le armi di questa giostra. Nelle pagine sadiane la parola è nerboruta, i personaggi si incitano con la bestemmia, la povera verginella viene sedotta più dalle tirate filosofiche di Dolmancé che dalle sue avances. È un linguaggio esclamativo, imperativo, denso di parole d’ordine. Se vogliamo dirla classicamente con Austen, Sade si serve di enunciati performativi. Sade raccoglie l’eredità di Bacone secondo cui sapere è potere e preannuncia la conclusione di Foucault: potere è sapere, ogni forma di potere elegge il proprio vocabolario coercitivo. Il registro sadiano è specchio del ribaltamento di poteri della Francia dell’epoca, a cavallo fra Rivoluzione e Restaurazione.

Possiamo confrontarlo con la temperie socio-politica del tardo romanticismo masochiano, leggendo un appunto sulla Venere in pelliccia scritto da Sacher-Masoch:

Credo che ogni creazione artistica si sviluppi nello stesso modo con il quale questa femmina sarmata si è formata nella mia immaginazione. Dapprima esiste nello spirito di ciascuno di noi una disposizione innata ad afferrare un soggetto che sfugge alla maggior parte degli altri artisti; poi si aggiungono a tale disposizione le impressioni della vita che presentano all’autore la viva immaginazione della quale esiste già il prototipo nella sua immaginazione.

L’immaginazione serve a Sade per scolpire un carattere superomistico armato della parola per soggiogare i propri obiettivi erotici. Nelle mani di Sacher-Masoch, invece, dà voce a colui che si lascia sopraffare dall’immaginazione, incarnata dalla donna, al fine di obbedirle. Masoch prelude la figura dell’inetto che troverà poi icona in Svevo, in Dedalus o in Kröger, quest’ultimo convinto che in amore c’è sempre uno che ama e soccombe a chi viene amato che risulta vincitore, contraltare condiviso anche da De Sade, con la differenza che lui regala l’arma della parola a al trionfatore. La storia la fanno i vincitori.

Giustamente, quindi, Deleuze riassume dicendo che il masochismo è una storia in cui si narra la sconfitta del Super-io, il sadismo è invece la storia in cui si narra l’ascesa e la caduta dell’Io. In quanto storie, archetipiche, devono fare entrambe uso della mitologia e, appunto, dell’immaginazione, mediante il simbolo. Perciò hanno bisogno di una veste letteraria.

Deleuze aggiunge che per ribaltare tali fattori fa d’ariete l’ironia, e argomenta con un excursus che qui sintetizziamo all’osso. Con Kant, dice Deleuze, avviene un rovesciamento etico: non è più la Legge a derivare dal Bene, ma il Bene a dipendere dalla Legge morale. Se tale Legge, come scopre Lacan, maschera il desiderio represso, allora ha ragione Freud a riformulare tale rovesciamento dicendo che non è la rinuncia alle pulsioni a provenire dalla coscienza morale, bensì quest’ultima effetto della rinuncia. Ne consegue uno scherno, «l’umorismo masochista»: il divieto non impedisce il desiderio, anzi, lo consente.

Come dicono i tedeschi: das Verbot ist der Motor der Lust.

L’ironia è esattamente il piano stilistico di De Sade, il quale vuole disfarsi della bigotteria e dei falsi miti, ma per abbatterli fa dire a un suo personaggio: «Solo prendendovi gioco degli Dèi, li distruggerete». Prefigura quasi l’ironia romantica.

È Dolmancé a proporsi ridicolmente all’eccitabile novizia come suo nuovo dio e viene perciò definito «uomo divino, uomo di genio», ancora una volta aprendo la strada al genio romantico e all’anticristo nietzscheano.

È giusto, quindi, attribuire a De Sade parte del merito e della responsabilità della caduta della monarchia francese, perché se marxianamente ogni fenomeno muore due volte, l’una tragicamente, l’altra comicamente, a De Sade si deve il coup de grâce sottoforma di capitombolo farsesco. E arriviamo così agli ultimi due temi, che fanno capo ad altrettanti spunti letterari. La ripetizione e la distruzione.

Una scena dal film Shame di Steve McQueen (2011)

5.

Le 120 giornate si cingono di un orlo narrativo preso in prestito dal Decameron e dalle Mille e una notte, in cui i personaggi si recludono in uno spazio a parte non solo per consumare i propri piaceri, ma soprattutto per identificarsi nella loro auto-narrazione. Deleuze parla giustamente di “pornologia”.

Col l’antologia boccaccesca e le fiabe persiane condivide quindi, oltre alla pruderie, il gioco di mise en abyme, ossia la ricorsività. Il Duca, parlando con le giovinette prescelte a soddisfare i libertini, le educe sul fatto di potersi considerare già morte, morte di una morte infinita.

Come già ampiamente segnalato dalla critica, la reiterazione apatica delle oscenità sadiane mira a una trasgressione permanente per evitare di cadere nel baratro dell’abulia. Il metodo è quello del rifacimento a sangue freddo di quanto appena compiuto sull’onda della frenesia.

Già Charles Nodier affermava che De Sade risulta quasi innocente, a furia di colpevolezza. E quando il personaggio di Clairwill, sempre in Sodoma, ambisce un crimine capace di perpetuarsi anche quando non viene compiuto, persino – dice – quando dorme, ecco che il medium della scrittura viene in soccorso. Cos’è la scrittura stessa, infatti, se non urgenza di perpetuarsi mediante il linguaggio, analoga al bisogno biologico di riprodursi?

Tuttavia, quando è la letteratura a servirsi dell’erotismo può scatenarsi nel lettore una tensione. Quando invece è l’erotismo a servirsi della letteratura per mera sopravvivenza, l’effetto è di noia, di onanismo letterario. La letteratura scade in forma di intrattenimento e avvia all’Utopia del Male.

C’è, in questo legame con il discorso letterario, da non dimenticare appunto l’importanza del medium. All’epoca di De Sade prende sempre più piede la stampa, che diventa arma politica e indice di ridistribuzione del potere. Se la libertà di coscienza ha per megafono la libertà di stampa, è bene che si legga a chiare lettere nei contenuti licenziosi, per dimostrare la loro conquistata vetrina.

La deviata uguaglianza dei corpi e delle forme di soddisfacimento, su cui De Sade basa di fatto la sua teoria politica, ha direttamente a che fare con la riproducibilità tipografica di cui parla McLuhan. L’oggetto libro diventa così il feticcio di una nuova fonte di piacere, un giocattolo erotico che dura nel tempo e si offre in serie a un’utenza sempre meno d’élite.

Deleuze dà spessore a questo concetto, ricordando la teoria freudiana in Al di là del principio di piacere. Nulla sfugge al piacere, dice Freud, ma a furia di reiterarlo si accumula una sorta di residuo, un surplus che identifica precisamente lo slancio vitale, che sa appunto slanciarsi rispetto al mero edonismo. Somiglia alla nozione di Mehr-Leben di Simmel, dove la vita riproducendo sé stessa, aggiunge un di più che esonda dai propri scopi primari e ricerca l’atto non più in vista della generazione, donde l’erotismo, ed elegge Eros e Thanatos come segnaposto degli estremi di ripetizione e unicità.

Il linguaggio obbedisce a questa stessa polarità, poiché si muove nella stretta feritoia fra tautologia, ossia ripetizione dell’identico, e contraddizione, annullamento. Si possono dire solo quelle cose che non sono né truismi né aporie.

Ukiyo-e di Hokusai dalla serie Shunga

6.

Di conseguenza, infine, l’impulso di morte.

Amélie, altro personaggio sadiano, dichiara di voler cadere vittima del libertinaggio, prima o poi. Pensiamo al caso, altrettanto allettante per i critici francesi del Novecento, di Sada Abe in Giappone, restituita in pellicola dai film Ecco l’impero dei sensi di Oshima e Abesada di Tanaka. Una geisha e un ricco signore che si rinchiudono in casa per dedicarsi all’amore e alla pratica erotica, fino alla morte di uno dei due per espresso desiderio.

In Sade l’impulso di morte sprizza ovunque e identifica l’erotismo così come lo definisce Bataille, ossia un’esperienza negativa assimilabile all’antitesi hegeliana. Ci sarebbe da fare un ricamo sul rapporto sadomasochista in relazione alla dinamica servo-padrone, ma qui ci si può accontentare riconoscendo in essi l’innesco dell’ordigno letterario, assegnando a De Sade il ruolo di antesignano di un’estetica del brutto, definiamola così, che attraverso E.T.A. Hoffman, passando per De Quincey e molti altri, arriva fino a Jean Genet e Mishima nell’idea della distruzione dell’opera d’arte come atto di assolutizzazione.

Ironia della sorte, l’opera monumentale di De Sade fu perduta nei moti rivoluzionari durante la presa della Bastiglia e fu riscoperta soltanto per caso, a inizio Novecento, da un libraio tedesco. De Sade, che visse il resto della propria vita nella convinzione di aver sprecato il proprio seme, si assegna così alla schiera che ha in testa Kafka, la cui eredità fu assunta e tradita da Max Brod, nonché al concetto di dépense di Bataille.

La renaissance di Sade a opera di Baudelaire, di Huysmans e di Flaubert azzecca così il saldo principio sadiano che ciò che è oltraggiato deve venir mantenuto per far da sostegno alla trasgressione. Pienamente in linea con, ancora una volta, l’esito della dialettica servo-padrone, così nella lettura di Kojève, ma anche dell’ambiguità antimanichea che aleggiava tra fine Settecento e inizi Ottocento di una figura capace di operare in vista del male, eppure risultare benefico, così nel personaggio di Jesrad nello Zadig di Voltaire e nel Mephisto del Faust.

Klossowski la definisce una delectatio morosa, ovvero un “piacere ritardato”, che risolve esattamente il ruolo della letteratura come simulacro post festum.

Blanchot ne fa la massima su cui sviluppa l’intera sua opera La scrittura del disastro, dove la letteratura postmoderna punta ormai alla negazione di sé stessa sottoforma di silenzio, Wittgenstein e Heidegger insegnano.

Felix Vallotton, ritratto di Lautréamont (1896)

Chiudere col silenzio dovrebbe essere lo scopo di ogni prolusione.

Deleuze ricorda che il libertino viene eccitato non dagli oggetti presenti, bensì dall’Oggetto assente, da cui ricava l’idea del Male. Nella teologia classica, così come nella teodicea islamica, Satana è invincibile proprio perché non esiste.

All’insegna della formula più prossima alla teologia negativa, ossia la poesia, si crea così un legame fra erotismo, poesia e silenzio. «L’attività sessuale», dice Bataille, «ha gli stessi privilegi della poesia […] il corpo, nella sua animalità, è poetico, è divino». Non a caso Bataille non può a meno di citare i poeti. Baudelaire, per fargli dire che la voluttà suprema dell’amore consiste nell’operare il male, e Rimbaud, per dimostrare che «la poesia conduce al punto stesso in cui porta ogni forma di erotismo, vale a dire all’indistinto». La sua similitudine fra l’erotismo e la mistica sfocia inevitabilmente nella poesia, e fa dell’esperienza erotica una forma di santità sotto l’egida del silenzio. «Ho voluto usare un linguaggio uguale a zero», dice Bataille, «un linguaggio che sia l’equivalenza del nulla, un linguaggio che torni al silenzio».

Se dunque ha ragione Rodolfo Wilcock a disegnare il grafico della storia letteraria partendo dal lettore presente nell’ascolto della tradizione orale, passando per il lettore assente così nella veste scritturale e nella forma libro, profetizzando un domani in cui la letteratura punterà al lettore zero e si accartoccerà su sé stessa, possiamo rinvenire in germe questo destino già nell’opera di Sade.

Se ne accorgerà anche Klossowski, estrapolando nel meretricio delle opere sadiane il succo dell’estasi ineffabile alla parola, il che rende Sade un autore di fatto illeggibile. Farà eco Blanchot, dicendo che Justine et Juliette è di fatto l’opera più scandalosa mai scritta proprio perché l’autore l’ha resa cinicamente illeggibile, l’ha voluta trasformare in un mistero. Benvenuto quindi il suo confronto tra la figura di De Sade e quella di Lautréamont. Di più, come fa Sini in Passare il segno parlando delle vite parallele di Giordano Bruno e Nietzsche, intendiamoli anche noi come alter-ego, come passaggi di testimone nel martirio della letteratura, poiché entrambi capaci di passare il segno sia in senso stretto che figurato.

I Canti di Maldoror, infatti, si aprono con un esergo anti-letterario e anti-storico fatto per scoraggiare il lettore, ribaltando la captatio benevolentiae:

Plût au ciel que le lecteur, enhardi et deven umomentanément féroce comme ce qu’il lit, trouve, sans se désorienter, son chemin abrupt et sauvage, à travers les marécages désolés de ces pages sombres et pleines de poison ; car, à moins qu’il n’apporte dans sa lecture une logique rigoureuse et une tension d’esprit égale au moins à sa défiance, les émanations mortelles de ce livre imbiberont son âme comme l’eau le sucre. Il n’est pas bon que tout le monde lise les pages qui vont suivre.

Bibliografia:

– De Sade, Opere, a cura di Paolo Caruso, Mondadori, Milano 2006.

– De Sade, Justine, trad. it. Giovanni Mariotti, Mondadori, Milano 2012.

– Leopold von Sacher Masoch, trad. it. Alessio Melitretto, Venere in pelliccia, Bompiani, Milano 1985.

– Georges Bataille, L’erotismo, trad. it. Adriana Dell’Orto, SE, Milano 2017.

– Gilles Deleuze, Il freddo e il crudele, trad. it. Giuseppe De Col, SE, Milano 2007.

– Maurice Blanchot, Lautréamont e Sade, trad. it. Vincenzo Del Ninno, SE, Milano 2003.

– Pierre Klossowski, Sade prossimo mio, trad. it. Gaia Amaducci, SE, Milano 2017.

– Lautréamont, Les Chants de Maldoror, Librairie Générale Française 2001.

Autore

  • Federico Filippo si risveglia dal sonno dogmatico nella bella facoltà di Filosofia in Statale e si riaddormenta con gli studi a Venezia. Tornato a Milano, dopo il gong della laurea in Scienze Filosofiche, inizia collaborazioni con la cattedra di Estetica e nel frattempo, in fuga dall’accademismo, ha la fortuna di radunare un gruppo di ragazzi pieni di stoffa e fondare la rivista di arte e cultura La Tigre di Carta, cui segue l’Associazione culturale La Taiga che gestisce il teatro e circolo culturale Corte dei Miracoli. Fra editoria ed eventi, gioca col violoncello il bridge e lo yoga. Tutto ciò non fa bene alla salute... meglio scrivere!